Eminente manipolazione del cardinale Zuppi contro la riforma del premierato

Dalla versione digitale del Corriere della Sera

         E’ diventato nel solito, forzato racconto giornalistico e politico un “altolà” del cardinale Matteo Zuppi, nella conferenza stampa conclusiva dell’assemblea episcopale italiana, l’annuncio, l’ammissione -chiamatela come volete- di “qualche vescovo” che aveva espresso “preoccupazione” nel parlare della riforma costituzionale all’esame del Parlamento sull’’elezione diretta del capo del governo. “Qualche vescovo” -ripeto- è diventato la Conferenza nel suo complesso, e lo stesso cardinale.

Dalla prima pagina di Repubblica

Il porporato si è invece limitato a chiedere, auspicare, consigliare, avvertire, raccomandare -anche qui come volete- “molta attenzione” a intervenire sugli “equilibri” contemplati o derivati dalla Costituzione in vigore dal 1948. Peraltro già cambiata, come nel caso dell’articolo 68 sulle immunità parlamentari, cambiato sotto la spinta delle indagini del 1992 sul finanziamento illegale dei partiti e risoltosi in quello che Giorgio Napolitano da presidente della Repubblica definì “un forte squilibrio” a scapito della politica e a vantaggio del potere o ordine giudiziario.

Titolo di Avvenire

         Il cardinale Zuppi conosce bene gli inconvenienti dei conflitti, che non sono solo quelli militari di cui si occupa su incarico del Papa a proposito dell’Ucraina invasa dalla Russia di Putin, ma anche quelli duri nelle sedi proprie della politica. Dove per mitigare i contrasti, per varare e realizzare riforme “non di parte”, come lui ha detto, bisogna aspettarsi buona volontà, quanto meno, di tutti. E non solo della maggioranza o del governo di turno.

Elly Schlein

         L’opposizione annunciata e praticata dagli avversari del premierato è addirittura fisica, condotta con “i corpi”, come ha detto la segretaria del Pd Elly Schlein promovendo la manifestazione del prossimo 2 giugno al Testaccio, a Roma. Al Senato le opposizioni hanno presentato ostruzionisticamente migliaia di emendamenti costringendo la maggioranza a ricorrere al cosiddetto contingentamento dei tempi previsto dal regolamento, e quindi pienamente legittimo. Eppure siamo appena al primo dei quattro passaggi parlamentari della riforma.

A quale “parte” allora alludeva il cardinale Zuppi raccogliendo forse la preoccupazione di “qualche vescovo” e raccomandando -ripeto- attenzione, anzi molta attenzione? Ne può, anzi ne deve chiedere in modo esplicito e chiaro- se ritiene proprio non dico di interferire ma di intervenire- a tutti. E ciò per evitare di vedersi poi attribuire quell’”altolà” tanto comodo, anche in questa fase conclusiva della campagna elettorale per il voto dell’8 e 9 giugno, agli avversari del governo.

Fanfani nella storica vignetta di Forattini sul divorzio

Se l’altolà -quello sì vero- dei vescovi al divorzio si risolse in un referendum fallimentare per la Chiesa, e per la Dc che si accodò col segretario Amintore Fanfani saltato nel 1974 come un tappo dalla bottiglia di champagne nella storica vignetta di Giorgio Forattini, figuriamoci quanto male potrebbe concludersi quello che Zuppi si è visto attribuire sul premierato.

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Eppure il vento elettorale continua a soffiare sulle vele del centrodestra

Dalla prima pagina della Stampa

Per quanto “in tilt”, come lo rappresenta La Stampa per il pasticcio del decreto sul redditometro sospeso dalla premier Giorgia Meloni sconfessando il suo collega di partito e vice ministro dell’Economia Maurizio Leo, già soprannominato “Dracula” dagli amici, continua a soffiare il vento delle elezioni europee sul centrodestra.

Giorgia Meloni d’archivio col vice ministro Maurizio Leo

         Dall’ultimo sondaggio dell’Ipsos di Nando Pagnoncelli consentito prima del voto dell’8 e 9 giugno la Meloni porta a casa un 26,5 per cento che supera di ben 20 punti il risultato delle analoghe elezioni del 2019. E di mezzo punto quello delle elezioni politiche del 2022 assegnatosi prudentemente dalla premier come obiettivo di questo turno, consapevole delle difficoltà di una campagna elettorale rischiosa come quella in corso da ben prima del deposito dei simboli e delle liste. Il mese scorso lo stesso istituto di ricerca di Pagnoncelli le aveva assegnato due punti in più.

Antonio Tajani e Matteo Salvini

         Sempre dal sondaggio dell’Ipsos appena diffuso dal Corriere della Sera i forzisti di Antonio Tajani e i moderati di Maurizio Lupi escono col 9,2 per cento delle intenzioni di voto, inferiore al 10 su cui scommette nelle interviste e nei comizi il successore di Silvio Berlusconi ma superiore all’8,6 della Lega di Matteo Salvini. La cui caduta dal 34 per cento delle elezioni europee del 2019 -ventisei punti- è ancora più vistosa e clamorosa del salto della Meloni. Se ne vedranno i contaccolpi fra i leghisti dopo il 9 giugno. Ma solo fra i leghisti, essendo difficile immaginare conseguenze sulla tenuta della coalizione di governo, per quanto vi scommettano comprensibilmente le opposizioni.

Nicola Zingaretti

         Sul versante opposto il sondaggio dell’Ipsos ha assegnato un 22,5 per cento al Pd abbastanza consolante per la segretaria Elly Schlein, che riesce a distanziare di quasi cinque punti il capo delle 5 Stelle Giuseppe Conte. Che è il suo potenziale alleato nelle elezioni politiche ordinarie del 2027 ma oggi antagonista della corsa alla leadearship della cosiddetta area progressista autolesionisticamente conferitagli qualche anno fa dall’allora segretario del Nazareno Nicola Zingaretti: tanto autolesionisticamente da doversi poi dimettere e passare la mano ad Enrico Letta, richiamato da Parigi, Dove si era quasi rifugiato fuggendo da Matteo Renzi, che lo aveva detronizzato a Palazzo Chigi.

Conte nella vignetta di ItaliaOggi

         Oltre ai cinque punti di distacco dalla Schlein, l’ex premier Conte deve registrare in questi giorni, fra proteste e minacce di ritorsione neppure tanto velate, il colpo assestatogli dal commissario europeo Paolo Gentiloni, suo predecessore a Palazzo Chigi, rivelando la natura quasi cabalistica -più da algoritmo che da lotta durissima  nei vertici europei ai quali aveva partecipato da presidente del Consiglio- di quei duecento e rotti miliardi di euro ottenuti dall’Unione per il piano di ripresa dell’Italia dalla crisi pandemica del Covid. Quel naso alla Pinocchio allungatogli oggi nella vignetta di ItaliaOggi su fondo rosso non deve essergli piaciuto.

Le scommesse di Dario Franceschini sul….passato e sul futuro

Dal Dubbio

A leggere l’ex ministro Dario Franceschini sul Corriere della Sera, intervistato da Maria Teresa Meli, ci sarebbe una curiosa gara di autolesionismo fra lo stesso Pd e Giorgia Meloni. Il cui premierato, proposto al Parlamento con l’elezione diretta del presidente del Consiglio, sarebbe “devastante” per la maggioranza di centrodestra, è convinto il democristiano figurativamente più alto in grado rimasto al Nazareno.  “Un boomerang”, sottovalutato con incredibile leggerezza dagli alleati della destra, Matteo Salvini e Antonio Tajani, nell’ordine della loro attuale consistenza elettorale, e destinato ad esplodere alla fine della legislatura.

L’intervista di Franceschini al Corriere della Sera prima di intervenire al Senato

         Franceschini prevede che “la madre di tutte le riforme” voluta dalla Meloni arriverà al referendum di verifica nel 2026, un anno prima cioè del rinnovo ordinario delle Camere, quando di solito i governi in carica sono sfiniti, o quasi, e debbono solo aspettarsi di perdere le elezioni. Nessuno di quelli succedutisi negli ultimi trent’anni -ha calcolato Franceschini- è uscito indenne dalle urne. Non capisce, l’ex ministro, perché quello della Meloni, lo stesso di oggi o quello eventualmente rimpastato, debba o possa sottrarsi a questa regola di carattere ormai mondiale, e non solo italiano. Già, perché?

Franceschini e Conte d’archivio

         Perché forse -sospetta Franceschini- la premier pensa che le opposizioni continueranno ad essere divise, incapaci di farsi federare da qualcuno per contrapporsi al centrodestra. Invece, sempre secondo Franceschini, sarà proprio il bipolarismo connaturato nel premierato a fare il miracolo del Pd finalmente alleato col Movimento 5 Stelle, non importa se con Giuseppe Conte ancora leader e aspirante a tornare a Palazzo Chigi o un altro al suo posto, visto che i rapporti fra l’ex premier e il Nazareno sono appena peggiorati. Vi ha contribuito il commissario europeo, e piddino, Paolo Gentiloni contestando il merito attribuitosi per intero da Conte nell’aggiudicazione dei duecento e rotti miliardi della Ue a favore della ripresa italiana dopo il Covid.  

Franceschini e Renzi d’archivio

A parte queste ed altre polemiche, le cose per Franceschini saranno più forti delle persone. E mentre il tanto controverso campo largo si realizzerà la Meloni non potrà aspettarsi dal referendum sulla sua riforma un risultato diverso da quello ottenuto da Matteo Renzi nel 2016. E ciò pur senza commettere l’errore di Renzi di condizionare esplicitamente la sorte del governo a quella della riforma intestatasi.

Franceschini e D’Alema d’archivio

         Se le cose tuttavia stessero davvero come Franceschini le immagina, prevede e sciorina con la certezza quasi di un matematico, uguale a quella che  mette ogni volta che nel Pd si riacutizza la gara alla segreteria e lui scommette sul candidato, o la candidata destinata a vincere, come accadde l’anno scorso con Elly Schlein; se le cose, ripeto, stessero davvero come Franceschini le immagina, prevede e sciorina, non si si capisce per quale ragione al Nazareno siano tanto agitati, tanto mobilitati, tanto ossessionati dal premierato. Che pure la sinistra all’epoca della commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, nel 1997, prospettò  in una versione dichiaratamente, orgogliosamente “forte”: parola dell’allora relatore Cesare Salvi.

Franceschini ed Enrico Letta d’archivio

         Al Pd, senza strapparsi vestiti, capelli e persino barba, nel caso di Franceschini, potrebbe bastare e avanzare una riposante attesa, assecondando il presunto suicidio della Meloni. Invece la Schlein ha già prenotato per il prossimo 2 giugno la piazza romana del Testaccio. Dove partì peraltro la sfortunata corsa di Enrico Letta alla segreteria del Pd dopo le improvvise dimissioni di Nicola Zingaretti, sfiancato dalla suicida promozione di Giuseppe Conte, in tandem con Goffredo Bettini, al “più alto punto di riferimento dei progressisti in Italia”.

Giorgia Meloni

Fu una corsa sfortunata al Nazareno, quella di Letta junior rispetto all’anziano zio berlusconiano Gianni, perché sfociata nel 2022 nelle elezioni anticipate vinte dal centrodestra a trazione già chiaramente meloniana. Una vittoria reversibile quasi per algoritmo, secondo il forse troppo ottimista, fiducioso Franceschini. Che, autore anche di romanzi, oltre che politico, potrebbe questa volta sbagliare la trama. Chissà. C’è sempre una prima volta nella vita propria, o degli altri, a sorprendere tutto e tutti.

Pubblicato sul Dubbio

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Il generale Mario Mori ostaggio di una giustizia semplicemente incredibile

Dalla prima pagina della Stampa

         “All’ungherese”, ha titolato La Stampa, su un commento di Mattia Feltri, a proposito del generale Mario Mori finito sotto indagine a Firenze per le stragi di mafia del 1993. Un titolo a rischio di crisi diplomatica perché l’Ungheria, che ha appena concesso gli arresti domiciliari a Ilaria Salis sotto processo con l’accusa di avere malmenato dimostranti di destra, potrebbe protestare, offesa, attraverso il suo governo.

Dalla prima pagina del Riformista

         Neppure in terra magiara la magistratura, indipendente o non che sia dal presidente Viktor Orban, variante di Orbace secondo i suoi critici,  arriverebbe ad accusare un generale come Mori, già plurimputato assolto in via definitiva per vicende più o meno analoghe, di indagarlo “a morte”, come ha titolato il Riformista giocando sugli 85 anni appena compiuti dall’interessato. Ma si potrebbe scrivere anche “a vita”, condividendo la fiducia del generale espressa, pur dopo una vigorosa protesta, di potersi godere il fallimento anche di questa iniziativa giudiziaria assunta contro di lui.

Mattia Feltri sulla Stampa

         Il paradosso di questa nuova vicenda di Mori è ben rappresentato dal già citato Mattia Feltri scrivendo che “la procura di Firenze lo accusa di non aver fatto nulla per evitare le stragi mafiose” dopo che “nel processo Trattativa era accusato di aver fatto troppo per impedirle”.  

Dalla prima pagina dell’Unità

         “L’obiettivo -ha titolato L’Unità- è abbattere Mori” perché “colpevole di aver ferito Cosa Nostra” con arresti eccellenti. “Se Falcone fosse vivo?”, si è chiesto il direttore Piero Sansonetti in apertura dell’editoriale. “Probabilmente -si è risposto da solo, e non a torto- sarebbe in prigione. I due noti piemme di Firenze, che sempre di più assomigliano al commissario Clouseau, avrebbe ottenuto da un buon Gip un mandato di cattura contro di lui. Con l’accusa di essere il capo occulto della mafia. Di avere fatto le stragi e altre varie bricconate. Anche Borsellino, forse, sarebbe in prigione, magari accusato di avere depistato- seppure dopo essere stato ucciso- le indagini sulla sua stessa morte”.

Alfredo Mantovano da Palazzo Chigi

         Questo dev’essere il sospetto anche del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e magistrato, Alfredo Mantovano. Che, presumibilmente autorizzato dalla premier Giorgia Meloni in persona, ha solidarizzato pubblicamente con Mori ricevendolo dopo l’avviso di garanzia e diffondendo questa valutazione: “Conosco Moro da oltre 25 anni e ne ho sempre apprezzato la lucidità di analisi e la capacità operativa. Gli ho espresso sconcerto. Decenni di giudizi hanno già dimostrato l’assoluta infondatezza di certe accuse, Gli eccezionali risultati che ha conseguito esigerebbero solo gratitudine da parte di tutte le istituzioni, magistratura inclusa”.

Dalla prima pagina del Fatto Quotidiano

         “Governo a gamba tesa”, ha protestato nel titolo indignato  di apertura Il Fatto Quotidiano. E chi sennò? La gamba tesa è quella anche allungata a sostegno di Mori dal ministro della Difesa Guido Crosetto prima di finire ieri in ospedale per un malore durante una riunione al Quirinale.  

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Ma quanto immeritato cordoglio anche in Occidente per l’iraniano Raisi

Dalla Ragione

Con quel nome -Ebrahim- che portava con tanta disinvoltura, essendo uno dei nemici più temibili e temuti degli ebrei, per quanto l’Unità lo abbia oggi definito uno che “in Iran non contava nulla”, l’ormai defunto, incenerito presidente Raisi, morto col suo ministro degli esteri in un incidente d’elicottero dal quale gli israeliani hanno tenuto a precisarsi estranei, non potrà certo obbedire all’ordine di Davide Giacalone, sulla Ragione, di svelarsi. Anche perché sarebbe inutile, tanto chiaro e noto è stato il suo ruolo di riferimento, sostegno e quant’altro di tutti i terrorismi operanti nel Medio Oriente e dintorni.

Dal Corriere della Sera

         Non è certamente esagerata, ma forse riduttiva, la scena immaginata e proposta sul Corriere della Sera da Emilio Giannelli nella vignetta di Raisi che arriva nell’aldilà e mette il panico fra “quasi mille” mandati da lui a morte sulla terra. Alla  fine consolati da qualche compagno di sventura all’idea che non potrebbero essere impiccati di nuovo, ridotti come sono a fantasmi.

         Né esagerata si può ritenere la vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX che propone un ayatollhà impegnato a chiedere al suo Dio perché si fosse preso il “nostro amato presidente” e si sente rispondere: “perché adesso avete proprio rotto”.

Dal Secolo XIX

         Eppure, a parte quegli iraniani coraggiosi che sono scesi in piazza per mescolare non lutto e proteste, come si è letto in qualche titolo, ma lacrime e feste, abbiamo assistito alla solita, ipocrita, vomitevole corsa delle cosiddette cancellerie, anche quelle occidentali, ai messaggi di cordoglio a Teheran. “Ma ora più diritti”, ha sentito il bisogno di aggiungere il vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani con una dose di ingenuità che temo non gli avrebbe perdonato, e non gli perdonerebbe dove si trova, neppure il compianto Silvio Berlusconi. Che gli ha lasciato in eredità Forza Italia.

         Purtroppo siamo lontani dalla “parresìa” di Platone evocata oggi sul Corriere della Sera da Massimo Gramellini, prendendo il solito caffè coi lettori, per sottolineare il dovere, l’importanza e quant’altro di dire la verità e chiamare le cose col loro nome. Peccato però che il buon Gramellini abbia preso spunto per questo richiamo non dallo spreco di cordoglio per Raisi ma da quella manager che in Liguria ha deciso di contribuire alla demonizzazione di Giovanni Toti dicendo di non avergli fornito i finanziamenti sollecitati dal solito Spinelli sentendo o temendo puzza di corruzione. E’ come avere sparato su un’ambulanza della Croce Rossa, viste le condizioni alle quali gli inquirenti hanno ridotto, tra le loro pillole giudiziarie e i processi sommari che alimentano sui giornali, il governatore tuttora della Liguria agli arresti domiciliari da una quindicina di giorni.  

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Il fantasma di Berlusconi irrompe nella campagna elettorale

Dal Dubbio

Sbaglio o Matteo Salvini ha un po’ mollato nella campagna elettorale per le europee il generale Roberto Vannacci, pur voluto così fortemente nelle liste da avere provocato una mezza rivolta nella Lega? Il generale, per carità, continua ad esporsi e a guadagnarsi l’attenzione dei grandi giornali. Il Corriere della Sera, ad esempio, gli ha appena mandato appresso un inviato nel Bolognese, Nino Luca, per raccoglierne anche i sospiri. Ma Salvini -ripeto- sembra essersene un po’ distaccato. E non credo per paura dei leghisti che non hanno nascosto l’intenzione di mettere nel contenzioso del dopo-elezioni con lui anche la forzatura che hanno avvertito nella sostanziale imposizione del candidato che viene ormai chiamato come il mondo del suo primo libro: “al contrario”.

Matteo Salvini e Roberto Vannacci d’archivio

         Salvini sembra avvertire maggiormente da qualche giorno non più il problema di togliere voti alla Meloni sulla destra -dove peraltro la premier si è appena guadagnata qualche parolina gentile della francese Marine Le Pen, che pare abbia smesso di rimproverarle chissà quali accordi presi sottobanco in Europa con Ursula von der Leyen per una conferma alla presidenza della Commissione di Bruxelles- ma il problema di evitare il sorpasso di Antonio Tajani. Che si è proposto di classificarsi al secondo posto nel centrodestra rivendicando l’eredità di Silvio Berlusconi. Un’eredità invece che Salvini gli contende in qualche modo, non lasciandosi scappare un’intervista o un discorso per ricordare “Silvio”, come lo chiama, e rimpiangerlo. Cosa, questa, che una volta tanto il vecchio e insofferente Umberto Bossi non può contestargli perché del compianto fondatore di Forza Italia egli era diventato quasi un amico intimo, dopo il tempestoso inizio dell’alleanza politica ed elettorale, interrotta alla fine del 1994 per paura di esserne fagocitato. E su pressione confessata dallo stesso “senatur” dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

Marta Fascina al Giornale di ieri

         Silvio qua e Sllvio là, dice Salvini, come si canta di Figaro nel “Barbiere di Siviglia” di Gioachino Rossini. Al punto che forse non a caso Marta Fascina, l’ultima quasi moglie di Silvio, appunto, si è lasciata intervistare dal Giornale ora parzialmente di famiglia per dire non più tardi di ieri: “Auspico un buon risultato per Forza Italia, anche e soprattutto come tributo alla memoria del suo leader fondatore a cui tutti dobbiamo gratitudine e riconoscenza. Se siamo ciò che siamo lo dobbiamo tutti a lui. Ma Forza Italia, quale partito che Silvio ha condotto con orgoglio nel Partito Popolare Europeo, la grande casa della democrazia e della libertà, ad esito di queste elezioni sarà sicuramente nella tolda di comando dell’Europa dei prossimi 5 anni”.

         Ma Salvini e la Fascina non sono i soli a evocare Berlusconi nella corsa al voto dell’8 e 9 giugno a sostegno dei loro rispettivi partiti. Lo ha appena evocato in una intervista a Repubblica, e non per la prima volta, Matteo Renzi per contestare, come candidato al Parlamento europeo, alla “falsa” candidata Giorgia Meloni, che rimarrà rigorosamente a Roma, la dabbenaggine di non avere appreso la lezione del Cavaliere di navigare nelle acque del Partito Popolare. Dove però neppure Renzi, altro aspirante erede dei voti di Berlusconi, ha intenzione di nuotare o viaggiare preferendo notoriamente la compagnia del presidente francese Emmanuel Macron, e scommettendo su Mario Draghi al vertice dell’Unione.

Matteo Renzi a Repubblica di ieri

         Renzi ha tuttavia pasticciato un po’ nella ricostruzione del tuffo di Berlusconi nelle acque per lui salvifiche del Partito Popolare Europeo. Sarebbero stati, in particolare, “Helmut Kohl e Jose Maria Aznar -ha raccontato l’ex premier toscano- a spedire il giovane Agag”, imprenditore spagnolo, “da Silvio Berlusconi per coinvolgerlo nel Ppe” apprezzandone la consistenza elettorale  in Italia e quindi l’utilità, praticamente, di annetterla a livello continentale. No, le cose non andarono esattamente così. L’operazione di aggancio di Berlusconi al Partito Popolare Europeo fu condotta in Italia dall’allora alleato e democristiano doc Pier Ferdinando Casini. Che ne è rimasto orgoglioso anche dopo avere rotto con “Silvio”, come anche lui chiamava il Cavaliere, ed essersi accasato come ospite nelle liste del Pd per rimanere in Parlamento, ormai da veterano, o quasi.

Pubblicato sul Dubbio

Proposto a Nordio un sorteggio dimezzato per i magistrati al Consiglio Superiore

Il ministro della giustizia Carlo Nordio

Questi sono giorni cruciali, dietro le quinte, nella preparazione della riforma costituzionale sulla giustizia anticipata dal guardasigilli Carlo Nordio al recente congresso dell’associazione nazionale dei magistrati dopo una riunione a Palazzo Chigi con la premier Giorgia Meloni, il sottosegretario Alfredo Mantovano, altri esponenti del governo e gli esperti dei partiti della maggioranza. Una riforma finalizzata, fra l’altro, a separare le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri e a dividere conseguentemente in due sezioni il Consiglio Superiore della Magistratura. Una riforma alla quale il sindacato delle toghe ha annunciato una irriducibile opposizione di natura “culturale e costituzionale” contando sull’aiuto promesso al congresso dalla segretaria del Pd Elly Schlein e dal presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte. Che ha avvertito l’ombra addirittura di Licio Gelli, il capo della loggia massonica P2, e del suo piano di cosiddetta rinascita della prima Repubblica, destinata invece al sostanziale ghigliottinamento giudiziario del 1992 e anni successivi, completato politicamente col passaggio dal sistema elettorale proporzionale a uno misto di proporzionale e maggioritario.

Il costituzionalista Michele Ainia

         Una parte aggravante della riforma Nordio, secondo il sindacato delle toghe, è costituita dal sorteggio nella formazione del Consiglio Superiore della Magistratura per non farlo dipendere, nella decisiva parte maggioritaria costituita dalle toghe, dal gioco delle correnti che ormai contano e si muovono come partiti.

Dalla prima pagina di Repubblica di ieri

         Un costituzionalista assai accorto alle ragioni, sensibilità, resistenze e quant’altro dell’associazione dei magistrati, Michele Ainis, autore del libro sulla “Capocazia” addebitata alla Meloni, ha avanzato su Repubblica di ieri una proposta di compromesso sul sorteggio per evitare “l’umiliazione” del sindacato delle toghe: ricorrervi solo per metà della rappresentanza oggi elettiva dei magistrati, lasciando l’altra metà alla sostanziale selezione delle correnti. Ma anche questa metà sottratta alla correntocrazia andrebbe limitata, applicando il sorteggio ai “migliori”, classificati evidentemente dal Consiglio Superiore uscente “per laboriosità, per correttezza, per l’indice di decisioni confermate in appello”, non potendosi “correre il rischio -ha scritto il costituzionalista- di sorteggiare un Totò Riina con la toga”. Evidentemente, ve ne sono di poco raccomandabili.

Il testo di Ainis

         Una modifica è stata proposta anche per la minoranza cosiddetta laica del Consiglio Superiore, cioè per quella eletta dal Parlamento in seduta congiunta. Che dovrebbe spettare per metà alla maggioranza governativa di turno e per metà all’opposizione, mentre oggi -secondo i calcoli di Ainis- dei dieci consiglieri  sfornati a più riprese dalle Camere, la maggioranza se ne “accaparrerebbe” sette. Finirà anche Ainis, con questa proposta di trattativa, nel cono d’ombra del defunto Licio Gelli? Chissà.

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Freno di Mattarella sui decreti-legge e attacchi alla Meloni in festa per un ergastolano

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

         Se non è o non sarà una stretta del Quirinale sui sei decreti-legge in arrivo fra mercoledì prossimo e il 29 maggio dal governo poco manca o mancherà alla “sorveglianza” annunciata in un titolo dal Corriere della Sera, forte anche di una corrispondenza di Marzio Breda dal Colle. Sorveglianza o “faro”, come ha preferito titolare Il Messaggero scrivendo sempre di una maggiore verifica presidenziale dei “casi straordinari di necessità e d’urgenza” nei quali l’articolo 77 della Costituzione consente al governo di adottare provvedimenti di immediata applicazione, da convertire in leggi dal Parlamento in sessanta giorni.

Dalla prima pagina della Verità

         Il giornale diretto da Maurizio Belpietro, La Verità, di una cui festa la premier è stata recentemente ospite con tanto di intervista di orgogliosa rivendicazione della sua attività di governo, ha definito quello attribuito al Quirinale contro i decreti-legge in arrivo, fra i quali uno sulla sanatoria di piccoli abusi edilizi, “un blitz pe il voto”. Studiato cioè in coincidenza con la fase terminale della campagna elettorale europea e amministrativa di giugno per aiutare praticamente le opposizioni.

La senatrice a vita Elena Cattaneo

         Un’altra coincidenza, forse più appropriata, è quella fra la maggiore attenzione attribuita al Quirinale e un recente intervento della senatrice a vita Elena Cattaneo nella discussione a Palazzo Madama sul cosiddetto premierato. Criticato dalla Cattaneo anche perché destinato, secondo lei, per un surplus di potere o influenza del presidente del Consiglio sul Parlamento ad aggravare “la malattia” di cui soffrono le Camere da tempo per i troppi decreti-legge di cui debbono occuparsi con priorità.  

         Si era giustamente notato, a proposito della diagnosi formulata dalla senatrice Cattaneo, biologa e scienziata, che una certa sovrabbondanza di decreti-legge è stata consentita dai presidenti della Repubblica succedutisi nel tempo. Le cui prerogative vengono pur difese dai critici del premierato ritenendo che siano destinate ad essere ridotte con l’elezione diretta del presidente del Consiglio.

Il titolo del Fatto Quotidiano sull’accoglienza della Meloni a Chico Forti

         La grana, chiamiamola così, dei decreti-legge raggiunge la premier Meloni nel momento in cui è incorsa, forse non a torto, nelle polemiche delle opposizioni guidate dal Fatto Quotidiano contro l’accoglienza personalmente riservata da lei all’ergastolano italiano Chico Forti, condannato per omicidio e autorizzato a scontare il resto della pena, dopo 24 anni di detenzione a Miami, nel carcere per ora di Verona. Un’autorizzazione che gli Stati Uniti hanno concesso con la dovuta ammissione di colpa da parte del detenuto, che aveva sempre negato la responsabilità del delitto attribuitogli da una giuria popolare di cui un’esponente poi si è pentita.

         La vicenda è oggettivamente controversa. E la premier l’ha cavalcata -nel senso di rivendicare il merito di una estradizione non concessa su richiesta di altri governi italiani- nella presunzione che le opposizioni, proprio perché impegnatesi in questa direzione in passato, non potessero eccepire.

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Lo stato di “non belligeranza” di Mattarella raccontato dal Foglio

Non dico la guerra, ma la guerricciola di carta tra il Quirinale e Il Foglio sulla lettura dell’attacco della senatrice a vita Liliana Segre al premierato non è finita con la smentita che dietro quell’attacco ci fosse l’ispirazione, la mano, la manina o chissà cos’altro del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Al quale la Segre deve il pur meritato, anzi meritatissimo laticlavio conferitole nel 2018 dall’attuale Capo dello Stato.  

Dalla prima pagina del Foglio di ieri

         Non solo il direttore del Foglio Claudio Cerasa nella posta del suo giornale ha declassato a “rettifica” la smentita opposta dall’ufficio stampa del Quirinale anche in difesa dell’onorabilità della senatrice a vita, che vive naturalmente di pensiero autonomo. Ma il giorno dopo -cioè ieri- Simone Canettieri è tornato sull’argomento in prima pagina per una registrazione così svogliata, a dir poco, della reazione di Mattarella da essere stata forse peggiore dell’altro intervento retroscenista firmato da Carmelo Caruso.  

         Quello del Capo dello Stato è diventato già nel titolo del secondo tempo della partita, diciamo così, un “no comment” alla riforma del premierato proposta dal governo e inoltrata a suo tempo al Parlamento con la dovuta “autorizzazione” del presidente della Repubblica richiesta dalla Costituzione. Poi, nel testo dell’articolo, il “no comment” è diventato uno stato di “non belligeranza” di Mattarella. Come quello adottato da Mussolini fra il 1939 e il 1940, prima del suicidio dell’associazione alla guerra di Hitler che lo sciagurato Duce riteneva ormai vinta dai nazisti. Ed era invece ancora agli inizi, con tutto quello che ne sarebbe derivato. Un linguaggio, quello della “non belligeranza”, non proprio felice, direi, nei riguardi di un Capo dello Stato che si tratterrebbe quindi sulla strada dell’adesione all’opposizione praticata in varie sedi, parlamentare e di piazza, contro l’elezione diretta del presidente del Consiglio.

Dall’interno del Foglio di ieri

         In più, insistendo nella rappresentazione di un rapporto difficile, a dir poco, fra il Quirinale e Palazzo Chigi, l’articolista del Foglio si è mostrato informato -si vedrà a tempo debito se a torto o a ragione- di resistenze, paure e quant’altro del presidente della Repubblica sulla legge, questa volta ordinaria, all’esame del Parlamento sulle cosiddette autonomie differenziate. Che furono messe in Costituzione da chi oggi le contesta con la riforma dell’articolo 115 nel 2001, all’epoca del secondo governo di Giuliano Amato, succeduto ai due di Massimo D’Alema, tutti a maggioranza non certamente di centrodestra. E questo giusto per ricordare le cose come stavano e come stanno, con Mattarella che allora neppure immaginava di poter diventare presidente della Repubblica e di doverne quindi temere in questa veste gli effetti.

         Ah, la polemica politica e retroscenista quanto è rischiosa quando la si affronta, a dir poco, con una certa superficialità e approssimazione. E dando per scontata, per carità, la buona fede. 

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Alla politica ormai come alle armi in una Italia ucrainizzata

Da Libero

Viviamo ormai in una specie di Ucraina italiana, per fortuna ancora senza bombe e truppe di occupazione o dì invasione, per la spietatezza della lotta politica in corso. E dell’informazione che la racconta o, peggio, l’alimenta di giorno in giorno, di ora in ora, sentendosi per lo più accerchiata da un governo che schiaccia così tanto e così insopportabilmente tutti da essersi lasciato scappare, come ha sarcasticamente ricordato Mario Sechi nel salotto televisivo di Lilli Gruber, il controllo dell’Autorità di Garanzia delle Comunicazioni, con tutte le maiuscole dovute. Alle quali si è dovuto arrendere persino il presunto, potentissimo, ammanicatissimo Bruno Vespa rinunciando al duello televisivo in Rai fra le prime due donne d’Italia -Giorgia Meloni ed Elly Schlein- annunciato inopinatamente per il 23 maggio, ad una quindicina di giorni dalle elezioni europee di giugno, e amministrative di accompagnamento.

         Verrebbe da ridere se non ci fosse invece da piangere per le condizioni alle quali è ridotto quello che la buonanima di Aldo Moro, redarguito nella Dc da Amintore Fanfani, l’altro cavallo di razza della scuderia scrociata, chiamava “confronto”: una parola “magica”, diceva il suo amico e insieme antagonista, che distoglieva cuori e menti dalla dura realtà. E faceva torto, sempre secondo Fanfani, ad un Parlamento dove il confronto, appunto, poteva e doveva svolgersi ed esaurirsi senza tirarla troppo per le lunghe.

La segretaria del Pd Elly Schlein

         Il confronto al Senato sul premierato, per esempio, e quello che seguirà alla Camera, e poi si ripeterà in entrambi i rami del Parlamento, con la prospettiva abbastanza concreta di un conclusivo referendum popolare di conferma o di bocciatura, secondo le regole costituzionali, non bastano né basteranno. La segretaria del Pd ha già allestito, in coincidenza con la festa della Repubblica, per il prossimo 2 giugno una manifestazione naturalmente di protesta a Testaccio, ripiegando dalla più grande e famosa Piazza del Popolo, sempre a Roma, perché prevedibilmente non ancora sgomberata di attrezzature e simili per il comizio conclusivo della sua campagna elettorale per le europee da quella diavola di Giorgia Meloni, com’è avvertita dai suoi avversari, arrivata a Palazzo Chigi meno di due anni fa senza dovere replicare a cento anni di distanza la  scellerata marcia fascista sulla Capitale. Vi è arrivata dopo un turno anticipato di elezioni regolarmente vinto, senza alcuna legge simil-Acerbo alle spalle, e su nomina di un presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, fortunatamente scampato sino ad ora a scomposti attacchi per avere nominato, appunto, la Meloni presidente del Consiglio -rigorosamente al maschile, come l’interessata preferisce- e, su sua proposta, i ministri. Semplicemente applicando l’articolo 92 della Costituzione, secondo comma, come si dice in gergo tecnico.

         E’ un miracolo, scherzando ma non troppo nel clima politico in cui siamo avvolti, che il Capo dello Stato non si sia ancora trovato messo nello stato di accusa previsto dall’articolo 90 della Costituzione “per alto tradimento o attentato alla Costituzione” naturalmente antifascista in vigore dal 1948.

Giovanni Toti e Aldo Spinelli

         In questo clima avvelenato, dove una certa magistratura si muove come un pesce nell’acqua, può accadere anche che il cittadino perda coscienza dei suoi diritti e inconsapevolmente, appunto, vi rinunci. E’ appena accaduto, per esempio, al governatore ancòra della Liguria Giovanni Toti. Del quale il Corriere della Sera ha annunciato ieri in prima pagina la ferma intenzione, decisione e quant’altro, dopo 10 giorni di arresti domiciliari per presunta corruzione e non so se e quali altri reati, di “dimostrare la propria innocenza”.

         No, caro Giovanni, come mi permetto di chiamarti pur non avendoti mai conosciuto o solo parlato. La tua innocenza sino a “condanna definitiva” è garantita dall’articolo 27 della Costituzione. L’onere della prova della tua presunta colpevolezza è tutta dell’accusa, come ha ricordato proprio dopo il tuo arresto, fra le proteste dei soliti giustizieri, un ex pm che ora è ministro della Giustizia: Carlo Nordio. Un’accusa peraltro tenuta anche a cercare prove a discarico dell’inquisito o imputato, e non a occultarle, com’è accaduto di recente -diciamo così- ad un pubblico ministero censurato ma non espulso dal Consiglio Superiore della Magistratura. 

         Dai, Giovanni, ripeto, non farti confondere e/o intimidire, schiacciato dalle foto delle tue salite o discese dal barcone di lusso del vecchio Aldo Spinelli, o di qualche tuo drink con lui, o dagli spezzoni giornalieri di telefonate tue o di altri intercettate per anni, non per giorni, settimane o mesi.

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