Ilaria Salis ha scelto la strada opposta a quella del furbo, furbissimo Bertoldo…..

         Se Bertoldo è passato letterariamente alla storia per la furbizia di sottrarsi alla forca reclamando il diritto di scegliere quella alla quale lasciarsi appendere, Ilaria Salis rischia di passare più modestamente alla cronaca politica, per giunta col consenso del padre, almeno secondo le ricostruzioni della maggior parte dei giornali, per una Bertolda al contrario. Che ha trovato abbastanza in fretta la forca buona.

Dal manifesto

         L’accettazione della candidatura alle elezioni europee offertale dalla sinistra cosiddetta radicale, che ha tutto da guadagnarne in visibilità e ha colto l’occasione offertale dal ripiegamento del Pd di Elly Schlein su questo percorso che il manifesto definisce “di emergenza”, rischia di diventare la scelta, appunto, della forca a cui lasciarsi appendere nella sua disavventura giudiziaria in Ungheria. Dove è sotto processo già da detenuta, e da un bel po’ di tempo, con l’accusa di avere pestato dei dimostranti.

         Già poco sensibili, a dir poco, alla difesa pubblica di Ilaria da parte del presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella  e alle iniziative assunte dietro le quinte, ma neppure tanto, dal governo nelle persone della stessa premier, in ottimi e motori rapporti anche personali con l’omologo ungherese Viktor Orban, e del ministro degli Esteri Antonio Tajani, magistrati e politici di Budapest, separatamente o insieme che siano, non cambieranno certamente opinione e atteggiamento di fronte alla scelta politica della Salis di candidarsi al Parlamento europeo nelle liste dei verdi e rossi dello stivalone nazionale. Che peraltro nei sondaggi non sono poi messi così bene da far temere più di tanto a Budapest la sua elezione e l’obbligo, a quel punto, di rilasciarla, salvo irrigidimenti nei rapporti già tesi che l’Ungheria tiene e coltiva con l’Unione Europea di cui pure fa parte.

Con i dovuti scongiuri

         Se poi dovesse mancare l’elezione, la candidata si troverebbe in una emergenza superiore a quella sulla quale hanno titolato i suoi amici al manifesto. Ma amici, anzi compagni, forse più della sinistra radicale che della candidata caduta in quella che potrebbe rivelarsi una trappola piuttosto che un’offerta o, comunque, una via di uscita dal carcere.  In cui la Salis trascorre l’attesa della sentenza e della conoscenza, probabilmente, del numero di anni che dovrà ancora attendere per uscirne.

         Comunque, in bocca al lupo per la nostra connazionale, pur con poca speranza che il lupo possa crepare, come si dice in queste occasioni.

Ripreso da http://www.startmag.it

Dall’Eneide alla Dragheide, naturalmente senza un Virgilio

Da Libero

Dall’Eneide dei nostri ricordi scolastici siamo passati alla Dragheide delle nostre cronache politiche, purtroppo senza disporre di un Virgilio, e dovendoci accontentare della nostra modestia di cronisti, retroscenisti, opinionisti, politologi e via classificandoci e definendoci con minore o maggiore supponenza, magari anche involontaria: tutti convinti di vedere le cose e le persone dal punto di vista più appropriato.

Dal Giornale

         Purtroppo è lo stesso Mario Draghi -perché è di lui che sto naturalmente scrivendo- a metterci, diavolo di un uomo, in difficoltà per la ritrosia, reticenza, furbizia o com’altro vogliamo chiamarla, nel raccontarsi o proporsi.

Dall’Identità

         Accadde più di due anni fa con la corsa al Quirinale, persa -come gli ha giustamente rimproverato Mario Sechi- per un difetto di comunicazione con i partiti che in Parlamento si giocano la partita presidenziale in mancanza di un’elezione diretta, e si sta ripetendo adesso con la corsa a Bruxelles, chiamiamola così. E’ lo spettacolo di un Draghi che vuole partecipare alla gara alla sua maniera, lanciando segnali di più o meno azzeccate o arbitrarie interpretazioni. Ed esponendosi così all’accusa, rivoltagli appunto da Sechi e rilanciata da Daniele Capezzone, di perseguire obiettivi magari condivisibili nella sostanza ma non nel metodo. Cioè saltando il passaggio dei partiti, per quanto siano un po’ tutti malmessi, e soprattutto degli elettori. Ai quali va però riconosciuto che, anche volendo intrupparsi in qualche formazione politica, scegliendola magari col naso montanellianamente turato, Draghi non potrebbe di fatto rivolgersi. Come in Italia sia per il presidente della Repubblica sia per il presidente del Consiglio, così in Europa sia per la presidenza della Commissione esecutiva sia per la presidenza del Consiglio comunitario manca l’elezione diretta. E mancherà, temo, ancora più a lungo che in Italia, dove almeno Giorgia Meloni -grazie a Dio- ha posto con forza il problema facendo nascere anzitempo comitati referendari, o simili, contro quella che lei chiama giustamente “la madre di tutte le riforme”.

Dal Dubbio

         Il metodo in politica, ma non solo in politica, è importante quanto e persino più della sostanza. Ma attenti, per favore, a non dimenticare la sostanza, o quello che Ugo La Malfa chiamava il contenuto preferendolo al contenitore. E la sostanza, nel nostro caso, al netto del problema del “pilota automatico” posto da Sechi pensando a quelli che vi ricorrono con troppa frequenza o disinvoltura senza accorgersi delle vittime e dei danni che può comportare; la sostanza, dicevo, è quella svolta “radicale” prospettata da Draghi pe rimettere l’Unione Europea con i piedi per terra. E archiviare finalmente regole o solo pratiche adottate in tempi troppo lontani e/o diversi dai nostri, alle prese non più con rischi di guerre ma con guerre vere e proprie. Che si svolgono ai nostri confini, o persino dentro, come in qualche modo accade col conflitto in Ucraina. Dal quale forse molti si sono troppo distratti occupandosi di altre tragedie sopraggiunte, come quella di Gaza e dintorni.

Dal Foglio

         La svolta “radicale”- ripeto- in Europa per aumentarne forza e competitività serve anche alla politica interna italiana, che sta al riformismo pur da tutti declamato come il sogno alla realtà, o la malafede alla sincerità. E ciò a sinistra, dove pure di riformismo più frequentemente si parla, che a destra. La cui leader cerca di praticarlo anche a costo di esporsi all’accusa di disattendere, tradire e quant’altro suoi vecchi impegni elettorali o propagandistici. Come, in tema di immigrazione, i blocchi navali un pò più difficili da gestire di quelli terrestri.

Le berlingueriana Elly Schlein

         Vi sembrerò forse allontanarmi troppo dal ragionamento iniziale e calarmi pretestuosamente in altre faccende, ma lasciatemi manifestare sgomento nel vedere il Pd della giovane, plurinazionale Elly Schlein, con tutti i passaporti di cui dispone e le lingue che parla, aggrapparsi emotivamente al quarantesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer per intestargli il partito che guida, con quegli occhi del leader comunista riprodotti sulle tessere d’iscrizione del 2024. Un Berlinguer -pace all’anima sua, per carità, anche per le circostanze drammatiche in cui morì, nel pieno di una campagna elettorale europea come quella in corso 40 anni dopo- che propose o impose la cosiddetta questione morale solo come pretesto per sfilarsi da una politica di solidarietà nazionale che non riusciva a reggere. Che contestò il rallentamento antinflazionistico della scala mobile dei salari deciso dal primo governo italiano a guida socialista. Che scambiò il riformismo costituzionale di Craxi per golpismo. E mi fermo qui solo per ragioni di spazio.

Pubblicato su Libero

Draghi sfida anche il pessimismo della moglie nella corsa a Bruxelles

Dall’Unità

          Mario Draghi dunque -il “Rieccolo” ribattezzato dall’Unità come  Indro Montanelli scriveva di Amintore Fanfani- si sarebbe lasciato tentare da Bruxelles per scalare nella Ue la presidenza o della Commissione esecutiva o del Consiglio Europeo.

  Se così fosse davvero, come hanno scritto un pò tutti i giornali anche di orientamento politico opposto, egli non avrebbe tenuto conto del pessimismo della moglie Serenella. Che recentemente si è abbandonata ad uno sfogo col Foglio contro la invidiosa e insuperabile ostilità dei politici al marito, già sperimentata quando, da “nonno a disposizione delle istituzioni”, egli si propose di fatto per un trasloco da Palazzo Chigi, dove aveva preso il posto di Giuseppe Conte, a quello che è in tutti i sensi il colle più alto di Roma.

La vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX

          A passare a Draghi la palla in questa nuova partita sarebbe stata autolesionisticamente la stessa presidente uscente della Commissione, la tedesca Ursula von der Leyen, candidata alla conferma dal suo partito, quello dei popolari, conferendogli l’incarico di uno studio e di un rapporto sui problemi vitali della competitività nell’Unione. Che Draghi ha svolto con la solita competenza e solerzia anticipandone la conclusione con la prospettazione di una svolta comunitaria “radicale”, essendo l’Unione nata ed essendosi via via regolamentata in condizioni ormai superate dai tempi, anzi superatissime. E chi meglio di lui -è sembrato il sottinteso del suo ragionamento- potrebbe garantire e gestire il cambiamento, forte anche della lunga esperienza maturata alla presidenza della Banca Centrale Europea. Dove egli salvò con la propria determinazione la moneta unica da un clamoroso fallimento.  

Ignazio La Russa

           Ci sarà da vedere naturalmente se dopo le elezioni europee del 9 giugno si potranno o vorranno creare le condizioni, cioè le convergenze politiche necessarie alla scalata dell’ex premier italiano. Cui il presidente del Senato Ignazio La Russa- presumibilmente non a sorpresa della collega ed amica di partito, e presidente del Consiglio, Giorgia Meloni- ha tenuto a riconoscere tutte le qualità richieste dalle postazioni alle quali sembra volere puntare.

Da Libero

          Eppure, si è alzata anche dal giornale diretto dall’ex portavoce della Meloni, Libero di Mario Sechi, oltre che dal prevedibilissimo Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, una voce se non contraria, quanto meno scettica.

Dal Fatto Quotidiano

Ha quasi accomunato il diavolo e l’acqua santa la sensazione che Draghi sia troppo tecnico ed elitario rispetto ad una soluzione politica determinata dal consenso popolare, o elettorale. Sechi, in particolare, che attribuisce al rapporto poco curato da Draghi con i partiti il fallimento della sua corsa al Quirinale, senza accusarlo del “Conticidio” contestato invece da Travaglio, immagina il “Rieccolo” alla guida dell’Unione come un navigante abituato al “pilota automatico”. Che non si accorge di vittime e danni lungo il percorso, o sottovaluta le une e gli altri. “Roba vecchia”, ha chiosato Il Fatto.  

Dietro la protesta incompiuta di Castagnetti contro il Pd intestato a Berlinguer

La tessera 2024 del Pd decisa da Elly Schlein

         Non stupisce di certo la tempestività della reazione negativa di Pier Luigi Castagnetti al tesseramento del Pd in corso con l’immagine di Enrico Berlinguer. Di cui si sarebbe voluta celebrare -si è detto dalle parti della segretaria Elly Schlein- non il 43.mo anniversario della “questione morale”, tornata sulle prime pagine dei giornali per iniziativa di Giuseppe Conte e sollevata contro la Dc e tutti gli altri partiti dal capo del Pci in una celebre intervista a Eugenio Scalfari, ma più semplicemente il 40.mo anniversario della morte. Che avvenne un po’ sul campo, per un malore che lo colse durante un comizio e gli fece perdere la vita in poche ore.

La protesta di Castagnetti in una intervista al Giornale

         Castagnetti, dopo la morte di Franco Marini negli anni del Covid, la fuoriuscita di Giuseppe Fioroni, e nonostante l’attivismo correntizio di Dario Franceschini o Lorenzo Guerini, è nel Pd l’esponente più autorevole di quella che fu la Democrazia Cristiana. Dove era stato il capo della segreteria politica di Mino Martinazzoli, diventando poi l’ultimo segretario del Partito Popolare Italiano prima della confluenza nella Margherita, e con questa nel Pd. E’ un uomo dalla bonomia solo apparente, ed emiliana. In realtà, è uno durissimo, di convinzioni radicate. Può dunque avere stupito, semmai, il limite che si è imposto nella protesta contro un Pd che con l’immagine di Berlinguer stampata sulla tessera del 2024 è diventato più rosso e meno bianco di quanto già non fosse, o non fosse diventato con l’inatteso arrivo della pur giovane Elly Schlein alla guida. Che. aveva solo 4 anni quando Achille Occhetto, nel 1989, prese le distanze dal muro demolito a Berlino col comunismo che rappresentava e, partendo da una sezione di Bologna, avviò la “Cosa” sfociata nel Pds e nella quercia che lo simboleggiava al posto della falce e martello finiti a terra.

Il rapporto di vecchia data di Castagnetti con Mattarella

         Che cosa ha trattenuto Castagnetti -79 anni ancora da compiere, uno in più dell’ex magistrato Nicola Colaianni bocciato per la sua età da Giuseppe Conte come candidato comune del Pd, 5 Stelle e cespugli a sindaco di Bari- dal tirare le conseguenze dalla sua protesta seguendo  gli amici democristiani già andati via dal Nazareno? La speranza davvero che la segretaria superi il giro di boa delle elezioni europee di giugno e abbia il tempo e la voglia di stampare sulla tessera di partito del 2025 gli occhi o il volto e le frasi di don Luigi Sturzo, o di Alcide De Gasperi o di Aldo Moro, come ha detto conversando al telefono con un intervistatore del Giornale? O, come sospettano gli scaltri di scuola andreottiana, convinti che a pensare male si faccia peccato ma s’indovini, la paura di coinvolgere in un clamoroso annuncio di fine rapporto o appartenenza l’ex collega di partito e ora presidente della Repubblica Sergio Mattarella? Col quale egli ha conservato una frequentazione e un’amicizia notissime nei palazzi della politica, a cominciare dal Quirinale. Dove il presidente in carica ha ancora da compiere quasi  cinque dei sette anni del suo secondo mandato.

La nostalgia galeotta della pur giovane Elly Schlein al Nazareno

Dal Dubbio

Potrebbero costare cari a Elly Schlein quegli occhi di Enrico Berlinguer fatti stampare sulla tessera d’iscrizione al Pd in questo 2024, nel quarantesimo anniversario della morte del leader comunista avvoltosi nella tela della “diversità” del suo partito, ch’egli considerava moralmente superiore a tutti gli altri. Partito per il quale – disse nel suo ultimo, tormentato comizio, mentre gli mancavano le forze-  i mililtanti dovevano andare a chiedere e raccogliere i voti “casa per casa, strada per strada”. Parole anch’esse stampate sulla tessera del Pd di quest’anno. Che peraltro è contrassegnato, come allora, da una campagna elettorale europea.

         L’ormai morto Berlinguer ne raccolse in effetti di voti in quel turno, sino a sorpassare la Dc allora guidata da Ciriaco De Mita, che l’anno prima aveva dovuto cedere a malincuore la guida del governo al leader socialista Bettino Craxi, dopo averla dovuta lasciare già, per meno tempo, al repubblicano Giovanni Spadolini.

I funerali di Enrico Berlinguer l’11 giugno 1984 a Roma

Ma quello dei comunisti fu un sorpasso tanto clamoroso quanto inutile non solo perché Berlinguer nel frattempo era ormai morto -ripeto- ma anche o soprattutto perché il referendum contro i tagli antinflazionistici alla scala mobile dei salari, da lui lasciato in eredità ad Alessandro Natta con l’obiettivo di sconfiggere il primo governo italiano a guida socialista, determinò invece l’anno dopo la sconfitta più cocente e rovinosa, politica e sociale, del Pci. Un po’ come la sconfitta nel referendum sul divorzio nel 1974 aveva danneggiato la Dc guidata da Amintore Fanfani, e segnato l’apertura di una crisi aggravata nel 1978 dalla tragica scomparsa di Aldo Moro.

         Quegli occhi -direi, quegli ultimi occhi- di Enrico Berlinguer potrebbero costare cari ad Elly Schlein, specie se accompagnati il 9 giugno prossimo da un modesto risultato delle elezioni europee, perché l’uso appena fattone sulla tessera addirittura d’iscrizione hanno aggravato la crisi d’identità del Pd. Che ora è ancora più rosso e meno bianco di prima, ricordando anche emotivamente, oltre che politicamente, più il Pci peraltro travolto dal crollo del muro di Berlino, e del comunismo, che la Dc confluita per quel che ne restava, soprattutto a sinistra, nel partito ora del Nazareno.

Dal Giornale di ieri

         “Non metto in dubbio la forza del pensiero e il profilo di Berlinguer. Ma il Pd non è la prosecuzione del Pci. Siamo altra cosa e non possiamo accettarlo”, ha immediatamente protestato in una intervista al Giornale un personaggio non certo di secondo piano di quello che fu il mondo democristiano, e notoriamente amico di Sergio Mattarella, come Pierluigi Castagnetti. Il quale ha aggiunto: “Se Elly Schlein vuole un partito che sia una versione aggiornata del Pci tanti saluti. Noi non ci siamo. E’ una scelta ma si abbia il coraggio di dirlo”, senza evidentemente coprirsi o nascondersi dietro un anniversario, per quanto importante.

Elly Schlein e Pierluigi Castagnetti

         Per riparare all’errore, o come altro si voglia definirlo, Castagnetti ha praticamente proposto di mettere sulla tessera del Pd dell’anno prossimo gli occhi di don Luigi Sturzo, o di Alcide De Gasperi, o di Aldo Moro. Ma con l’aria che già tirava e ancor più tira adesso c’è da chiedersi se la Schlein arriverà all’anno prossimo come segretaria del Pd, schiacciata com’è dalla crisi identitaria -ripeto- della sua formazione politica. E dalla concorrenza che le fa dall’esterno il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte cavalcando con destrezza pari alla spregiudicatezza politica, o disinvoltura, la famosa questione morale intestatasi proprio da Enrico Berlinguer nell’estate del 1981 parlandone con Eugenio Scalfari.

E’ una questione, quella morale, esplosa come un missile a più stadi nella Puglia del governatore piddino, e magistrato in aspettativa, Michele Emiliano. A rischio pure lui di esplosione, o di schiacciamento fra le pressioni di Conte e quelle della Schlein, concorrenti anche nell’uso, o abuso, delle indagini e cronache giudiziarie.

         Ah, che scherzi fa la politica, E che rivincite riesce a prendersi la storia. Basta che il malcapitato di turno aspetti che passi il tempo, se naturalmente ha la fortuna di sopravvivere agli eventi.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 20 aprile

Quello 0,2 per cento soltanto che rimane a Salvini sopra Tajannleyrand

         Se quei due punti scarsi che separano nell’ultimo sondaggio di Euromedia il 19,7 pe cento di Elly Shlein dal 17,6 di Giuseppe Conte aiutano a capire la difficoltà da concorrenza, diciamo così, dei loro rapporti nello schieramento contrario al governo, ancora di più può aiutare a capire i problemi sul versante del centrodestra quel misero 0,2 per cento che separa l’8,7 di Matteo Salvini dall’8,5 di Antonio Tajani, succeduto a Silvio Berlusconi alla guida di Forza Italia..

Dalla prima pagina del Riformista

         Le retrovie di Giorgia Meloni, quanto a turbolenza, sempre da concorrenza, non sono messe meglio delle prime file, o del gruppo di testa, di quel campo che non si sa più neppure come chiamare, oltre che misurare, ma fa sognare gli avversari della prima donna, e di destra, alla guida di un governo italiano in una lunga storia fatta di monarchia e di repubblica. Tutte al minuscolo per non fare torto a Tajani, che è arrivato alla vice presidenza del Consiglio, ed è immaginato da qualche amico persino come un concorrente nella prossima corsa al Quirinale, o prima ancora a Bruxelles al posto di Ursula von der Leyen, ma da giovane frequentava i pur pochi circoli monarchici dove si rimpiangeva il Re Umberto II.

         Matteo Salvini ha bisogno di tenersi ma ancor più di aumentare quel misero -ripeto- vantaggio dello 0,2 per cento sulla Forza Italia post-berlusconiana anche per fronteggiare una situazione interna di partito molto calda per la discesa elettorale in corso dal 2019. Quando egli ebbe la sfortuna -a pensarci bene- di salire come vice presidente del Consiglio di Giuseppe Conte ad un 34 per cento oggettivamente smodato e mai più replicabile, anche se in politica non si dovrebbe mai dire mai.

Dal Foglio del 12 aprile

         Antonio Tajani, dal canto suo, avrebbe bisogno di un sorpasso, e neppure tanto stentato, per non limitarsi a galleggiare, nonostante la sua importante parentela col Partito Popolare Europeo, nella coalizione di governo capeggiata dalla Meloni con i suoi fratelli d’Italia. A tenerne alto prestigio e forza contrattuale non può certo bastare il soprannome, generosamente attribuitogli qualche giorno dagli amici del Foglio, di Tajanlleyrand, evocativo di quel geniale, camaleontico cardinale francese, ma anche principe di Benevento, che a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento di due secoli fa riuscì a barcamenarsi abbastanza bene fra Luigi XVI, Napoleone Bonaparte e Luigi XVIII, tra vecchio regime, rivoluzione e restaurazione.

Dal Foglio di ieri

          Salvini invece, per quanto indaffarato fra molti cantieri, e sapientememte tollerante col malumore di Umberto Bossi da cui ricevette a suo tempo, sia pure non direttamente, una eredità alquanto malmessa, si è visto assegnato -sempre dal Foglio- il soprannome di uomo da bar.  “Un grande comunicatore -ha scritto ieri di lui Antonio Pascale replicando Umberto Smaila- che ha successo perché dice le stesse cose che sente al bar”.  Dove notoriamente se ne dicono e se ne pensano di tutti i colori. E tutti si promuovono a commissario tecnico della squadra nazionale di calcio.

Il Conte pirandellianamente uno, nessuno, centomila….se vi pare

Dal Dubbio

Uno, nessuno e centomila, si potrebbe pirandellianamente dire di Giuseppe Conte per i soprannomi e i paragoni che si è meritato al suo sesto anno di attività politica, peraltro cominciata nel 2018 già all’alto livello di presidente del Consiglio su designazione dei grillini e col tormentato consenso, al Quirinale, di Sergio Mattarella. Il quale disse pubblicamente che avrebbe preferito sentirsi proporre qualcuno che fosse passato almeno una volta per un’elezione, magari solo a consigliere comunale.

Aldo Moro

Nel 2018 Conte aveva solo 52 anni, 5 in più dei 47 che aveva avuto il suo corregionale Aldo Moro arrivando a Palazzo Chigi nel 1963, e di rimanervi o tornarvi per cinque volte, dopo essere già stato ministro, capogruppo alla Camera e soprattutto per quattro anni segretario della Dc, il maggiore partito di quei tempi. Due carriere insomma da non poter mettere neppure a confronto, anche se un estimatore un po’ smodato di Conte è arrivato a considerarlo non per scherzo, ma sul serio, scrivendone sul suo giornale, il migliore capo di governo in Italia dopo il conte, con la minuscola, Camillo Benso di Cavour.

Il celebre romanzo di Luigi Pirandello

I soprannomi o simili, compresi i paragoni, guadagnatisi in cinque anni dall’avvocato di Volturara Appula si sprecano: da Contuccio, appena affibbiatogli sul Foglio, a Camaleonte per la capacità di trasformarsi, che è poi l’essenza del diavolo spiegata in un congresso della Dc da Arnaldo Forlani chiudendo la sua prima esperienza di segretario del partito per essere sostituito dal capocorrente Amintore Fanfani, Che si era stancato e preoccupato di vederlo crescere e deciso di prenderne il posto cambiandone la linea politica.

Dal blog di Beppe Grillo

Da sciacallo, per tornare ai soprannomi di Conte, così definito pubblicamente da alcuni esponenti del Pd sorpresi dall’uso da lui fatto delle indagini giudiziarie a Bari per terremotare i progetti comuni sul municipio della città e ritirarsi dalla giunta regionale di Michele Emiliano, all’indovino o orologiaio per la capacità di prevedere, e non solo lamentare, i guai pugliesi del Nazareno. Dal conte spendaccione e fatuo, per via dei superbonus e del reddito di cittadinanza, a Raffaello  Mascetti , conte pure lui, interpretato da Ugo Tognazzi nei celeberrimi “amici miei” cinematografici. Egli avrebbe potuto meritarsi anche il Vitangelo Mascarda del già citato romanzo drammatico di Luigi Pirandello “Uno, nessuno, centomila” se di quel personaggio alla ricerca disperata della sua identità non si fosse giù appropriato nei suoi nuovi spettacoli teatrali Beppe Grillo, garante, consulente ed ex cofondatore del Movimento 5 Stelle ora presieduto dall’ex premier.

Carlo Valentini su ItaliaOggi

In ogni soprannome o controfigura c’è naturalmente del paradosso o esagerato, e persino ingiustamente offensivo, per carità, perché la polemica politica è spesso feroce, ma consentitemi di esprimere totale dissenso dal paragone che su ItaliaOggi Carlo Valentini ha fatto fra il Conte, con la maiuscola, aspirante al ritorno a Palazzo Chigi forzando mano, piedi e cervello al Pd, e il Bettino Craxi che vi sarebbe arrivato nel 1983, rimanendovi sino al 1987 e proponendosi di tornarvi dopo le elezioni del 1992, imponendosi sulla Dc  di un povero, sottomesso Arnaldo Forlani.

A parte la comune dimensione, dal 10 al 14 per cento, del Psi craxiano degli anni Ottanta e delle 5 Stelle odierne di Conte, non vi è nulla che possa avvalorare un paragone così cervellotico. Craxi fu lo statista occidentale che permise all’Italia di sbloccare e partecipare al riarmo missilistico della Nato destinato a fare crollare il comunismo, Conte vota contro gli aiuti militari all’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin.

Bettino Craxi e Arnaldo Forlani

Conte non ha molto interesse, diciamo così, alla salute del Pd, Craxi ne ebbe per la Dc, fra la rabbia dei comunisti, ritardandone la fine di una quindicina d’anni dopo la tragica fine di Aldo Moro. E quanto alla buonanima di Forlani, vice di Craxi a Palazzo Chigi dopo esservi passato da presidente, egli non subì per niente il leader e amico socialista, astenendosi -unico e solo- nella votazione della direzione democristiana che sbarrò la strada di Palazzo Chigi all’amico già nel 1979, dopo l’incarico conferitogli dal presidente della Repubblica Sandro Pertini. Quell’astensione lasciò accesa la fiammella della ripresa dell’alleanza fra i due partiti dopo la fine, voluta da Enrico Berlinguer, della fase della cosiddetta politica di solidarietà nazionale prodotta dal risultato paralizzante delle elezioni politiche anticipate del 1976.

Si raccomanda di ripassare bene la cronaca – per favore, direbbe Papa Francesco- o studiare meglio la storia prima di scriverne.

Pubblicato sul Dubbio

Quei meno di due punti galeotti fra la Schlein e Conte nella corsa al vuoto

Schlein e Conte d’archivio

         In un sondaggio appena condotto da Euromedia di Alessandra Ghisleri -ma valorizzato dalla Stampa per il risultato più ovvio e scontato come quel 56,8 per cento convinto che la corruzione sia rimasta invariata negli ultimi dieci anni, pur contrassegnati da molteplici maggioranze di governo- è emerso che Pd e Movimento 5 Stelle sono separati da meno di due punti. Il primo è al 19,7 per cento delle intenzioni di voto, l’altro al 17.6. E’ una distanza galeotta che spiega la tensione cresciuta, e per niente sottaciuta, ormai  anche sul piano personale fra Elly Schlein e Giuseppe Conte dopo una lunga stagione di incontri, casuali e non, in piazza o in convegni, con tanto di immagini che li rappresentavano più o meno attratti reciprocamente, a volte persino troppo, con quelle mani dell’ex premier sulla bocca come per nascondere le parole forse troppo cordiali che si lasciava scappare.

         Una distanza di meno di due punti in un sondaggio può impaurire chi è davanti ed eccitare chi è indietro.  Un sorpasso per Conte significherebbe, nel campo dell’alternativa al centrodestra sognato ad occhi aperti dal solito Pier Luigi Bersani, una speranza in più di tornare a Palazzo Chigi, se e quando il centrodestra dovesse tirare politicamente le cuoia,

Conte alla Stampa di ieri

         Nell’ammettere e spiegare questa voglia che tutti hanno capito, nel Pd anche i più ingenui, Conte ha appena detto, intervistato proprio dalla Stampa, a proposito dell’accusa ricorrente dei suoi avversari di avere dissestato le finanze pubbliche con i bonus edilizi, oltre che col reddito di cittadinanza: “Se fossi stato al posto dei governi Draghi e Meloni, avrei fatto conferenze stampa con dati alla mano per monitorare passo passo i costi. E avrei informato i cittadini su tutti i dati ancora taciuti sui ritorni diretti, indiretti e indotti. Purtroppo dovremo aspettare parecchio per averli: anzi, dovremo tornare al governo”. Con lui a Palazzo Chigi, appunto, e con le sue conferenze stampa di giorno e di notte, al chiuso e all’aperto.

D’Alema e Conte una volta

         Il puntiglio, l’insistenza, l’animosità della scalata di Conte al primato in quello che avrebbe dovuto o dovrebbe essere il comune campo col Pd, più o meno largo che riesca ad essere o diventare, lo stanno rendendo antipatico anche in settori del partito del Nazareno che sembravano meglio disposti verso di lui. “Irritante”, per esempio, è stata appena riconosciuta la sua pretesa moralizzatrice da Massimo D’Alema.

Una Rosy Bindi accigliata

“Nei rapporti tra alleati -ha osservato o ammonito in una intervista Rosy Bindi, dando ottimisticamente per scontata un’alleanza quanto meno a giorni o a zone alterne- l’unica competizione ammessa è quella su chi è più unitario, non più divisivo”, come Conte ha invece deciso di essere.

Agazio Loiero sul Quotidiano del Sud

Il più clemente rimane Agazio Loiero, tra gli ancora compiaciuti fondatori del Pd, scrivendo sul Quotidiano del Sud dell’aspirazione di Conte al ritorno a Palazzo Chigi come di “un’ambizione, non certo un reato”.

I magistrati riserve elettorali di quella che fu la sinistra italiana

Da Libero

Magari la sinistra in edizione barese, ma poco o per niente diversa da quella nazionale, si fosse limitata a corteggiare Gianrico Carofiglio – “il fico”, ha brillantemente raccontato, al solito, Pietro Senaldi ai lettori dcandidato a sindaco del capoluogo pugliese per ritrovare l’unità dopo l’aborto delle primarie, procurato da Giuseppe Conte, fra il piddino Vito Leccese e lo stellato, chiamiamolo così, Michele Laforgia.

         Carofiglio ormai è meritatamente noto più come scrittore che come ex magistrato, o ex parlamentare del Pd, ritiratosi spontaneamente dall’una e dall’altra carriera perché convintosi che in fondo non lo meritavano né le toghe né gli amici o compagni del Nazareno. E Bari lui la conosce sicuramente bene, senza bisogno di chiamarsi Nicola, come il santo protettore della città.

Nicola Vendola, Niki per gli amici

         Nicola invece si chiama l’ex magistrato Colajanni sul quale ha messo gli occhi pubblicamente – proponendolo come “il terzo uomo” provvidenziale- un altro celebre Nicola pugliese: Vendola, ex presidente della regione e ora presidente della sinistra alla sinistra del Pd. Che mi risulta sia stato tentato anche lui dal “fico” Carofiglio accertandone però rapidamente l’indisponibilità a giocare, e soprattutto accreditare, una partita troppo ingarbugliata e opaca per i suoi gusti quale è quella apertasi, peraltro a più livelli, nella sua terra. Dove non dimentichiamo che un magistrato in aspettativa, Michele Emiliano, è tuttora presidente della regione dopo essere stato a lungo sindaco del capoluogo.

Nicola Colaianni

         La scelta di Nicola Colajanni da parte di Vendola come una specie di uomo o candidato della Provvidenza  e l’attenzione che si è guadagnata  mediaticamente e politicamente dimostrano o confermano che ormai alla magistratura la sinistra -o una certa sinistra, sempre come preferite- non solo ha ormai delegato la regia della politica militante ma anche quella che una volta si chiamava “la riserva della Repubblica”. Cui attingere nei momenti del bisogno, dell’emergenza, della disperazione.

Il compianto Carmelo Patti

         Il caso ha voluto -grazie al diavolo  che notoriamente fa le pentole senza i coperchi, perché distratto dalla vigilanza di un inferno pur sgomberato generosamente dal Papa Francesco- che l’ennesimo ricorso politico della sinistra ai magistrati coincidesse con l’ennesimo caso, anch’esso, della malagiustizia italiana. E’ stata appena restituita, purtroppo da morto, cioè inutilmente, l’onorabilità contestata con ben 13 processi a Carmelo Patti, il re -ai suoi tempi buoni- della Valtur. Di lui ancora si legge nella traduzione italiana di Geoogle dall’inglese di Wikipendia che fu “un uomo d’affari italiano con stretti legami con la mafia, strettamente associato a Matteo Messina Denaro, un padrino mafioso arrestato il 16 gennaio 2023 dopo 30 anni di clandestinità”. Alcuni dei quali, magari, secondo i biografi di Wikipendia, protetti, garantiti e finanziati proprio da Patti, pur a corto di soldi dopo la confisca del patrimonio disposta dalla magistratura, così attenta poi nel gestirlo, prima di restituirne il resto agli eredi, da avere determinato il fallimento di un bel po’ di aziende.

         Il povero, compianto Patti è naturalmente l’ultimo di un lungo e sempre provvisorio elenco di malcapitati, in cui finì a suo tempo anche Enzo Tortora, uscitone vivo solo per il poco tempo che gli aveva lasciato una salute messa a dura prova dal carcere e dalla gogna mediatica.

Conte on Cafiero de Raho alla Camera

         Se la sinistra o -ripeto ancora- una certa sinistra, nonostante tutto questo, magari per riconoscenza dopo i favori ottenuti una trentina d’anni con la gestione a senso prevalentemente unico delle inchieste giudiziarie sul finanziamento illegale dei partiti, continua a considerare la magistratura la riserva della Repubblica, e non solo sua, c’è solo da accendere un cero misericordioso davanti alla sua lapide. Anzi due, uno anche per l’appendice o concorrente, come preferite, che è diventato il partito di Conte arruolando nelle sue liste fior d ex magistrati: da Roberto Scarpinato a Federico Cafiero De Rhao.

La corsa al magistrato si intreccia a Bari con la corsa al sindaco

Immagini dal Medio Oriente

         Non per volervi distrarre dalla geopolitica ripropostaci dalle prime pagine dei giornali e dalle immagini televisive con gli attacchi israeliani a Israele, peraltro restituito così alla totale solidarietà degli americani nella partita del Medio Oriente, ma per riportarvi o lasciarvi con i piedi e la testa sulla nostra modestissima terra italiana, ancor più particolarmente pugliese, trovo a dir poco avvilente la somma di due notizie offerte dal Corriere della Sera a distanza di pochi centimetri l’una dall’altra, o l’una sotto l’altra.

         La prima è la restituzione, purtroppo tardiva, addirittura dopo la morte, dell’onore a Carmelo Patti, quello della Valtur, riconosciuto estraneo ai rapporti con la mafia dopo avere subito ben 13 processi. E la restituzione agli eredi di quel che è rimasto del suo ingente patrimonio confiscato e così male amministrato dai fiduciari della magistratura da avere prodotto più fallimenti che guadagni.

Da Geoogle alle ore 8 di

         Aldo Grasso, da par suo, ha raccontato l’ennesima e poco edificante storia della malagiustizia tricolore e fatto tutte le sue doverose e sacrosante proteste, lamentele e simili, incorrendo a mio avviso solo in una omissione poco onorevole, questa volta, per la nostra professione: la scarsa o nessuna evidenza data dalla generalità della stampa e, più in generale, dell’informazione alla vicenda. Poco fa -per darvene un esempio- ho sbirciato Geoogle e ho trovato la seguente traduzione dall’inglese di Wikipedia: “Carmelo Patti era un uomo d’affari italiano con stretti legami con la mafia. Era strettamente associato a Matteo Messina Denaro, un padrino mafioso arrestato il 16 gennaio 2023 dopo 30 anni di clandestinità”. Punto e basta.

Dal Corriere della Sera

         Pochi centimetri più sopra sulla prima pagina del Corriere della Sera -ripeto- c’è oggi questo titolo: “Elezioni- Vendola lancia Colaianni, l’ex magistrato – Bari, spunta il terzo nome per Pd e Cinque Stelle”. Colajanni si chiama Nicola, come il patrono di Bari.

Gianrico Carofiglio

         Qualche giorno fa, dopo l’affossamento delle primarie, ripudiate da Conte, per designare il candidato comune di piddini e grillini a sindaco di Bari fra Vito Leccese e Michele Laforgia, era stato ventilato da sinistra un altro terzo nome: quello di Gianrico Carofiglio, politicamente più noto come ex magistrato che come scrittore di meritato successo ed ex parlamentare del Nazareno.

Michele Emiliano

         I magistrati in aspettativa, come il già sindaco della stessa Bari e ora governatore della Puglia Michele Emiliano, o in pensione sono quindi la riserva cui una certa sinistra moralistica ricorre quando non sa come uscire dagli intrighi elettorali nei quali riesce a infilarsi.

         Se questo non è masochismo, per il discredito che si procura alla politica e il credito che si attribuisce, al contrario, ad una magistratura capace di produrre oggi il caso Patti come a suo tempo il caso Tortora, ditemi voi come si debba o possa chiamare diversamente. 

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