Mattarella e Draghi insieme come tre anni fa, ma stavolta sul percorso europeo

Dal Dubbio

Presi fra la drammatica vicenda giudiziaria delle sevizie nel carcere minorile di Milano, che ha messo e mette a dura prova il mio garantismo, e la sconcertante fuga dalle urne nella Basilicata -pur dopo, o proprio a causa di una campagna elettorale preparata con i fuochi artificiali delle liti e degli sgambetti interni ed esterni alle due coalizioni contrappostesi- sono sfuggite la portata e il significato della convergenza ricreatasi fra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Mario Draghi. Ricreatasi, se mai si fosse davvero interrotta.

La sede della Commissione Europea

Questa volta la convergenza è avvenuta non su un passaggio della politica interna- come tre anni fa, quando il primo mandò il secondo a Palazzo Chigi per garantire un governo al Paese ritenendo di non potere sciogliere in quel momento le Camere anticipatamente- ma sulle prospettive europee. Alle quali, volenti o nolenti, chi per spingere e chi per frenare, sono chiamati a lavorare e ancor più lo saranno tutti i paesi dell’Unione, e relative forze politiche, nel Parlamento che sarà eletto a giugno.

         Ormai, nonostante la tormentata vicenda appena conclusa del nuovo patto di stabilità,  non si potrà che andare avanti sulla strada dell’Unione, non tornare indietro. Ce lo impone la cosiddetta geopolitica. Lo impongono le guerre che l’assediano, una delle quali -quella naturalmente in corso da più di due anni in Ucraina- entrata quasi come un’enclave in una Europa alla quale il paese aggredito e invaso dalla Russia di Putin si è proposto ottenendo la disponibilità ad accoglierlo, non certo un rifiuto.

Scsula von der Leyen

         Per andare avanti, al passo impostole -ripeto- dalla geopolitica e dall’istinto, direi, di sopravvivenza, l’Unione Europea ha bisogno di una riforma “radicale”, ha detto Mario Draghi anticipando un rapporto sui problemi della competitività apprezzabilmente chiestogli dalla Commissione uscente presieduta da Ursula von der Leyen. Una riforma “incisiva e coraggiosa”, ha detto Mattarella. Il cui mandato al Quirinale è stato rinnovato poco più di due anni fa, per cui ne ha ancora cinque a disposizione. Che, conoscendo l’uomo del Colle, non trascorreranno certamente inoperosi o passivi, né dentro né oltre i confini nazionali, per quel che ancora essi valgano e continueranno a valere nel percorso comunitario ancora incompleto.

         L’asse istituzionale creatosi fra Mattarella e Draghi nel 2011, scambiato nella casa grillina e dintorni per un “Conticidio” e approdato così nelle librerie con la firma del direttore del Fatto Quotidiano, si tradusse in una maggioranza politica con ripetute fiducie parlamentari. Che si interruppero nell’estate dell’anno dopo con lo sbocco a quel punto inevitabile delle elezioni anticipate. A loro volta sfociate nel governo attuale che, pur presieduto da una ex oppositrice di Draghi, la leader della destra Giorgia Meloni, ne ha ereditato e sviluppato la qualificante politica estera. E’ sembrato e sembra un paradosso, ma è semplicemente la realtà.

         Chissà se quell’asse -ripeto- appena ritrovato con o nelle parole di Draghi e Mattarella, in ordine alfabetico, non riuscirà a tradursi nel nuovo Parlamento europeo, con il concorso di forze politiche capaci di confluire in una nuova maggioranza, come nel Parlamento italiano fra il 2011 e il 2012. Ma questa volta in una prospettiva più lunga. Chissà.

La sede del Parlamento europeo

         Si sono già levate voci preoccupate, anche di miei colleghi e amici carissimi, per il rischio di un vulnus della democrazia rappresentativa, chiamata ad adeguarsi a operazioni di vertice piuttosto che crearne di proprie. Ma è un timore che francamente, e personalmente, non avverto perché convinto che nessuno voglia o possa comunque congiurare, piuttosto che lavorare, confrontarsi e infine decidere nelle sedi proprie. Dalle quali sicuramente non si lascerà escludere l’Europarlamento che tutti saremo chiamati ad eleggere fra poco, accorrendo alle urne -spero, condividendo l’auspicio del capo dello Stato- non con l’affluenza minoritaria delle elezioni regionali appena svoltesi in Basilicata. Dove tutto alla fine è risultato virtuosamente -si fa per dire- dimezzato: sia la vittoria del confermato centrodestra, sia la sconfitta del campo più o meno largo a comune partecipazione del Pd di Elly Schlein e delle 5 Stelle di Giuseppe Conte. Non parliamo poi del terzo incomodo nella corsa al governatorato dal nome – Follia- già sfortunato di suo.

Pubblicato sul Dubbio

Fra le consolazioni e gli incubi della segretaria del Pd al Nazareno

         Nella disgrazia della sconfitta in Basilicata, dove ha notoriamente stravinto il centrodestra con la conferma del governatore uscente Vito Bardi, la segretaria Elly Schlein si è consolata con quel quasi 14 per cento di voti -13,9- conseguito dal suo Pd quasi doppiando l’alleato ma anche concorrente movimento di Giuseppe Conte, sceso dalle due cifre abituali in quella regione al 7.7.

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

Tramite il Corriere della Sera la donzella del Nazareno ha mandato all’ex premier un “messaggio” definito “unitario” in un’altra intervista, rilasciata al manifesto: “Basta veti reciproci”. Con i quali infatti si finisce sempre per perdere con un centrodestra per giunta allargato ai pur litiganti, rissosi e quant’altro Carlo Calenda e Matteo Renzi. Un miracolo, quest’ultimo, che solo la Schlein e Conte insieme potevano produrre regalandoli alla coalizione di Giorgia Meloni.

         In questa consolazione della segretaria del Nazareno c’è tuttavia qualcosa che non funziona, non risponde alla realtà. Qualcosa che rende la Schlein più illusa che consolata. E con lei il partito che le è alle spalle e dal quale, a questo punto, lei deve aspettarsi sempre più problemi, sino alla resa dei conti toccata a tutti i suoi predecessori: da Walter Veltroni, il primo segretario, a Pier Luigi Bersani, da Matteo Renzi a Nicola Zingaretti e ad Enrico Letta, saltando i più o meno reggenti Dario Franceschini e Guglielmo Epifani, se non ho dimenticato qualcun altro.

         I veti lamentati dalla Schlein non sono stati “reciproci”. Sono stati tutti o prevalentemente di Conte contro il Pd e i suoi candidati: un Conte che in occasione delle elezioni regionali sarde raccontò di non avere dovuto fare neppure una telefonata al Nazareno per imporre l’aspirante grillina alla presidenza. Che per sua fortuna riuscì a vincere grazie alla debolezza del candidato contrappostole dalla Meloni in persona, nonostante le resistenze di Matteo Salvini a favore del governatore uscente. Cui alla fine diede il colpo di grazia la solita magistratura.

La vignetta di ItaliaOggi

         Illusoria infine mi sembra anche la consolazione del “Movimento 5 Meteore” della vignetta di ItaliaOggi forse piaciuta alla Schlein  pensando alle dimensioni cui si è ridotto il partito di Giuseppe Conte in Basilicata, non dissimili d’altronde da quelle sarde pur così generosamente premiate dal Pd.

Giuseppe Conte

         A livello nazionale -purtroppo per la Schlein, e i suoi amici e amiche di partito, o compagni e compagne, come in molti si chiamano fra loro tenendosi ben stretta fra le mani la tessera stampata con la fotografia degli occhi di Enrico Berlinguer- quel diavolo di Conte riesce ancora a rimanere sulle due cifre. Un sondaggio Swg appena sfornato per il telegiornale de la 7 dà il Pd al 20 per cento, con un guadagno dello 0, 6 in soli sette giorni, fra il 15 e il 22 aprile, ma il movimento dell’ex premier grillino al 15,9, distanziato praticamente di soli quattro punti. Un incubo, direi, più che una consolazione.

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Vittoria e sconfitte dimezzate in Basilicata dall’astensionismo

         Non per guastare la festa a nessuno- né al governatore di centrodestra Vito Bardi confermato, né al Pd di Elly Schlein che nel campo dell’opposizione ha doppiato il concorrente movimento di Giuseppe Conte, sceso ad una cifra, il 7 e mezzo per cento, dalle due che vantava orgogliosamente- ma i risultati elettorali regionali della Basilicata segnano desolatamente il dimezzamento sia della vittoria sia della sconfitta. O le sconfitte, al plurale, se vogliano considerare anche il terzo e misero ingombro di un candidato già debole, diciamo così, nello sfortunato cognome di Follia, e di nome Eustachio.

Il titolo di Avvenire

         La maggioranza in quella regione, non a caso confinante con un’altra -la Puglia- messa alquanto male sul piano politico e mediatico, è stata conquistata in realtà dall’astensionismo, salito dal 46,5 per cento delle precedenti elezioni dello stesso livello, nel 2019, al 50,20 per cento di questa volta. E’ andato cioè a votare meno della metà dell’elettorato. Che ha pertanto risposto con un misto di indifferenza e di disprezzo agli appelli di un po’ tutti i partiti, e le famiglie, anche nel vero senso della parola, scesi in campo più per scannarsi fra di loro che per offrire soluzioni ai problemi della popolazione. E’ desolatamente vero -ripeto-  il titolo di apertura scelto da Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani, per annunciare il risultato delle votazioni: “L’astensione vince”, appunto.

Il titolo del Corriere della Sera

         A rimetterci di più sembra, almeno dai risultati sinora disponibili, il partito dell’ex premier Conte, pur così sicuro di sé nelle sue escursioni, o incursioni, secondo i casi, nel campo che lui vorrebbe “giusto” ma finisce sempre, o quasi, per rivelarsi insufficiente al successo. La recete rondine sarda, peraltro volata con le ali bagnate di una minoranza e non maggioranza di voti e già caduta in Abruzzo, non ha fatto primavera. Ora forse il presidente delle 5 Stelle conta di rifarsi alle elezioni europee di giugno sventolando il nome della pace, stampato nel simbolo come una bandiera, e scommettendo sull’infortunio appena occorso a livello nazionale alla Schlein con quel goffo tentativo di intestarsi come in una targa un partito dove i segretari si succedono con la frequenza dei birilli che cadono al bowling.

La vignetta della Gazzetta del Mezzogiorno

         Nel campo pur vincente del centrodestra, allargato in Basilicata non si sa ancora se in modo determinante sia a Carlo Calenda che a Matteo Renzi, il partito di Giorgia Meloni ha dovuto accontentarsi di un primato al 16,4 per cento dei voti, dieci meno della media nazionale. E la Lega di Matteo Salvini è stata superata di quasi cinque punti da Foza Italia, di cui aveva neppure tanto nascosto il proposito, prima della presentazione delle liste, di contrastare l’ambizione alla conferma del “suo” governatore uscente. Che invece si è guadagnata la vignetta della Gazzetta del Mezzogiorno sull’uscita e sul rientro, come in un albergo con la porta girevole, dell’ex generale della Guardia di Finanza Vito Bardi. Attenti, e riposo.

Le 24 ore della Schlein nipotina della buonanima di Berlusconi

Dal Dubbio

Ma come, Elly, benedetta ragazza, anche se un po’ cresciuta. Perché ti è saltato in mente di mettere il tuo nome nel simbolo del partito -come Silvio Berlusconi a suo tempo e ancora oggi, da morto, col suo- appena dopo avere intestato “la ditta”, come la chiamava Pier Luigi Bersani, alla buonanima di Enrico Berlinguer? Dei cui inconfondibili occhi, paradossalmente misti di tristezza e allegria, gli iscritti al Pd quest’anno trovano la foto sulla tessera, destinata magari a sopravvivere nella collezione con quelle successive e precedenti.

E’ stata una decisione, questa sul ricorso all’immagine berlingueriana nel 40.mo anniversario della morte, che pure è costata alla segretaria piddina parecchie polemiche nell’area post-democristiana, ma non solo, affrettatasi a prenotare per gli anni prossimi un santino compensativo, a scelta fra don Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Aldo Moro. Ma anche -perché no?- Amintore Fanfani.

Giulio Andreotti

Non mi spingo fino a Giulio Andreotti nel Pantheon del Pd un po’ per non farlo rivoltare nella tomba e un po’ per evitare che nell’occasione riparta contro di lui, pur da morto, una fatwa del suo ex grande accusatore ancora sulla scena con articoli e interviste. E’ naturalmente  Gian Carlo Caselli, convinto che quella dell’ex presidente del Consiglio imputato di mafia non fosse stata un’assoluzione piena ma a metà, mista ad una prescrizione inemendabile. E pazienza se nel frattempo la cosiddetta giurisdizione superiore ha ammonito a non scambiare la prescrizione per condanna, e praticamente diffidato altre Corti dal ripetere l’errore al quale invece l’ex capo della Procura della Repubblica di Palermo è rimasto attaccato come l’edera a un muro. E la lucida lui stesso ogni volta che qualche polemica gliene offre l’occasione, togliendole la polvere del tempo.

Un altro aspetto sorprendente della tentazione avvertita dalla Schlein, magari per reggere il confronto con Giorgia Meloni, l’antagonista con la quale attendiamo ancora tutti il confronto diretto in televisione promesso da entrambe, è la contraddizione fra la personalizzazione insita nel nome stampato nel simbolo e la contrarietà di principio, di carattere quasi costituzionale, al cosiddetto premierato all’esame del Senato, su iniziativa del governo in carica. O, in alternativa e persino in aggiunta, come ha detto di recente la Meloni, il presidenzialismo inteso come elezione diretta del presidente della Repubblica.

Nulla di personale, per carità, a proposito di personalizzazione, ma certe cose andrebbero approfondite e chiarite, prima di infilarsi in polemiche e avventure politiche delle quali si è poi costretti a riconoscere sempre troppo tardi l’errore, quando non è più possibile rimediarvi per gli effetti che ha già prodotto. Questa volta, grazie a Dio, il ripensamento sul simbolo è arrivato presto, ma il passaggio è rimasto infelice.

Pubblicato sul Dubbio

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Polvere di partiti, come stelle, sulle elezioni europee di giugno

Voto in Basilicata

         Sulle votazioni regionali in Basilicata -si vedrà se e con quale ulteriore calo dell’affluenza alle urne, ormai cronico un po’ dappertutto negli appuntamenti elettorali- hanno prevalso le notizie tutte romane della presentazione dei simboli dei partecipanti al rinnovo del Parlamento europeo, fra meno di due mesi, e della preparazione delle candidature.

Giuseppe Conte

         Il più furbo pensa forse di essere stato Giuseppe Conte recandosi personalmente al Viminale per vantarsi di avere messo la pace -come parola- nel simbolo del Movimento 5 Stelle da lui presieduto. Come per dare dei guerrafondai, o comunque poco sensibili sul tema, a tutti gli altri. Ma soprattutto al Pd di Elly Schlein, già da lui rimproverata, in uno degli scontri che si inseguono da mesi, di non avere tolto al suo partito “l’elmetto” infilatogli dal predecessore Enrico Letta prima delle elezioni politiche anticipate del 2022: quando partecipò a suo modo alla difesa dell’Ucraina dall’aggressione della Russia di Putin. Conte invece proprio o soprattutto su questo aveva rotto non solo col Pd ma, nel proprio partito, con Luigi Di Maio ancora ministro degli Esteri. Che ne aveva denunciato i contatti con l’ambasciata russa in Italia, attivissima contro l’Ucraina, per attenuare e cercare addirittura di rovesciare la linea atlantista ed europeista del governo di Mario Draghi.

Michele Santoro

         Alla pace, ma anche alla terra e alla dignità, ha intestato le sue liste alle elezioni europee anche l’esordiente capo Michele Santoro, di cui chissà se e in che misura teme la concorrenza l’ex premier grillino, in subordine naturalmente a quella che in questo caso egli non subisce ma alimenta nei rapporti col Pd. Dove tuttavia è esploso il solito, mezzo putiferio apparentemente di metodo, ma in realtà di sostanza e persino di identità.

Romano Prodi

         La decisione della segretaria di candidarsi personalmente, pur col sostegno del presidente del partito ed ex concorrente alla segreteria Stefano Bonaccini, non ha trattenuto quella mezza icona che viene ancora ritenuta Romano Prodi dal rinnovare all’esterno il suo dissenso. Anzi, la sua protesta per lo scarso rispetto che si mostra per la democrazia candidandosi -come tuttavia fanno anche altri leader o leaderini di partito- ad un seggio cui si sa in anticipo di dovere rinunciare, solo nella presunzione di misurare la propria popolarità e di tirare la volata ad altri aspiranti all’euroseggio destinati a subentrare.

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

         Ma oltre che sulla propria candidatura è scoppiato un caso al Nazareno per la volontà della Schlein di mettere il proprio nome nel simbolo delle liste del Pd. E anche ciò col consenso di Bonaccini, cui la segretaria ha concesso la postazione di capolista nella circoscrizione di cui fa parte la regione che lui presiede, cioè l’Emilia-Romagna. Dio mio, che vespaio. Impraticabilità di campo, ha raccontato in televisione Alessandro De Angelis, da Fabio Fazio

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Scurati scambiato per il plurale di scurato e promosso fra i martiri della Meloni

Da Libero

Cerco di non cadere nella doppia trappola dell’oscuramento del quale Antonio Scurati si è sentito vittima, sostenuto naturalmente dai suoi tifosi letterari e politici, e del conseguente anti-oscuramento inscenato per riproporre una Rai in camicia nera. E per sottrarsi ad una ragionata contestazione che invece Scurati merita come romanziere, storico, saggista, opinionista e quant’altro sul modo di celebrare a cento anni di distanza, e a ridosso della festa di liberazione del 25 aprile, la tragedia di Giacomo Matteotti: l’uomo al quale Elly Schlein ha preferito Enrico Berlinguer, nel quarantesimo anniversario della morte, per intestargli praticamente il Pd. E stampare la fotografia dei suoi occhi sulle tessere d’iscrizione del 2024.

Da Libero

         Giacomo Matteotti, caro Scurati, fu ucciso materialmente dai fascisti, con la spavalda rivendicazione di Benito Mussolini in Parlamento, ma era già stato ferito metaforicamente a morte dai massimalisti con la sostanziale cacciata dal partito socialista affascinato dalla rivoluzione comunista. Egli era finito, con quella storia, in quella che non io ma Antonio Gramsci aveva definito “il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati”, da abbattere al pari del “fascismo di Mussolini e Farinacci”.

Walter Veltroni

         Sono parole, caro il mio o vostro Scurati, per chi le dovesse leggere senza condividerle, che ho preso in prestito da una recente recensione di Walter Veltroni, sul Corriere della Sera, del bel libro di Antonio Funiciello su Matteotti –Tempesta- pubblicato da Rizzoli.

Dal Corriere della Sera del 16 aprile

         “Per divisioni, riflessi ideologici, incapacità di analizzare e sceverare, di fare politica. Funiciello ricorda -si legge nella recensione di Veltroni, per fortuna restituito dalla politica al giornalismo, al romanzo, al cinema e a quant’altro- un discorso di Gramsci, che sarà anche lui vittima del fascismo, in cui tutto viene messo sullo stesso piano, indicando come obiettivo quello -appunto- di “abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati”. E Giacomo Matteotti.  

         Di Veltroni e della sua recensione abuso, diciamo così, anche per ricordare di nuovo con lui che “Matteotti fu il primo segretario del Partito socialista unitario nato per l’espulsione dal Psi dei riformisti, accusati proprio di avere tentato un governo per impedire l’avvento di Mussolini. In quel partito -continua la recensione di Veltroni- si ritroveranno Pertini, Rosselli, Treves e Ferruccio Parri. Sarà il primo ad essere sciolto dal fascismo. Nel 1924, alle elezioni vinte plebiscitariamente dalla lista di Mussolini, il Psu riuscirà ad essere, anche se con il 5 per cento, il partito di sinistra più votato”.

Giacomo Matteotti

         Scusami, Walter, ma ti prendo in prestito anche questo passaggio successivo: “Ripensare Matteotti, come fa Funiciello, ci aiuta a capire, per ieri e per oggi, le tante occasioni perdute per dar vita a una sinistra riformista unitaria, capace di coniugare libertà e giustizia sociale”.  “Per ieri e oggi”, ripeto con Veltroni. Appartiene -ahimè- al passato meno lontano o più recente, come preferite,  il trattamento riservato fra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso dal Pci e sigle successive al socialismo riformista di Bettino Craxi. Del quale si preferì liberarsi cercando di mandarlo in galera, e facendolo morire in Tunisia da esule –-o “latitante”, secondo gli avversari e i magistrati- piuttosto che costruire con lui una sinistra unitaria e riformista dopo la caduta del comunismo.

Bettino Craxi

         Tutto questo può sembrare estraneo, o posticcio, al centenario della morte di Matteotti. Che c’azzecca, chiederebbe forse Antonio Di Pietro?,  pur distratto in questi giorni dai paragoni tentati da Giuseppe Conte fra la cosiddetta Tangentopoli del 1992 e la Baropoli, o Pugliopoli, di questo 2024 pur di ricavare vantaggi dalle difficoltà del Pd nella corsa al sorpasso in quello che lo stesso Conte chiama “campo giusto”, a prescindere dalla sua ampiezza. Invece c’entra, eccome.

La sede nazionale della Rai

La politica continua ad essere ostaggio, con le sue appendici letterarie o intellettualistiche, dell’ignoranza, della cattiva memoria e delle strumentalizzazioni. Come quella della Meloni pronipote di Mussolini e di tutto il resto, compreso quel certo mestierume che crede di difenderla o addirittura proteggerla nella Rai del cavallo purtroppo morente, pur nella sua possanza artistica.

Pubblicato su Libero

Più che della censura, siamo alla fiera più modesta dell’invidia

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

         Dante aveva sistemato gli invidiosi nel tredicesimo canto del Purgatorio, con le spalle prevalentemente al muro e gli occhi cuciti con un filo fi ferro, avendone abusato in vito per guardare e invidiare, appunto, gli altri. Più modestamente, o meno scomodamente, e soprattutto lasciandoli in vita, Aldo Grasso oggi sul Corriere della Sera li ha strapazzati nel suo “Padiglione Italia” prendendosela, in particolare, con quelli che hanno tenuto da ridire e scrivere sulla corsa, presunta o vera che sia, dell’ex premier italiano Mario Draghi a Bruxelles. Dove avrebbe tutte le competenze per servire bene l’Unione Europea, come già fatto a Francoforte guidando la Banca Centrale, sempre europea. E difendendo così bene la moneta comunitaria anche dalla concorrenza del dollaro da procurarsi qualche invidia anche negli amati e da lui ammirati Stati Uniti d’America.

Mario Draghi

         Ma Draghi -hanno detto e scritto i suoi critici o avversari- non appartiene a nessun partito e li tratta tutti con una certa supponenza estendendola ai loro elettori.  Beh, non se lo meritano forse per l’approssimazione, a dir poco, con la quale un po’ tutti si muovono a destra, a sinistra e nel fantomatico centro, dove pure fanno a gara per candidarlo ovunque esista o si crei un vuoto, ritenendolo l’uomo delle missioni impossibili? Ne facciano pure a meno, per carità, peggio per loro.  Così avrei preferito che la moglie Serenella di recente dicesse al giornalista che per strada le chiedeva previsioni sul futuro del marito raccogliendone di nere, e stizzite, sulla strada di Bruxelles perché troppo bravo.

Antonio Scurati

         Avverto una certa puzza di invidia, più che di censura, peraltro stupida per il risultato ottenuto con una maggiore esposizione dell’interessato,  anche dietro e dentro il rifiuto opposto dal responsabile, o irresponsabile, della Rai che per non dare 300 euro in più allo scrittore Antonio Scurati gli ha precluso un breve monologo antifascista sul 25 aprile. Che Giorgia Meloni, furba per professione o vocazione politica, si è affrettata a pubblicare gratis e per intero sui suoi social -si dice così?- liberandosi dal sospetto che ci avesse messo il dito nella vicenda censoria. Scurati l’ha attaccata lo stesso, pure lui -temo- per invidia più che per altro.

Aldo Grasso

  Lo segnalo ad Aldo Grasso per qualche suo prossimo “padiglione”. Non lo segnalo a Dante perché ormai irraggiungibile. E poi temo che Papa Francesco abbia svuotato anche il suo Purgatorio, oltre all’Inferno. Speriamo che non sgomberi pure il Paradiso.

Tutte le incognite della Basilicata al voto fra oggi e domani

Dalla prima pagina del Corriere della Sera di ieri

         Oggi si vota in Basilicata, e si tornerà a farlo domani sino alle ore 15, per il rinnovo del Consiglio regionale e l’elezione del presidente dopo una campagna elettorale che il centrodestra ha potuto condurre e concludere in modo unitario, con l’immagine della manifestazione finale, e gli avversari no. Già questa circostanza, sottolineata ieri sulla prima pagina del Corriere della Sera, ha un suo  significato. E potrebbe preludere alla conferma del governatore uscente, e forzista, Vito Bardi, per quanto il principale concorrente Piero Marrese, sostenuto da un campo “largo” a dispetto del fastidio che questo aggettivo procura notoriamente a Giuseppe Conte, si sia quanto meno mostrato sino all’apertura dei seggi fiducioso di una rimonta.

La scheda elettorale a Potenza

         Ma oltre, e persino ancor più dell’elezione del governatore, sarà interessante vedere già domani sera come risulteranno cambiati i rapporti do forza fra i partiti, all’interno delle stesse coalizioni in cui si sono più o meno laboriosamente trovati o ritrovati, dopo fratture di natura anche familiare indicative del carattere particolare di questa regione peraltro confinante con un’altra -la Puglia- che è attraversata da tensioni fortissime.  Col solito impasto di cronache politiche e giudiziarie gestite con una certa disinvoltura, a dir poco, da un presidente di giunta che pure è non un ex, ma un magistrato in aspettativa come Michele Emiliano: ormai, temo, più un problema che una risorsa per il partito suo e della Schein.

La scheda elettorale a Matera

         All’interno del centrodestra vedremo se e di quanto continuerà a crescere a spese dei suoi alleati il partito della premier Giorgia Meloni, passata da meno del 6 per cento delle precedenti elezioni regionali, nel 2019, al 18,2 dei voti, sempre regionali, nelle elezioni politiche del 2022. La Lega di Matteo Salvini è scesa invece dal 19,15 al 9 per cento, e Forza Italia salita solo dal 9,14 al 9,41.

La vignetta di ieri sul Corriere della Sera

         Sul versante opposto, diviso cinque anni fa a livello regionale come due anni fa a livello nazionale e oggi formalmente unito, pur impossibilitato -ripeto- a ritrovarsi insieme in una piazza, sarà curioso verificare le distanze fra il Pd il Movimento 5 Stelle: distanze che sono l’ossessione pur negata dai rispettivi leader, che si giocano invece nelle urne, ogni volta che vi capitano, la leadership del campo che, non potendo essere misurato con lo stesso metro, Pier Luigi Bersani ha proposto di chiamare semplicemente “alternativo” al centrodestra, o destra-centro.

         Il Pd nelle elezioni regionali del 2019 riuscì a raccogliere fra varie liste nelle quali si articolò quasi il 25 per cento, superando di 5 punti le 5 Stelle non ancora di Giuseppe Conte, pur già presidente del Consiglio a Palazzo Chigi. Nelle elezioni politiche del 2022, sempre separati e quindi ancor più che concorrenti, il Pd della Basilicata scese al 15 per cento e il movimento grillino, passato decisamente nelle mani di Conte, salì al 25 per cento: non poco, obiettivamente, rispetto ad una media nazionale del 15,6.

Di Pietro a sorpresa piange sulla credibilità tolta alla politica anche dalla magistratura

         Il tempo, grazie a Dio, passa anche per Antonio Di Pietro. Che da pensionato, contadino, coltivatore diretto o com’altro preferisce essere chiamato dopo avere fatto un bel po’ di mestieri  e avere mancato forse il Quirinale nel 1992 solo perché non aveva ancora i 50 anni richiesti dalla Costituzione per concorrervi, disponendo invece della notorietà e popolarità massime come sostituto procuratore della Repubblica a Milano, ha riconosciuto -bontà sua- che bisogna “restituire credibilità alla politica” e persino mantenere il voto di preferenza. E ripristinarlo dove è stato tolto, per quanto gli elettori che ancora ne dispongono a livello locale lo abbiano deplorevolmente  deprezzato, almeno in Puglia, a miserabili 50 euro l’uno, o a una bombola di gas.

Antonio Di Pietro e colleghi ai tempi di “Mani pulite”

         Eppure lui, sempre Di Pietro, è uno di quelli che una trentina d’anni fa, sfilando nei corridoi del Palazzo di Giustizia o nella Galleria di Milano con i colleghi magistrati, contribuì non poco alla demolizione della politica. O almeno dei partiti che ne erano protagonisti o attori, praticamente tutti ghigliottinati e sepolti con la cosiddetta prima Repubblica. Non si salvò poi dalla cattiva rappresentazione dei partiti nemmeno quello che lui creò chiamandolo, se non ricordo male, Italia dei Valori, a cominciare da quelli bollati.

L’intervista di Di Pietro al Quotidiano Nazionale

         In una intervista rilasciata al cosiddetto Quotidiano Nazionale, che raggruppa in ordine geograficamente discendente Il Giorno, il Resto del Carlino e La Nazione, Di Pietro ha detto che “all’epoca di Mani Pulite”, quella che lo vide fra i protagonisti sul versante giudiziario, “l’opinione pubblica era vicina alla magistratura perché la vedeva come una lotta tra guardie e ladri”. Dove le guardie erano naturalmente lui, i suoi colleghi e la polizia giudiziaria di cui disponevano e i ladri erano i partiti, tutti finanziati -chi più e chi meno- illegalmente, prendendo soldi senza registrarli nei bilanci e pensando, anzi illudendosi, che nessuno per questo si sarebbe messo a denunciare o ricattare gli altri.

         “Oggi -ha aggiunto Di Pietro prendendosela un po’ con la stampa che una trentina d’anni fa invece risultò molto utile alle inchieste giudiziarie- anche a causa di un’informazione pilotata l’opinione pubblica vede una guerra per bande. Per questo si disinteressa del voto”.

         In effetti un sondaggio Ipsos appena pubblicato dal Corriere della Sera attribuisce il 52,5 per cento all’astensionismo e dintorni.

Michele Emiliano

         Peccato che l’intervistatore non abbia avuto il tempo, l’accortezza, il coraggio -chiamatelo come volete- di chiedere a Di Pietro se alle bande della cui guerra egli ha avvertito i suoni si possano o debbano attribuire anche quei magistrati, suoi ex colleghi, che in Puglia direttamente o indirettamente -poco importa- hanno fornito al presidente della regione Michele Emiliano, peraltro loro collega in aspettativa, notizie utili a dimissionare questo o quell’assessore, o simile, nel tentativo di non fare travolgere nei loro guai giudiziari anche la sua giunta. E lui stesso.  

Ripreso da http://www.startmag.it il 21 aprile

Le agende di Mario Draghi contese dagli amici e temute dagli avversari

Dal Dubbio

Di Mario Draghi esistono -o gli sono attribuite- due agende. Una è quella nata col suo governo e fatta di programmi, di progetti, di riforme: un’agenda contesa nell’ultima campagna elettorale per il rinnovo del le Camere da varie forze politiche. Che andavano dal Pd ancora di Enrico Letta, entrato per questo in rotta di collisione col Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, al cosiddetto terzo polo improvvisato da Matteo Renzi e Carlo Calenda e persino dall’opposizione di destra di Giorgia Meloni. Alla quale parve a molti, e non a torto, che Draghi passasse le consegne a Palazzo Chigi dopo le elezioni con un certo sollievo, sapendo di lasciare in buone mani la parte di quell’agenda riguardante la non certo irrilevante politica estera, come il sostegno politico e militare all’Ucraina aggredita e invasa dalla Russia di Putin.

Draghi in treno verso Kiev con Macron e Sholz

         Chissà se, proprio pensando alla continuità di quel sostegno, in cui lui si era prodigato moltissimo, e non solo viaggiando insieme con il presidente francese e il cancelliere tedesco sul treno diretto a Kiev, Draghi non fu quanto meno tentato nelle elezioni politiche anticipate del 2022 di votare anche lui per il centrodestra, e più in particolare per il partito della Meloni, dopo avere votato in vita sua -credo- il Pd e prima ancora il Psi di Bettino Craxi o la Dc di Amintore Fanfani e Aldo Moro, o il Pri di Ugo La Malfa e poi di Giovanni Spadolini. Chissà, ripeto.

         L’altra agenda di Draghi è quella telefonica, con i numeri o recapiti elettronici degli interlocutori conosciuti e frequentati a livello nazionale, ma ancor più internazionale, prima ancora di essere chiamato a Palazzo Chigi. E di esservisi insediato -permettetemi di aggiungere con un po’ di malizia- senza reclamare o comunque ottenere un salvacondotto o paracadute come il laticlavio concesso da Giorgio Napolitano nel 2011 a Mario Monti, anche lui prelevato al Quirinale da una riserva insieme tecnica ed europea.

         E’ difficile dire quale delle due agende sia più temuta dai critici e avversari della corsa a Bruxelles attribuita, a torto o a ragione, a Draghi dopo la “svolta radicale” dell’Unione Europea da lui proposta anticipando il rapporto sulla competitività della stessa Unione chiestogli nello scorso autunno dalla presidente uscente della Commissione comunitaria, Ursula von der Leyen.

Conte e Draghi a Palazzo Chigi

         La prima agenda è stata praticamente liquidata come “roba vecchia” in un commento di Fabrizio Barca sul Fatto Quotidiano. Il cui direttore Marco Travaglio non ha ancora perdonato all’ex premier il “Conticidio” rimproveratogli all’arrivo a Palazzo Chigi, dove il presidente attuale delle 5 Stelle sarebbe stato, nella storia dei capi di governo dell’Italia, secondo solo, addirittura, a Camillo Benso conte, al minuscolo, di Cavour.

Draghi e Meloni a Palazzo Chigi

         L’altra agenda di Draghi, quella dei suoi rapporti soprattutto internazionali, ha invece impensierito altri che temono, in particolare, che l’ex presidente del Consiglio arrivi a Bruxelles baipassando i partiti e i loro elettorati, magari anche a dispetto dei risultati del rinnovo del Parlamento europeo nelle votazioni del 9 giugno.  Un Parlamento, comunque, dal quale né Draghi né altri al suo posto potranno invece prescindere, a dispetto di questi timori. Manca anche a livello europeo, e non solo italiano, almeno per ora, in attesa che la Meloni riesca a far passare la sua riforma, l’elezione diretta del presidente della Commissione o del Consiglio comunitario.

Non mi fascerei insomma la testa, da elettore e difensore della democrazia rappresentativa, prima che altri me la rompessero con intese politiche non trasparenti, concordate al telefono o per posta elettronica nei pre-vertici europei, successivi o addirittura precedenti alle elezioni di giugno.

Mi limiterei a riconoscere a Draghi, come ha fatto il presidente del Senato Ignazio La Russa, le competenze e le qualità maturate nella sua lunga attività pubblica, non solo privata, tutte adatte alla scalata a Bruxelles che gli viene -ripeto- attribuita a torto o a ragione. E che certamente, se per avventura riuscisse, non umilierebbe l’Italia o, come preferisce dire la Meloni, la Nazione italiana.

Pubblicato sul Dubbio

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