Se persino il Papa scambia la “pagana” Giorgia per una fedele cristiana…

Da Repubblica di ieri

         Ezio Mauro su Repubblica ha scomodato la religione, e non solo il prevedibilissimo, scontato antifascismo più o meno professionale, per bollare il rapporto diretto cercato da Giorgia Meloni a Pescara col suo popolo reclamando di essere chiamata e votata col suo solo nome, cui tiene ben più del cognome. Sarebbe stata un po’ la ricerca di una “comunione pagana”, sottintendendo con quell’aggettivo il carattere, falso, eretico della relazione cercata dalla Meloni con i suoi elettori, reali o potenziali. Non a caso l’eresia, chiamiamola così, è stata denunciata contestando anche il richiamo abituale della premier alla combinazione di Patria, Dio e Famiglia, tutti rigorosamente al maiuscolo e arbitrariamente invocate da una destra pronta a tradirle o distorcerle.

Umberto Bossi alla fonte del Po

         Anche quel “cristiana” rivendicata con le vene gonfie in gola dal palco di un comizio in terra spagnola non piacque a suo tempo agli avversari della leader della destra italiana, che già allora la consideravano evidentemente una pagana travestita. Un po’ come accadde ai leghisti dei primi tempi, quando si sposavano fra di loro con i riti celtici e salivano a venerare il Po alla fonte per raccoglierne le acque in ampolle, o seguirne il corso sino alla foce. E allungare il viaggio a Venezia per proclamare la Repubblica indipendente della Padania, applaudirne il governo neppure in esilio e intimare a chi sventolava il tricolore alla finestra di casa di “buttarlo nel cesso”. Parola di Umberto Bossi in persona, che ora gli avversari di Matteo Renzi rimpiangono e indicano come il fondatore e leader tradito più ancora dai successori che dalla salute.

Dal Corriere della Sera del 28 aprile

         Ma torniamo al presunto paganesimo della Meloni, di cui evidentemente dovrebbero diffidare oltre Tevere. Dove invece la premier ha trovato un interlocutore molto ben disposto  come Papa Francesco, lesto ad accoglierne l’invito alla partecipazione al G7 a presidenza italiana. Sarà una prima volta del Pontefice, commentata sul Corriere della Sera da Walter Veltroni mentre i suoi compagni di partito hanno fatto finta di non vedere e non sentire.

La Meloni a un famoso comizio spagnolo

         Continuino pure lor signori del Nazareno -avrebbe scritto il Fortebraccio della vecchia Unità- a mettere la testa nella sabbia come gli struzzi. E a non accorgersi che non solo vanno via dal partito pezzi importanti della nomenclatura di provenienza democristiana, ma potrebbero seguirli anche pezzi del loro elettorato di una volta, o nuove leve di cattolici che si riconoscono, per esempio, nelle urla della Meloni contro la maternità surrogata.

         Non a caso, del resto, mentre il Pd arranca nei sondaggi, e in alcune elezioni locali, attorno al 20 per cento come se fosse un affare, peraltro insidiato da quel che è rimasto delle 5 Stelle di Beppe Grillo e ora di Giuseppe Conte, i fratelli e le sorelle d’Italia viaggiano attorno alle dimensioni che furono della Democrazia Cristiana. Sveglia, ragazzi. Per ripetere qualcosa già gridato dalla Meloni nell’aula di Montecitorio contro i banchi piddini.

Il popolo corteggiato dalla Meloni e perduto di vista dalla sinistra

Dal Dubbio

Sentivo alla radio radicale domenica il discorso di Giorgia Meloni a Pescara -quello chiusosi con l’annuncio della candidatura alle elezioni europee di giugno a capo di tutte le liste della sua destra e con l’invito a votare semplicemente Giorgia- e pensavo ad una decina d’anni fa.

Enrico Letta lascia Palazzo Chigi a Matteo Renzi nel 2014

         Enrico Letta si leccava le ferite di una butta caduta da Palazzo Chigi procuratagli dal collega di partito e appena segretario Matteo Renzi. Che gli aveva promesso “serenità” e procurato invece inquietudine e infine rabbia. L’ex premier e ancora parlamentare era alla ricerca di una nuova occupazione, o persino rivalsa morale. La trovò l’anno dopo a Parigi, in rue Saint Guillaume, rinunciando al seggio parlamentare in Italia e rimediando un contratto d’insegnamento alla Science Po, un rinomato istituto internazionale di studi politici, Da cui poi si sarebbe dimesso per prendere in Italia, richiamato in particolare dal dimissionario Nicola Zingaretti,  quello che era stato il posto di Renzi al Nazareno, alla guida del Pd. Una storia, se permettete, tutta elitaria, o di palazzo, come direbbero gli antipatizzanti della politica. Che a volte esagerano, ma altre volte no.

Una giovanissima Meloni vice presidente della Camera

         Giorgia Meloni, invece, sempre una decina d’anni fa, si leccava le ferite delle prime elezioni affrontate nel 2013 col nuovo partito di destra fondato l’anno prima. Ne era uscita con un misero 1,9 per cento dei voti. Continuò a percorrere le strade della sua Garbatella, a Roma, e delle periferie delle altre città italiane a scuola di politica, per quanto fosse già stata vice presidente della Camera e ministra dei governi di Silvio Berlusconi su designazione della destra capeggiata allora da Gianfranco Fini. Scrivo “a scuola di politica” non per esaltarne ma solo per ricordarne e riconoscerne  obiettivamente l’umiltà, da lei investita non per intrupparsi in qualche maggioranza più o memo larga ma per starsene all’opposizione ad ogni combinazione o governo.

L’ovazione a Enrico Berlinguer a Pescara

         I risultati di quella scuola di umiltà -bisogna ammetterlo, al di là di tutto il dissenso che possono meritare le sue azioni di partito e ora di governo, addirittura alla guida- non mi sembrano da buttare via. Parlano sia quel 26 per cento di voti conseguito nelle ultime elezioni politiche sia quella pur retorica identificazione col “popolo” che l’ha portata con furbizia da professionista ormai della politica a chiamarsi ieri,  farsi chiamare e farsi votare “solo Giorgia”: in un rapporto con l’elettorato che ricorda un po’ -sul versante opposto- solo la buonanima di Berlinguer. Che gli elettori comunisti chiamavano Enrico e che, non a caso, si è guadagnato ieri un’ovazione alla memoria dal pubblico della Meloni dopo un confronto giornalistico e politico fra Bianca Berlinguer, la figlia, e il presidente destrissimo del Senato Ignazio La Russa.

Ignazio La Russa intervistato a Pescara da Bianca Berlinguer

         Piuttosto che protestare a prescindere, a vedere dappertutto fascismo o qualcosa di analogo o propedeutico, di immaginare reati di omesso antifascismo o di seduzione elettorale da contestare alla Meloni, penso che a sinistra, ma anche al centro che ambisce a condizionarla al posto dei grillini di Giuseppe Conte, sia venuta l’ora di un esame salutare di coscienza. L’ora di scendere dalle stelle del già ricordato Conte alle stalle. E di cercare di recuperare tutto il terreno perduto, prima che sia troppo tardi, se non lo è già diventato.

Pubblicato sul Dubbio

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