In attesa del 25 aprile 2025, a 80 anni tondi dalla liberazione

Il titolo di Libero

         Per quanto vissuto da alcuni nelle piazze come “il giorno dell’odio” gridato da Libero, tra insulti e aggressioni agli ebrei trasformati da vittime addirittura a “nazisti”, il 25 aprile di questo 2024 non mi pare sia stato, in fondo, “il più inviso di sempre” preconizzato alla vigilia da Andrea Scanzi nel salotto televisivo di Lilli Gruber.  Poteva andare peggio, con più di un accoltellato e di 9 denunciati.

Giorgia Meloni, di spalle, ieri a Piazza Venezia

         Non so se andrà così bene, o così poco male, l’anno prossimo, quando ricorreranno non i 79 anni ma gli 80 dalla liberazione dal nazifascismo. E l’anniversario tondo    sarà più avvertito dai malintenzionati che si considerano offesi dal rifiuto della premier Giorgia Meloni -bruciata in foto ieri e prevedibilmente ancora in carica nel 2025 a Palazzo Chigi- di gridare ai quattro venti il suo antifascismo. Una parola magica che la leader della destra rifiuterebbe, anche ora che è alla guida del governo, per non tradire o se stessa, per quanto troppo giovane per avere vissuto gli anni della guerra civile, o gli elettori più vecchi e fanatici della sua fiamma tricolore, ereditata sia pure non direttamente dal Movimento Sociale. Che comunque a suo tempo approdò legittimamente nelle Camere della Repubblica nata dalla Resistenza e fornitasi di una Costituzione ancora considerata “la più bella del mondo” da chi non vuole riformarla, per esempio, con l’elezione diretta del presidente del Consiglio.

Il titolo del Riformista

         Chissà che cosa saranno capaci di inventarsi i celoduristi dell’antifascismo eterno – o “Anpifascismo”, come lo ha chiamato il Riformista richiamandosi all’attivissima associazione dei partigiani -per riproporre le divisioni di un tempo e rappresentare il Paese governato da prolunghe o travestimenti del regime che fu.

Ieri a Roma, a Porta San Paolo

         Chissà quanti cimeli di quel regime e riproduzioni dei suoi attori i celoduristi riusciranno a scoprire in qualche incursione nella pur sorvegliatissima casa milanese o uffici romani del presidente del Senato Ignazio La Russa. Che forse per essere all’altezza della seconda carica dello Stato, conferitagli dal Senato con l’aggravante di un contributo nascosto di Matteo Renzi, avrebbe dovuto bruciare casa e allestirne una completamente nuova, arredata di mobili, oggetti, biancheria e servizi tutti vidimati dall’Anpi.  

Ieri a Milano, in Piazza Duomo

  Chissà di quanto la premier dovrà scusarsi l’anno prossimo per avere vinto le elezioni politiche del 2022, a ridosso per giunta del centenario della marcia dei fascisti d’antan su Roma, essersi generalmente rafforzata nelle più limitate prove successive e avere buoni motivi di sperare nella prosecuzione del suo lavoro a Palazzo Chigi fino alla scadenza ordinaria della legislatura, nel 1927. E fare magari il bis nella successiva.

La torretta del Quirinale

Non oso immaginare il trauma di un approdo della Meloni al Quirinale, come prima domma anche alla Presidenza della Repubblica, dopo che avrà compiuto i 50 anni prescritti dalla Costituzione. Gliene mancano meno di tre. Un brivido di paura starà passando, a pensarci, per la schiena dei suoi avversari.

Ma quanta attenzione di Macron per gli italiani parlando dell’Unione Europea

Da Libero

Il Macron -Emmanuel, presidente dei cugini francesi- atteso per il suo secondo discorso alla Sorbona sull’Europa, dopo quello del 2017 che lo portò in due anni a sponsorizzare l’arrivo della tedesca Ursula von der Leyen al vertice della Commissione di Bruxelles, questa volta è stato pieno di attenzione, riguardo, e quant’altro per noi italiani.

L’amicizia fra Macron e Draghi

         Egli ha citato il suo notoriamente stimato amico personale Mario Draghi per gli studi sulla “competitività” in e dell’Europa, ma anche il predecessore a Palazzo Chigi Enrico Letta, pure lui incaricato a Bruxelles di studi sull’Unione, e persino la buonanima di Antonio Gramsci. Del quale ha condiviso la divisione tra il famoso “ottimismo della volontà”, che lo spinge a volere un’Europa più forte, più solida, più intimamente strategica anche nella difesa, e l’altrettanto famoso “pessimismo della ragione”. Che gli fa prevedere o temere un’Europa “mortale”, che “può morire”, o diventare “più fragile”, se non si decide a darsi una mossa: quella magari impedita anche o soprattutto dalla Francia in altri momenti. Una mossa come la “riforma radicale” proposta di recente da Draghi offrendo un anticipo del suo rapporto estivo sulla già ricordata competitività, di cui è stato considerato uno specialista anche dalla presidente uscente -e non so quanto davvero rientrante- della Commissione.

Ursula von der Leyen

La signora Ursula è stata riproposta dal partito popolare europeo, il suo, in un quadro non proprio solidissimo. Come usava una volta il ramo democristiano di quel partito designando nella corsa di turno a Palazzo Chigi un candidato ma tenendosi nascosto un altro di riserva, che alla fine lo sorpassava con aiuti esterni, spinto cioè da qualcuno degli alleati.

Arnaldo Forlani

Tutto anche in politica si muove, si trasforma diabolicamente e persino si ripete, come disse al congresso della Dc del 1973 Arnaldo Forlani nel discorso di commiato dalla sua prima segreteria, cominciata nel 1969, per lasciare il passo all’ormai ex capocorrente e padre putativo Amintore Fanfani. Che, tornato al vertice del partito dopo l’abbandono del 1958, sostituito da Aldo Moro nel 1959, avrebbe poi portato la Dc a sbattere nel 1974 nel referendum sul divorzio, saltando come un tappo dallo champagne in una celebre vignetta di Giorgio Forattini.

Sergio Mattarella

Oltre che su Macron, se davvero intende scalare Bruxelles come tentò con sfortuna più di due anni fa col Quirinale, Draghi potrebbe contare -ma sempre dietro le quinte, col detto e non detto, con l’allusione e l’illusione di qualche tifoso particolarmente fiducioso- proprio sul Quirinale. Dove siede, e rimarrà ancora per cinque anni, un presidente della Repubblica come Sergio Mattarella. Che più di tre anni fa lo mandò a Palazzo Chigi per rimuovere quasi col carro attrezzi un Giuseppe Conte che vi si era barricato, ritardando l’apertura della crisi scavatagli sotto i piedi da Matteo Renzi nella maggioranza, e non più tardi di qualche giorno fa ha rilanciato pure lui il tema di una riforma dell’Unione necessaria, ineludibile: una riforma -ha detto- “incisiva e coraggiosa”. Due aggettivi, questi, che ad un vecchio e malizioso cronista politico come me hanno ricordato il centrosinistra “più incisivo e coraggioso” escogitato e offerto ai socialisti nel 1968 dal doroteissimo Mariano Rumor per succedere a Palazzo Chigi ad Aldo Moro, l’amico del papà di Mattarella, Bernardo. Che ne fu anche ministro in uno dei primi governi con i socialisti a maggioranza rigorosamente “delimitata” nei confini a sinistra col partito comunista. 

L’aula dell’Europarlamento

Benedetta memoria, che non mi abbandona e mi fa sempre andare indietro negli anni. Ma torniamo all’oggi e al domani. Si, al domani su cui tutti lavorano, chi davanti e chi dietro le quinte. O chi più davanti o più dietro le quinte. Che comunque dovranno sollevarsi dopo le elezioni di giugno, nel Parlamento europeo che ne uscirà, con presumibilmente nuovi rapporti di forza tra partiti e rispettivi gruppi a livello continentale.  E lì la partita sarà tutta da giocare e si vedrà chi avrà o avrà avuto più filo da tessere, come diceva ai suoi tempi in Italia il bon Giuseppe Saragat fra un lamento e l’altro per la scarsa generosità degli elettori verso il suo partito socialdemocratico.

Antonio Tajani

Si vedrà nel nuovo Parlamento europeo se e come il sommerso riuscirà ad emergere, o s’inabisserà ulteriormente. E se il Partito Popolare, conservando eventualmente il suo primato, riuscirà a imporre la prenotazione della presidenza della Commissione di Bruxelles appena rivendicata in una intervista dal vice presidente italiano di quel partito, e vice presidente anche del Consiglio dei Ministri in Italia, Antonio Tajani. Che non si sente candidato -ha precisato sotto i soffitti di Montecitorio- ma potrebbe anche trovarsi ad esserlo a sua insaputa, o quasi. Anche Cristoforo Colombo scoprì l’America a sua insaputa, credendo di essersi spinto già sino alle Indie.

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