Di Pietro a sorpresa piange sulla credibilità tolta alla politica anche dalla magistratura

         Il tempo, grazie a Dio, passa anche per Antonio Di Pietro. Che da pensionato, contadino, coltivatore diretto o com’altro preferisce essere chiamato dopo avere fatto un bel po’ di mestieri  e avere mancato forse il Quirinale nel 1992 solo perché non aveva ancora i 50 anni richiesti dalla Costituzione per concorrervi, disponendo invece della notorietà e popolarità massime come sostituto procuratore della Repubblica a Milano, ha riconosciuto -bontà sua- che bisogna “restituire credibilità alla politica” e persino mantenere il voto di preferenza. E ripristinarlo dove è stato tolto, per quanto gli elettori che ancora ne dispongono a livello locale lo abbiano deplorevolmente  deprezzato, almeno in Puglia, a miserabili 50 euro l’uno, o a una bombola di gas.

Antonio Di Pietro e colleghi ai tempi di “Mani pulite”

         Eppure lui, sempre Di Pietro, è uno di quelli che una trentina d’anni fa, sfilando nei corridoi del Palazzo di Giustizia o nella Galleria di Milano con i colleghi magistrati, contribuì non poco alla demolizione della politica. O almeno dei partiti che ne erano protagonisti o attori, praticamente tutti ghigliottinati e sepolti con la cosiddetta prima Repubblica. Non si salvò poi dalla cattiva rappresentazione dei partiti nemmeno quello che lui creò chiamandolo, se non ricordo male, Italia dei Valori, a cominciare da quelli bollati.

L’intervista di Di Pietro al Quotidiano Nazionale

         In una intervista rilasciata al cosiddetto Quotidiano Nazionale, che raggruppa in ordine geograficamente discendente Il Giorno, il Resto del Carlino e La Nazione, Di Pietro ha detto che “all’epoca di Mani Pulite”, quella che lo vide fra i protagonisti sul versante giudiziario, “l’opinione pubblica era vicina alla magistratura perché la vedeva come una lotta tra guardie e ladri”. Dove le guardie erano naturalmente lui, i suoi colleghi e la polizia giudiziaria di cui disponevano e i ladri erano i partiti, tutti finanziati -chi più e chi meno- illegalmente, prendendo soldi senza registrarli nei bilanci e pensando, anzi illudendosi, che nessuno per questo si sarebbe messo a denunciare o ricattare gli altri.

         “Oggi -ha aggiunto Di Pietro prendendosela un po’ con la stampa che una trentina d’anni fa invece risultò molto utile alle inchieste giudiziarie- anche a causa di un’informazione pilotata l’opinione pubblica vede una guerra per bande. Per questo si disinteressa del voto”.

         In effetti un sondaggio Ipsos appena pubblicato dal Corriere della Sera attribuisce il 52,5 per cento all’astensionismo e dintorni.

Michele Emiliano

         Peccato che l’intervistatore non abbia avuto il tempo, l’accortezza, il coraggio -chiamatelo come volete- di chiedere a Di Pietro se alle bande della cui guerra egli ha avvertito i suoni si possano o debbano attribuire anche quei magistrati, suoi ex colleghi, che in Puglia direttamente o indirettamente -poco importa- hanno fornito al presidente della regione Michele Emiliano, peraltro loro collega in aspettativa, notizie utili a dimissionare questo o quell’assessore, o simile, nel tentativo di non fare travolgere nei loro guai giudiziari anche la sua giunta. E lui stesso.  

Ripreso da http://www.startmag.it il 21 aprile

Le agende di Mario Draghi contese dagli amici e temute dagli avversari

Dal Dubbio

Di Mario Draghi esistono -o gli sono attribuite- due agende. Una è quella nata col suo governo e fatta di programmi, di progetti, di riforme: un’agenda contesa nell’ultima campagna elettorale per il rinnovo del le Camere da varie forze politiche. Che andavano dal Pd ancora di Enrico Letta, entrato per questo in rotta di collisione col Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, al cosiddetto terzo polo improvvisato da Matteo Renzi e Carlo Calenda e persino dall’opposizione di destra di Giorgia Meloni. Alla quale parve a molti, e non a torto, che Draghi passasse le consegne a Palazzo Chigi dopo le elezioni con un certo sollievo, sapendo di lasciare in buone mani la parte di quell’agenda riguardante la non certo irrilevante politica estera, come il sostegno politico e militare all’Ucraina aggredita e invasa dalla Russia di Putin.

Draghi in treno verso Kiev con Macron e Sholz

         Chissà se, proprio pensando alla continuità di quel sostegno, in cui lui si era prodigato moltissimo, e non solo viaggiando insieme con il presidente francese e il cancelliere tedesco sul treno diretto a Kiev, Draghi non fu quanto meno tentato nelle elezioni politiche anticipate del 2022 di votare anche lui per il centrodestra, e più in particolare per il partito della Meloni, dopo avere votato in vita sua -credo- il Pd e prima ancora il Psi di Bettino Craxi o la Dc di Amintore Fanfani e Aldo Moro, o il Pri di Ugo La Malfa e poi di Giovanni Spadolini. Chissà, ripeto.

         L’altra agenda di Draghi è quella telefonica, con i numeri o recapiti elettronici degli interlocutori conosciuti e frequentati a livello nazionale, ma ancor più internazionale, prima ancora di essere chiamato a Palazzo Chigi. E di esservisi insediato -permettetemi di aggiungere con un po’ di malizia- senza reclamare o comunque ottenere un salvacondotto o paracadute come il laticlavio concesso da Giorgio Napolitano nel 2011 a Mario Monti, anche lui prelevato al Quirinale da una riserva insieme tecnica ed europea.

         E’ difficile dire quale delle due agende sia più temuta dai critici e avversari della corsa a Bruxelles attribuita, a torto o a ragione, a Draghi dopo la “svolta radicale” dell’Unione Europea da lui proposta anticipando il rapporto sulla competitività della stessa Unione chiestogli nello scorso autunno dalla presidente uscente della Commissione comunitaria, Ursula von der Leyen.

Conte e Draghi a Palazzo Chigi

         La prima agenda è stata praticamente liquidata come “roba vecchia” in un commento di Fabrizio Barca sul Fatto Quotidiano. Il cui direttore Marco Travaglio non ha ancora perdonato all’ex premier il “Conticidio” rimproveratogli all’arrivo a Palazzo Chigi, dove il presidente attuale delle 5 Stelle sarebbe stato, nella storia dei capi di governo dell’Italia, secondo solo, addirittura, a Camillo Benso conte, al minuscolo, di Cavour.

Draghi e Meloni a Palazzo Chigi

         L’altra agenda di Draghi, quella dei suoi rapporti soprattutto internazionali, ha invece impensierito altri che temono, in particolare, che l’ex presidente del Consiglio arrivi a Bruxelles baipassando i partiti e i loro elettorati, magari anche a dispetto dei risultati del rinnovo del Parlamento europeo nelle votazioni del 9 giugno.  Un Parlamento, comunque, dal quale né Draghi né altri al suo posto potranno invece prescindere, a dispetto di questi timori. Manca anche a livello europeo, e non solo italiano, almeno per ora, in attesa che la Meloni riesca a far passare la sua riforma, l’elezione diretta del presidente della Commissione o del Consiglio comunitario.

Non mi fascerei insomma la testa, da elettore e difensore della democrazia rappresentativa, prima che altri me la rompessero con intese politiche non trasparenti, concordate al telefono o per posta elettronica nei pre-vertici europei, successivi o addirittura precedenti alle elezioni di giugno.

Mi limiterei a riconoscere a Draghi, come ha fatto il presidente del Senato Ignazio La Russa, le competenze e le qualità maturate nella sua lunga attività pubblica, non solo privata, tutte adatte alla scalata a Bruxelles che gli viene -ripeto- attribuita a torto o a ragione. E che certamente, se per avventura riuscisse, non umilierebbe l’Italia o, come preferisce dire la Meloni, la Nazione italiana.

Pubblicato sul Dubbio

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