A Bari ormai come a Gaza, pur senza morti, feriti e macerie

Giuseppe Conte sul posto

Già degradata da città a una voce del verbo barare in una delle vignette ispirate alla polemica scoppiata fra Giuseppe Conte e la segretaria del Pd Elly Schlein sull’intreccio fra cronache giudiziarie e politiche nel capoluogo pugliese, Bari sta diventando, per fortuna sinora senza morti e feriti, e con tutti gli edifici ancora al loro posto, una specie di Gaza italiana per la confusione, l’ambiguità e un po’ anche la ferocia delle parti che se la contendono. E che non sono solo politiche perché, come al solito, partecipano alla lotta anche i magistrati. Che non fanno sconti al loro collega in aspettativa Michele Emiliano, presidente della Regione dopo essere stato sindaco della città. Egli si vede indagare e arrestare assessori e simili, in carica o appena deposti, ad orologeria, proprio perché in procinto di arresto o di altre misure.

Dal manifesto

         Saltato come uno sciacallo -quale è stato definito, a torto o a ragione, da avversari o critici- sui guai del Pd reclamando pulizie, svolte e quant’altro prima per poter proseguire la partecipazione alla maggioranza nella regione e poi, una volta interrottala lo stesso, per negoziare l’eventuale rientro o, più, in generale per rimanere interlocutore del Nazareno sul terreno di una pur improbabile alternativa nazionale al centrodestra regnante con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, Conte si trova in concorrenza, anzi in conflitto con la Schlein sull’entità della scossa, anzi delle ulteriori scosse da dare all’amministrazione regionale.

Dalla Stampa

         In particolare, ad un Conte che sembra disposto, dopo un incontro avuto con un Emiliano in persona mostratosi poi fiducioso e ottimista con i giornalisti, ad un sostanziale rimpasto della giunta regionale per sostituire gli assessori rimossi e aggiungerne uno significativamente preposto alla legalità, onestà, trasparenza e simili, tutte compromesse con il mercato dei voti, delle assunzioni e degli appalti emersi dalle indagini giudiziarie; ad un Conte, dicevo, disposto a una specie di restauro della giunta Emiliano si è opposta la Schlein reclamando in una furiosa telefonata allo stesso Emiliano un’operazione ben più consistente e traumatica, Alla quale il presidente della regione prima ha resistito e poi, nel suo stile, sembra abbia ceduto, come aveva già fatto con le richieste originarie di Conte, impegnandosi a salire sulla ruspa col pieno del carburante.

Salvatore Merlo sul Foglio

         L’obiettivo sarcasticamente immaginato o indicato da Salvatore Merlo sul Foglio è di “stagionare, verniciare, rendere bello, solido e aperto” il Pd “quasi come una cassa da morto”. Da sistemare -si presume- in quel “campo” di dimensioni e qualità indefinite alla cui costruzione, coltivazione e vigilanza dovrebbero provvedere piddini e grillini, uomini, donne e omosessuali del Nazareno e delle 5 Stelle. Non si sa se sia più una tragedia o una commedia, alla Shakespeare o alla Pirandello.

Quando Enzo Bettiza mi spiegò la scelta del voto per la Lega

Da Libero

Nel quarantesimo anniversario della fondazione di una Lega diventata il partito più anziano di quelli rappresentati in Parlamento, dove ci sono solo tracce più o memo sommerse della Dc, del Pci eccetera in altre formazioni politiche protagoniste o attrici di questa incerta edizione della Repubblica, fra la seconda nella quale molti credono di vivere e la quarta proposta ogni settimana da Nicola Porro su una rete del Biscione; nel quarantesimo anniversario, dicevo, della fondazione della Lega mi sovviene il ricordo di uno degli ultimi incontri da me avuti col fraterno amico, e maestro, Enzo Bettiza.

Giancarlo Pajetta

         Enzo, che sarebbe scomparso dopo qualche mese all’età di 90 anni, aveva appena rivelato di votare da qualche tempo per la Lega: lui che, profugo  in Italia da quella che oggi è la Croazia, era stato da giovane attivista del Pci, promosso all’esame -diciamo così- da Giancarlo Pajetta, poi liberale, nelle cui liste divenne senatore, poi ancora europarlamentare delle liste laiche unitarie, poi ancora socialista e teorico, con Ugo Intini in un celebre saggio, del famoso “Lib lab”. Da cui era nato praticamente il pentapartito comprensivo di socialisti e liberali, incompatibili invece nelle prime edizioni del centro-sinistra realizzate dalla Dc fra gli anni Sessanta e Ottanta.

Una spilla della Lega

         Perché voti la Lega?, gli chiesi pranzando insieme vicino casa sua, a Roma, in un ristorante al quale era affezionato. Glielo chiesi  ricordandogli, fra l’altro, i tempi in cui Umberto Bossi mi aveva trattato da “terrone” all’arrivo alla direzione del Giorno e mi aveva denunciato addirittura per associazione a delinquere con altri colleghi del quotidiano allora dell’Eni che ne avevano criticato anch’essi i comizi troppo eccitati, a dir poco, a Pontida e dintorni. Quei suoi insulti urbi et orbi sarebbero diventati carezze al confronto con quelli di Beppe Grillo, ma erano apparsi allora urla barbariche: un po’ come anche quei manifesti fatti affiggere sui muri di Milano attorno alla sede del Giorno per contestare l’archiviazione della sua denuncia  contro di me e i miei colleghi disposta da un magistrato, guarda caso, meridionale pure lui.

Gianfranco Miglio

         Bettiza, che pure in quelle occasioni mi era stato solidale come nel 1983 andandocene insieme dal Giornale  per l’ostilità di Indro Montanelli a Bettino Craxi, rispose opponendo a quei miei ricordi l’abitudine del professore leghista Gianfranco Miglio di contare in tedesco le galline del suo orto mentre lo attraversava con l’ospite di turno, che fu più volte lo stesso Bossi, prima che i due rompessero. E mi disse che ormai, destinati tutti noi europei -secondo lui- a stare sempre più insieme, avremmo avuto sempre meno da fare nei nostri orti nazionali, al di là di una semplice, o quasi, amministrazione degli affari correnti. In cui i leghisti, come dimostravano le amministrazioni locali che guidavano, sapevano fare meglio e più degli altri perché, consapevoli o no, eredi delle tradizioni che lui definiva “asburgiche”.

Ecco perché egli aveva dunque cominciato a votarli, chiudendo il suo lungo e variegato percorso politico legato solo dal filo della “devozione alla libertà”, concluse sorridendo, come per farsi scusare quell’illusione giovanile che gli aveva procurato la promozione -o la tolleranza, chissà- di uno come Giancarlo Pajetta. Che non era stato certamente un comunista all’acqua di rosa, un migliorista alla maniera di Giorgio Napolitano.

Umberto Bossi e Matteo Salvini d’archivio

  Grande, grandissimo Enzo. Quanto mi manchi a distanza di quasi sette anni dalla tua morte. E quanto forse avevi saputo interpretare o prevedere il futuro, nonostante la tua fede europeistica possa sembrare oggi in contrasto con certe intemperanze di Matteo Salvini. Al quale forse, dopo averlo cominciato a votare pure tu, essendo lui già diventato il capo della Lega, ripeteresti oggi quello che avevi detto da giovane alla tua figliola Michela.  Che a Mosca, dove tu lavoravi come corrispondente della Stampa, rispondeva orgogliosamente “italiana” ai coetanei dei giochi scolastici e condominiali che ne chiedevano la nazionalità. E tu, Enzo, dopo averla personalmente sentita, le consigliasti  una volta di dichiararsi europea, più semplicemente o completamente europea. Come europarlamentare saresti poi diventato nel 1979 e rimasto sino al 1994, eletto prima nell’Italia nord-occidentale e poi in quella nord-orientale.

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