La Santanchè sorpassa Salvini nella corsa alla Camera contro la sfiducia

         Per quanto di due voti soltanto -213 contro 211- in una partita giocata peraltro fuori casa, essendo non deputata ma senatrice, la ministra del Turismo Daniela Santanchè ha sorpassato alla Camera il vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini nei voti contro la sfiducia personale proposta dalle opposizioni.

         Anche nei voti a favore della sfiducia la Santanchè è andata meglio di Salvini: 121 i voti contro di lei, e favorevoli alla sfiducia, e 129 quelli contro il leader leghista.

         Il sorpasso era previsto anche sulla carta, essendosi i renziani schierati a  favore della Santanchè per ragioni di garantismo, non essendo stata ancora rinviata neppure a giudizio per truffa contro l’Inps. Ragioni negate invece a Salvini per le motivazioni tutte politiche dell’assalto al leader leghista. Cui i deputati di Renzi hanno continuato a rimproverare l’intesa del 2017 di cooperazione col partito russo di Putin anche dopo che il vice presidente del Consiglio, prima del voto, ne ha fatto annunciare ufficialmente il superamento, cioè la cessazione, per l’intervenuta invasione dell’Ucraina ordinata nel 2022 dal Cremlino e tuttora in corso. Aggravata anzi da una selezione ancora più feroce degli obiettivi civili, e infrastrutturali, dei missili e dei droni. E persino da ripetute minacce di ricorso ad armi nucleari, risparmiate all’inizio della cosiddetta “operaziome speciale” di denazificazione dell’Ucraina.

         Mentre Salvini ha evitato commenti alla sua “assoluzione”, come l’ha chiamata ieri Il Giornale in un titolo di prima pagina, la Santanchè in occhialoni da sole e abbronzatura rafforzata dal trucco, ha tenuto a compiacersi dell’allontanamento, quanto meno, di altri assalti parlamentari prima delle elezioni europee del 9 giugno, e magari dopo un rinvio a giudizio formalizzato, o altri intoppi giudiziari sulla strada dei suoi affari da “visibilia”, come si chiama la società che le ha procurato tanti soldi quanti guai.

La ministra del Turismo intervistata dopo la mancata sfiducia a Monteciorio

         Rivolta più ai giornalisti che l’assediavano fuori dalla Camera che ai parlamentari dell’opposizione, la Santanchè li ha esortati a lasciarla in pace, a “farsene una ragione”, letteralmente. Che è un po’ la stessa espressione usata contro la buonanima di Silvio Berlusconi, alla quale una volta lei si contrappose letteralmente, da destra, alludendo anche a corteggiamenti o desideri fisici del Cavalieri, che l’avrebbe preferita  “orizzontale” piuttosto che verticale. Era il 2008. Sostenuta da Francesco Storace, la Santanchè trovava “sbiadita” la destra anche di Gianfranco Fini confluita nel Pdl , figuriamoci quella di Berlusconi.  Ma la sua destra più lucente o illuminata dalla fiamma tricolore raccolse solo un misero 2,4 per cento dei voti alla Camera e 2,1 al Senato, rimanendo fuori dall’una e dall’altro. Dove avrebbe poi provveduto a farla entrare con i fratelli d’Italia di Giorgia Meloni nel 2018, e tornare nel 2022, l’attuale presidente del Senato Ignazio La Russa.

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Imbrattato di viola Indro Montanelli a 50 anni dalla fondazione del suo Giornale

Dalla prima pagina di Libero

Non credo che sia stato il ricordo dei 23 anni dalla morte, avvenuta il 22 luglio del 2001 nella clinica milanese della Madonnina, né quello dei due anni soltanto trascorsi dall’ultima incursione, chiamiamola così, contro la statua che lo raffigura nei giardini a lui intestati a pochi passi da quella che fu la prima sede del suo Giornale, in Piazza Cavour, a ispirare i vandali che gli hanno rovesciato ieri addosso la vernice di un viola quaresimale. Peraltro fuori stagione, essendo la Quaresima bella che finita con la Pasqua di Risurrezione. Che Montanelli onorò andando a messa fino a che visse la mamma, Maddalena, per farla contenta, più che per fede o convinzione. Ad una di esse lo accompagnai io a Piazza del Popolo 50 anni fa, col comune amico Mario Castiello D’Antonio, mentre fervevano i preparativi del Giornale che aveva messo in cantiere lasciando il Corriere della Sera e portandogli via la migliore argenteria professionale per ammissione dello stesso direttore di allora Piero Ostellino.

         Poi, a messa finita, Mario e io lo accompagnavamo a casa a piedi, dalla mamma che ci aspettava a pranzo, attraversando il ponte sul Tevere più vicino che portava al quartiere Prati, dove di Montanelli è rimasta la strada dedicatagli dal Comune: la stessa dove la madre di Indro viveva.

Dalla prima pagina del primo numero del Giornale, il 25 giugno 1974

         Cinquant’anni sono tanti. Ed è stato forse questo anniversario- chissà- ad alimentare la fantasia e la vigliaccheria dei vandali a corto, stavolta, di vernice rossa. Cinquant’anni dalla rivolta del giornalista già allora più famoso d’Italia contro il conformismo politico e un po’ anche mediatico che attendeva, forse più rassegnato che davvero soddisfatto, la vittoria della sinistra. Non però su una Dc da abbattere, che aveva accompagnato con Alcide De Gasperi e i suoi successori la ricostruzione dell’Italia sulle macerie della seconda guerra mondiale, ma con una Dc sfiancata dall’ultima, sfortunata battaglia contro il divorzio, condotta da un segretario d’antan come il “rieccolo” di montanelliana memoria Amintore Fanfani. Al quale Montanelli, pur divorzista nel suo laicismo che gli aveva fatto votare sino ad allora il Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, decise a suo modo di dare una mano nella resistenza alla vittoria della sinistra destinata ad apparire ancora più scontata dopo quel referendum. Alla cui campagna con un misto di pudore e di opportunità -o opportunismo, direbbe qualcuno- Montanelli decise di tenere fuori il suo Giornale facendolo uscire ad urne ormai svuotate e a sconfitta democristiana avvenuta. Uscì, anzi uscimmo il 25 giugno 1974, proprio nel giorno in cui in una riunione della direzione nazionale della Dc Fanfani doveva cominciare a “contare amici e nemici” -come Montanelli in persona titolò una mia corrispondenza da Roma in apertura del quotidiano- nella lunga battaglia interna che lo aspettava dopo lo smacco. Che Giorgio Forattini aveva immortalato in quella vignetta dove Fanfani era il tappo saltato dalla bottiglia di champagne stappata dai divorzisti.

La vignetta di Giorgio Forattini su Fanfani nel 1974

         La Dc avrebbe resistito ancora a lungo, oltre la stessa segreteria Fanfani, cercando di impantanare il Pci di Enrico Berlinguer nella cosiddetta politica di solidarietà nazionale, con l’aiuto di Montanelli. Che s’inventò, fra le timide doglianze telefoniche di  Giulio Andreotti, la formula non della solidarietà nazionale ma del “voto alla Dc col naso turato” per evitarne il sorpasso elettorale da parte dei comunisti. Un voto rimproveratogli per niente timidamente dagli amici liberali, repubblicani e socialdemocratici, che fecero le spese di quella pesca elettorale dello scudo crociato per forza maggiore.

         Ah, che anni. Quando si rischiava anche ad acquistare una copia del Giornale alle edicole. E noi alla redazione romana, in Piazza di Pietra, la sera delle elezioni regionali del 1975, che segnarono una forte avanzata del Pci, fummo raggiunti dai reduci da comizio di festa di Berlinguer, in via delle Botteghe Oscure, che ci sfidavano sarcasticamente al citofono a scendere in piazza a festeggiare anche noi. Anni apparentemente tanto diversi da quelli attuali per uomini, circostanze e partiti in campo.

Mattarella in Africa

         Ma apparentemente, appunto. In fondo sono anni o tempi di conformismo pure questi. Di un conformismo che all’insegna dell’antifascismo, a fascismo sepolto da un’ottantina d’anni, vorrebbe fare della Meloni -la prima donna, e di destra, alla guida di un governo- il pericolo da eliminare. Contro il quale cronisti e opinionisti dalla disinvolta, a dir poco, fantasia arruolano un giorno si e l’altro pure il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dando in chiave antigovernativa interpretazioni a parole e gesti che lo stesso capo dello Stato smentisce nei fatti. Gli è accaduto in questi giorni in missione in Africa facendosi in qualche modo ambasciatore del cosiddetto “piano Mattei” in versione Meloni.

Joe Biden con Giorgia Meloni

         Mi sono chiesto più volte che cosa avrebbe fatto quel diavolo di Montanelli di fronte alla Meloni a Palazzo Chigi. E me lo sono sognato di recente chino, su quelle due lunghe gambe anch’esse sottili ed incerte, sul capo della premier a baciarne i capelli come un Joe Biden qualsiasi. E domani, chissà, anche come un Trump qualsiasi.

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