In viaggio un pò surreale fra i vari cantieri di Matteo Salvini

Dalla prima pagina del Foglio

Oltre a lavorare al suo Ministero per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina -di cui è convinto di poter aprire il cantiere in quest’anno alla faccia delle opposizioni, che per complicargli la vita si sono rivolte anche alla magistratura, già indaffarata con lui per sequestro di persone- Matteo Salvini ha confessato alla “belva” Francesca Fagnani, nella quasi omonima trasmissione di Rai 2, di “stare costruendo un’amicizia” con Giorgia Meloni. Della quale è uno dei due vice presidenti del Consiglio, decisamente più irrequieto e imprevedibile dell’altro, che è il forzista Antonio Tajani. Ma le ha appena fatto il piacere di chiudere pubblicamente lo scomodo rapporto con Putin, guadagnandosi dal Foglio la qualifica di “Matteo l’apostata”.

Salvini con la fidanzata Francesca Verdini

         Nelle condizioni politiche in cui si trova oggettivamente-  al di là persino delle sue intenzioni- di alleato e insieme concorrente in difficoltà, essendo forse salito troppo presto e troppo in alto con quel 34 per cento delle elezioni europee del 2019, contro l’8 per cento attorno al quale navigano i leghisti nei sondaggi di questa primavera appena cominciata, non so se sia diventato più difficile a Salvini costruire il ponte di Messina o mantenere, consolidare e quant’altro l’amicizia con la premier. E non so neppure se e fino a che punto potrà riuscirgli utile il rapporto ch’egli stesso ha raccontato fra la stessa premier e la sua fidanzata Francesca Verdini. Che sono “due faine” al tavolo da gioco del burraco- il loro preferito evidentemente- accomunate dall’odio di “perdere”.  Un odio al quale Salvini cerca di sottrarsi non partecipando alle partite, che pure si potrebbero giocare in tre. E sono più divertenti che in due o in quattro.

Dall’archivio della coppia…da belve

         Peccato che, volenti o nolenti gli interessati a quest’amicizia in costruzione, e quindi non ancora ben definita, non a caso ritratta nelle foto e pose più diverse, da quelle del sospetto a quelle dell attrazione quasi travolgente da film hollywoodiano, il cantiere melonian-salviniano finisca per essere scambiato, nelle sue incertezze, ambiguità e via dicendo, per il cantiere del governo. E quindi del Paese, come preferiscono dire i critici che contestano alla premier l’abuso che farebbe della Nazione nei suoi discorsi.  Un Paese che allo stato, e chissà ancora per quanto, non ha nemmeno un’ombra, corta o lunga che sia, stretta o larga, di alternativa all’attuale governo e relativa maggioranza. Quella offerta dall’altro versante è un’amicizia ancora più problematica, come tra Elly Schlein e Giuseppe Conte, o tra la stessa Schlein e i suoi compagni del Nazareno. Per non parlare naturalmente dei soliti Carlo Calenda e Matteo Renzi, che d’altronde hanno smesso anche di chiamarsi o fingersi amici. E’ la politica, bellezza, forse neppure italiana soltanto, come la stampa di Humphrey Bogart nella storica Casablanca.  

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Le proteste dei magistrati contro i test fra ironie -qualcuna ben riuscita- e autogol

Da Libero

Ogni tanto qualche magistrato, in servizio o in pensione che sia, ma sempre attivo nella polemica, si avventura sulla strada dell’ironia e riesce ad essere davvero spiritoso. Non è il caso, certo, di Pier Camillo Davigo, su cui è inutile infierire dopo la condanna in appello a Brescia che, per quanto non definitiva, ha un po’ ammaccato quella corazza d’inviolabilità a torto o a ragione attribuitagli dagli ammiratori, anche in occasione delle sparate più clamorose. Come quella dell’innocente che l’ha semplicemente fatta franca con l’assoluzione. 

Da Libero

Felicemente spiritoso è stato Armando Spataro qualche giorno fa proponendo ai protestatari di mettere in testa ai loro documenti il test “ipotizzato” da Giacomo Eber, giudice del tribunale civile di Roma, che dice: “Solo uno che non è sano di mente trova tutto questo lavoro il più bello del mondo (vero o falso?)”.

Armando Spataro a Repubblica

         Un test breve, quasi fulminante. Di quelli che la buonanima di Indro Montanelli avrebbe trasformato nel controcorrente di giornata dopo averne cestinati tanti altri venutigli spontaneamente, o suggeriti dai collaboratori che, su sua richiesta, ne sfornavano a decine. E lui si limitava a perfezionare, magari solo con una virgola, quando decideva di ammetterli alla selezione finale. Bei tempi, quelli del Giornale con i corsivi di prima pagina che creavano i maggiori problemi all’editore di turno: Eugenio Cefis prima, nella sostanza, e Silvio Berlusconi poi.

         Si capisce dallo spreco di aggettivi che non c’è stato lo zampino di Spataro nel documento firmato e spedito al Csm da 108 magistrati contro la misura contenuta in un decreto legislativo già firmato dal presidente della Repubblica. Che non deve averlo poi trovato così scandaloso perché -conoscendolo- non avrebbe apposto la sua firma pur considerandola dovuta, non preclusiva comunque di contestazioni nelle sedi consentite, a cominciare dalla Corte Costituzionale, dove arrivano leggi tutte promulgate grazie al consenso del capo dello Stato.

         Definire il test tanto sgradito a tante toghe, come si fa in quella lettera, “inutile, dannoso, incoerente, insidioso, pericoloso, preoccupante, offensivo” è almeno prolisso, converrebbe probabilmente il pur contrario Spataro. Sette aggettivi -Dio mio- quanti sono i vizi o peccati capitali. Che sono notoriamente la superbia, l’avarizia, l’ira, l’invidia, la lussuria, la gola e l’accidia. Chi di noi non vi è incorso, almeno parzialmente, qualche volta nella vita, con o senza la toga addosso?

         Tanto sono comunque ammirato dell’ironia di Spataro quanto meravigliato della “convinzione” da lui espressa, o ribadita, della legittimità di un ricorso allo sciopero “come in occasione -ha detto in una intervista a Repubblica- di vari altri “assalti” alla Costituzione per difenderla con le unghie e i con i denti”.

Francesco Cossiga

         Sono lontani purtroppo gli anni di Giuseppe Saragat e di Giovanni Leone. Che in veste di presidenti della Repubblica e dei Consigli Superiori della Magistratura di turno concordarono, rispettivamente nel 1967 e nel 1974, sulla “inammissibilità giuridica” dello sciopero dei magistrati considerando le loro particolari prerogative e condizioni. Poi, si sa, con altri presidenti che praticamente tollerarono, pur essendo anche feroci nelle loro polemiche persino con i magistrati, come la buonanima di Francesco Cossiga, le toghe finirono per comportarsi come altre componenti del mondo del lavoro subordinato.  Scioperarono una volta addirittura contro lo stesso Cossiga, al quale manifestò pubblica solidarietà, e dissenso dai colleghi, con tanto di cartello affisso sulla porta del suo ufficio, un sostituto della Procura della Repubblica di Milano di nome Antonio Di Pietro, Tonino per gli amici.

         I magistrati hanno ampliato anche con lo sciopero la loro forza contrattuale, chiamiamola così, nei rapporti con gli altri poteri o ordini dello Stato. Ma a scapito, a mio avviso, della loro credibilità e autorevolezza. Che non a caso -basta consultare i sondaggi- erano molto più alti prima che cominciassero a scioperare. Tanto che  Guido Calogero, commentando nel 1974 il no allo sciopero delle toghe ribadito da Leone, si chiedeva allibito su Panorama: “Potranno scioperare per analogia anche i giudici della Corte Costituzionale? Perché allora non anche il presidente della Repubblica?”. E perché non anche -aggiungo io- i deputati e i senatori e via via sino ai consiglieri comunali e circoscrizionali? Giù, giù, sempre più giù, in tutti i sensi.

Pubblicato su Libero

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