Quando Maria Fida Moro superò l’esame di giornalista professionista

Titolo di Libero

    Senza voler fare torto a nessuno della famiglia del compianto Aldo Moro, la figlia primogenita Maria Fida, appena morta a 77 anni, fu quella che visse più tumultuosamente la terribile vicenda del padre, rapito il 16 marzo 1978 dalle brigate rosse, a poca distanza da casa fra il sangue della scorta decimata in via Fani, e ucciso pure lui dopo 55 giorni di penosa prigjonia. E di drammatica impotenza e inefficienza dello Stato, a dir poco, non mancando francamente elementi, emersi anche dalle inchieste parlamentari condotte sulla tragedia, per sospettare che i terroristi avessero trovato connivenze nello Stato sia nella preparazione del sequestro, sia nella sua gestione. Connivenze sempre negate dai brigatisti ma di cui anche Maria Fida avvertì i segni protestando contro i buchi neri delle indagini.

   Maria Fida fu tra le più critiche all’interno della famiglia nei riguardi dell’allora ministro dell’Interno Cossiga, un cui uovo pasquale mandato al figlio, il piccolo Luca, durante la prigionia del nonno, la mamma  fece rotolare per le scale di casa strappandolo dalle mani degli agenti di Polizia che lo avevano portato.

Maria Fida Moro col figlio Luca

         Luca è proprio quel nipotino che Moro nella straziante lettera di addio inviata alla moglie, quando si accorse che stava per essere ucciso, immaginava di accarezzare i riccioli. E sperava di rivedere lassù perché -scrisse- “sarebbe bello che ci fosse luce”. Quel nipotino che era felice di ospitare ogni tanto nella sua casa di via di Forte Trionfale, sempre a Roma, a poca distanza peraltro dalla mia.

         Maria Fida quando il padre era presidente del Consiglio fece praticantato di giornalismo nella redazione romana della Gazzetta del Mezzogiorno, Al termine le toccò naturalmente l’esame di abilitazione. Il padre non era più a Palazzo Chigi.  Ebbi tuttavia una telefonata davvero inusuale dal suo capo ufficio stampa Corrado Guerzoni. Che, precisando di no nfarlo a nome di Moro , mi chiese d segnalare Maria Fida ad Alberto Giovannini, che faceva parte della commissione d’esame ed era il direttore del quotidiano per il qauale io allora lavoravo: Il Giornale d’Italia. Dove, peraltro, in dissenso da chi seguiva con me la politica interna, il compianto Franco Cangini, sostenevo la candidatura di Moro al Quirinale, al posto di Amintore Fanfani, l’altro “cavallo di razza” della Dc, come li chiamava Carlo Donat-Cattin. E convinsi persino, in una intervista, il leader liberale Giovanni Malagodi ad esprimersi a favore appunto di Moro, una volta fallita per i dissensi interni al partito la candidatura ufficiale dell’allora presidente del Senato.

   Ne derivò quasi u incidente nel Transatlantico di Montecitorio con un anziano e autorevole collega, Enrico Mattei, che mi accusò di avere manipolato Malagodi. Figuriamoci: uno che quando si lasciava intervistare dettava anche le virgole e i punti delle sue frasi. Il fatto è che Malagodi non condivideva la rappresentazione di Moro come di un uomo a disposizione -come dicevano gli avversari anche interni alla Dc- di un partito comunista che aveva fatto sapere di essere disposto a votarlo al Quirinale, “per quanto -disse Giancarlo Pajetta- sia stato l’unico a non avercelo chiesto”.

         Ma torniamo agli esami di Maria Fida. Felice di occuparsene, Giovannini mi informò dopo le prove che la figlia di Moro era “brava davvero” e mi chiese di far sapere all’allora ministro degli Esteri che l’avrebbe assunta volentieri al giornale che dirigeva. Riferii naturalmente a Guerzoni, che un quarto d’ora mi richiamò incaricandomi di riferire a Giovannini che Mari Fida sarebbe stata libera di accettare ma senza il conseno del padre,  Infatti non se ne fece nulla.

         Evidentemente il Giornale d’Italia ea troppo a destra per Moro, anche se ne aveva sostenuto l’elezione al Quirinale, Ma la figlia -ironia della sorte- sarebbe finita molto più a destra.e non solo, di quanto il padre avesse potuto immaginare.

Maria Fida Moro con Giulio Andreotti

         Eletta senatrice nel 1987 per la Dc, Maria Fida ne lasciò il gruppo per passare addirittura a Rifondazione Conunista. E infine, non più parlamentare, all’Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini. Dove neppure riuscì a restare a lungo, visto che Lorenzo Cesa ne ha appena ricordato la figura lsciando intendere di averla in qualche modo riportata a casa nella sua formazione, che fa parte della diaspora democristiana.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 10 febbraio

Conte ricusa il giurì d’onore che gli dà torto sul pasticcio del Mes

            Strano tipo davvero Giuseppe Conte, professore di diritto, avvocato, presidente del Consiglio, presidente del Movimento 5 Stelle, maggiore esponente del progressismo in Italia, aspirante capo delle opposizioni al governo di Giorgia Meloni, difensore -solo qualche giorno fa- della “spinta propulsiva della rivoluzione” ascrivibile al suo movimento ma di memoria alquanto sovietica. Il segretario del Pci Enrico Berlinguer ne annunciò “’l’esaurimento”, cioè sfinimento, parlando in televisione del comunismo militarizzato in Polonia col ricorso di Mosca al generale Vojciek Jaruzelsky.

Meloni in Parlamento

         Ho citato le varie edizioni dell’ex premier grillino in ordine rigorosamente cronologico, secondo le cariche ricoperte e i riconoscimenti attribuitigli o attribuitisi da solo. Ma da ieri egli  può considerarsi anche il ricusatore, avendo prima reclamato e ottenuto dal presidente della Camera un giurì d’onore per l’accusa rivoltagli in aula a Montecitorio dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni di avere autorizzzato “nelle tenebre” nel gennaio del 2021, quando era a capo del governo, la firma del trattato del Mes, e per avere ora rifiutato quel giuri, chiedendone la soppressione, per averne appreso un orientamento maturato in senso contrario alle sue opinioni, versioni di fatti e quant’altro. Un giurì intanto abbandonato dai due esponenti dell’opposizione chiamati a farne parte per protesta contro il presidente Giorgio Mulè vice presidente forzista della Camera, e gli altri due esponenti della maggioranza. Che sono Il leghista Fabrizio Cecchetti e Alessandro Colucci, di “Noi moderati” dell’ex ministro Maurizio Lupi.

Conte in conferenza stampa

         Diversamente dall’annuncio fatto il 13 dicembre corso dalla Meloni in Parlamento sventolando un documento, Conte non era già dimissionario ma ancora in carica quando fece disporre con una comunicazione della Farnesina del 20 gennaio 2021 l’adesione al trattato del Mes, o fondo europeo salva Stati, essendo le sue dimissioni sopraggiunte il 26 gennaio. Ma il governo, già abbandonato dalla componente di Matteo Renzi, era virtualmente in crisi, la cui apertura formale Conte ritardò cercando inutilmente “volenterosi” del centrodestra disposti ad appoggiarlo. Egli quindi sapeva di non disporre più di una maggioranza, tanto meno a favore della ratifica parlamentare di quel trattato. Che in effetti dopo anni è stato bocciato dal Parlamento, nel frattempo rinnovato. E bocciato a cominciare dal gruppo parlamentare dello stesso Conte.

Dal Fatto Quotidiano

         Tutto questo adesso l’ex premier non vuole sentirselo dire e rinfacciare in aula col verdetto del giurì d’onore, che è stato calciato come un pallone e buttato fuori dal campo perchè “l’arbitro è venduto”, ha gridato Il Fatto Quotidiano, l’unico giornale che abbia avuto peraltro il coraggio di portare l’avvilente vicenda in prima pagina, Tutti gli altri l’hanno relegata nelle pagine interne per quella che è:: una protesta pretestuosa,  diciamo così.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Guerini alla guerra, senza carri armati e neppure un trattore

            Pur a piedi, senza i carri armati di cui disponeva quand’era ministro della Difesa, o un modesto trattore riproposto in questi giorni come mezzo d’assalto con l’accompagnamento musicale dell’orchestra e dintorni del festival di Sanremo, dove tutto notoriamente è possibile da tempo, Lorenzo Guerini è partito per la guerra: per ora all’interno del Pd. Dove rimase nel 2019, quando l’amico Matteo Renzi lo abbandonò, per fargli -dissero e scrissero i retroscenisti- da quinta colonna. O almeno da quarta, con riserva di seguirlo in un secondo momento. Invece egli  vi è rimasto davvero con un bel po’ di amici che potrebbero anche essere considerati una corrente di riformisti duri e puri, di provenienza prevalentemente democristiana che Renzi scambiò a suo tempo di marca forlaniana, tanto da chiamarlo Arnaldo. Invece -si divertiva lo stesso Guerini a precisare- era di marca andreottiana. Giulio, quindi, avrebbe dovuto chiamarlo Renzi, valutandone meglio anche la imprevedibilità.

Sal Corriere della Sera

         Poiché la segretaria del Pd Elly Schlein non demorde, a dispetto di certe apparenze per  qualche frase di malumore strappatale recentemente nei corridoi della Camera, nella  speranza di ricomporre con Giuseppe Conte il cosiddetto campo largo, alimentato ogni tanto da qualche fuggevole incontro e persino abbraccio, Guerini ha cercato o accettato l’occasione offertagli dal Corriere della Sera con una intervista per avvertire sia la compagna di partito sia il suo interlocutore intermittente con l’aureola delle cinque stelle che le alleanze vanno fatte “sui valori del Pd”, Che, ad occhio e croce, non mi sembrano coincidere con quella “spinta propulsiva della rivoluzione” grillina appena evocata con linguaggio leninista dall’ex premier inconsolabilmente detronizzato tre anni fa da Mario Draghi.

Dalla Stampa di ieri

    Nell’ambito dei “valori del Pd”, intesi evidentemente anche come scelte da esso compiute al governo, e ben conosciute in materia dall’allora ministro della Difesa, Guerini ha ammonto che “Kiev è un punto fermo”. Quindi, fermo l’aiuto politico, militare, economico e umanitario fornito all’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin col pretesto di “denazificarla”. Come se fosse la terra di Gaza appena descritta in una lunga intervista a Lucia Annunziata, per la Stampa, dal generale israeliano Gabi Siboni, peraltro convinto che occarrano una cinquantina d’anni per sradicare davvero da quella parte del Medio Oriente, nonostante ridotta in macerie, l’organizzazione terroristica di Hamas. Che è notoriamente nata, cresciuta e tuttora operante per riprendere e portare avanti il progetto appunto nazista di uccidere gli ebrei, ovunque e comunque.

Schlein e Conte

   Conte, si sa, considera “bellicista”, col casco in testa dei tempi di Erico Letta segretario, un Pd schierato a favore dell’Ucraina. Immagino le spallucce fatte leggendo oggi Guerini. E il colore, una volta tanto, non degli abiti ma del volto della Schlein.

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La Meloni tronca gli spettacoli di Sgarbi accettandone dal Giappone le dimissioni

    Dalle lontane nevi del Giappone, dove è andata a raccogliere la staffetta del G7. Giorgia Meloni ha mandato un messaggio al teatrino della politica italiana, come lo chiamava la buonanima di Silvio Berlusconi prima di parteciparvi pure lui cercando ogni tanto di metterci un po’ più di allegria dei suoi predecessori e poi competitori. Ma senza riuscirvi molto, debbo dire con sincerità, anche a costo di smentire colleghi e amici, a cominciare dal buon Giuliano Ferrara, che si divertivano ad apprezzarne stranezze ed esuberanze ridendo dello stupore o dello scandalo gridato dagli avversari, compresi pubblici ministeri e giudici.

Titolo del Fatto Quotidiano

         Raggiunta dalle notizie sui ripensamenti, veri o presunti, attribuiti a Vittorio Sgarbi dopo l’annuncio in diretta, durante una manifestazione pubblica, delle dimissioni da sottosegretario alla Cultura, la premier ha annunciato di averle comunque accettate. Segno che qualcosa di scritto a lei deve essere arrivato dall’interessato, proteso invece a descriversi ancora indaffarato a stendere la sua lettera per farcirla meglio di attacchi, critiche, allusioni e quant’altro a chi le ha provocate. E ciò a cominciare, naturalmente dal suo per niente ma ormai ex ministro Gennaio Sangiuliano, trovatosi alla fine, nei rapporti con l’inquieto sottososegretario, come a suo tempo il ministro Giuliano Urbani. Che ne risulta agli amici ancora scioccato a distanza di tanti anni.

Fotomontaggio del Fatto Quotidiano

         Peccato che un uomo della cultura, a volte -non sempre- della simpatia, della professionalità di critico d’arte come Sgarbi sprechi così tanto e così spesso il suo talento.. Sicuramente più di quanto lo vada sprecando, per altri versi e su altri fronti, il leader leghista ed alleato Matteo Salvini. Che peraltro con quell’incarico che ha anche di vice presidente del Consiglio dovrebbe avvertire un obbligo in più e non in meno di discrezione, di contenimento, di condivisione e portare la mano più sulla bocca che sulla patta recentemente esibita anche da Sgarbi imitando l’ex convivente dalla Meloni negli studi televisivi, dove preparava allegramente le sue trasmissioni.

         Con Meloni poi gli obblighi maschili  di riservatezza, correttezza, diciamo pure  galanteria dovrebbero essere avvertiti di più trattandosi di una donna: per giunta la prima giunta alla guida del governo nella storia pluristituzionale d’Italia, tra Monarchia e Repubblica e varie edizioni di quest’ultima: prima, seconda, terza come potrebbe diventare con l’elezione diretta del presidente del Consiglio, o quarta come già viene offerta in televisione da conduttori che corrono più dei primatisti nelle gare a piedi, in moto o in auto.

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Conte adatta alle 5 Stelle la spinta propulsiva della rivoluzione di Lenin

Dal Dubbio

   Democristiano fra i democristiani emeriti, sino a celebrare una volta in un teatro campano il compianto Fiorentino Sullo. Progressista fra i progressisti, sino a guadagnarsi il grado più alto dall’allora segretario del Pd Nicola Zingaretti. Grillino fra i grillini sino a degradare di fatto Beppe Grillo da fondatore a garante e a consulente a contratto. Avvocato tra gli avvocati sino ad assumere la difesa del “popolo” nel suo complesso, non bastandogli i singoli affidatisi ai suoi uffici. A sinistra più a sinistra di quelle vecchie e nuove di matrice comunista e non, Giuseppe Conte è riuscito in una intervista al Corriere della Sera a recepirne e rappresentarne “la spinta propulsiva”. Che pure nel 1982 il povero, esausto Enrico Berlinguer dichiarò “esaurita” commentando in televisione la gestione militare di quel che era rimasto del comunismo in Polonia, dopo gli scioperi di Lech Valesa e le preghiere, quanto meno, del lontano ma molto avvertito Papa polacco regnante a Roma. Giovanni Paolo II.

    Dal comunismo che fu, e che ancora cerca di essere in Asia e in Africa, la Meloni permettendo quando riuscirà a realizzare il piano Mattei, l’ex premier grillino ha fatto senza volerlo tante stelle da aggiungere a quelle che lui presiede in terra, o della terra.  E ne ha gà cominciato a difendere la spinta propulsiva -ripeto- da quanti la minacciano ponendogli condizioni persino belliciste per la ricomposizione del famoso “campo largo”. Al centro del quale, il più tardi possibile, sarà magari eretto un monumento per custodirvi i suoi resti mummificati, come Lenin. La cui teca -lo confesso- mi procurò qualche emozione quando mi capitò di visitarla in una fila che non si era ridotta con la falce e  il martello appena rimossi dalla cupola del Cremlino per lasciarvi sventolare solo la bandiera russa, non più rossa. 

    Non vorrei che il mausoleo del Conte travestito da Lenin finisse per sorgere a Volturara Appula, il suo paese natale, terra una volta di serpenti e avvoltoi. Una volta.

Pubblicato sul Dubbio

Conte in veste di bolscevico a difesa della “spinta propulsiva” delle 5 Stelle

Conte e Grillo

         A 60 anni neppure compiuti Giuseppe Conte ha già collezionato, indossandole o lasciandosele applicare nei vari momenti della sua carriera politica, un bel pò di maschere. Ed anche di soprannomi, o quasi. Dal Camaleonte, che fa felicemente rima col suo cognome, all’”uomo dei penultimatum”, che gli diede una volta l’insospettabile Beppe Grillo scherzando su una minaccia appena sollevata dall’allora presidente del Consiglio a qualcuno degli alleati e rientrata già l’indomani; dal “professore”, scoperto a Firenze dall’allievo Alfonso Bonafede, Fofò per gli amici, che lo segnalò a Grillo e ne diventò   poi il ministro della Giustizia, all’”avvocato del popolo”, proclamatosi da solo in Parlamento presentando il suo primo governo.

Nicola Zingaretti

         Al secondo governo, poco più di un anno dopo, col Pd di Nicola Zingaretti al posto della Lega di Matteo Salvini, l’uomo si vide e sentì promosso dai nuovi alleati come “l’esponente di punta dello schieramento progressista”. E si mise a compulsare freneticamente i numeri telefonici di Goffredo Bettini e di Massimo D’Alema.

Dal Corriere della Sera

         Finito all’opposizione, Conte è impegnato da qualche tempo in una rincorsa, che un po’ ammette e un pò nega, del Pd dell’armacromatica Elly Schlein per sorpassarla elettoralmente, visto che i sondaggi lo danno a uno o due punti di distacco soltanto, E da li magari trattare su posizioni di forza una federazione di sinistra anti-Meloni  per le prossime elezioni politiche.  Ma ora si è spinto più a sinistra del solito vestendosi addirittura non dico da Lenin, ma da un bolscevico della sua modesta Volturara Appula, terra una volta di serpenti e avvoltoi, dicendo al Corriere della Sera, testuale, che “non si può chiedere al Movimento Cinque Stelle di abbandonare la sua forza propulsiva”, neppure dopo che ha perduto più della metà dei voti delle penultime elezioni politiche: quelle del 2018.

Enrico Berglinguer

         Con la “forza propulsiva” Conte ha evocato quella famosa della rivoluzione d’ottobre per tanto tempo esaltata dai comunisti di tutto il mondo ma di cui Enrico Berlinguer -non l’ultimo arrivato del Pci- annunciò in televisione “l’esaurimento” commentamdo nel 1981 -modestamente, sua mia domanda- il ripiegamemto dei sovietici sul generale Vojciel Jaruzenlsky per militarizzare quel che era anocra rimasto del comunismo in Polonia sotto il Pontificato polacco di Giovanni Paolo II  e gli scioperi di Lec Walesa.

La mummia di Lenin

   Un Conte mummificato nella sua Volturare come Lenin a Mosca sarebbe forse troppo persino per il discincantato Grillo, già salito sull’”altrove” da cui dispensa battute e anche qualche pentimento su ciò che ha combinato in Italia con le sue cinque stelle, ora quasi sei con quella della Schelly.

Ripreso da http://www.startmag.it

Stefania Craxi mette all’occhiello di Forza Italia il garofano socialista

Stefani Craxi e Antonio Tajani

   Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi che ha celebrato da poco  trent’anni, dei quali sette mesi all’incirca vissuti senza il fondatore, ha avuto sin dall’’inizio il suo simbolo e il suo inno. Non mi pare che abbia mai adottato un fiore. Da ieri ne ha uno, regalato al suo segretario Antonio Tajani da Stefania Craxi, in una teca come quella che il padre Bettino offriva agli amici cui teneva ed era il simbolo del suo partito: il garofano rosso. Col quale egli aveva voluto sostituire la falce e il martello sul libro di Marx che ne aveva caratterizzato la storia dopo la sostanziale, disastrosa sovietizzazione del socialismo tentata dalla rivoluzione d’ottobre in Russia.

         Il segretario forzista -o azzurro, come Berlusconi preferiva che fossero chiamati gli iscritti al suo partito, se bisognava dar loro un colore- ha gradto il dono ricordando con ammirazione il padre di Stefania, da tempo senatrice di Forza Italia e ora anche presidente della commissione Difesa ed Esteri di Palazzo Madama. Un’ammirazione compatibile con l’origine dichiaratamente liberale di Tajani lungo il filone del liberalsocialismo in cui lo stesso Craxi si riconosceva, fedele alla lezione di Carlo Rosselli, ucciso dai fascisti in Francia nel 1937.

   Proprio da liberalscialista Taiani aveva scritto nel 1982 una empatica biografia di Lelio Lagorio, amicissimo di Craxi, chiamato “Granduca” per il suo forte seguito nella sua Toscana, ministro della Difesa negli anni della partecipazione italiana al riarmo missilistico della Nato in Europa. Che e avrebbe portato al collasso del comunismo senza spargere una goccia di sangue.

Dal Fatto Quotidiano

         L’affollato e festoso convegno a Rho, vicino Milano, in cui si è voluta sancire, in vista del congresso di fine mese e delle elezioni europee e regionali e amministrative di giugno, l’ormai consolidata identificazione di gran parte dei  socialisti di tendenza e fede craxiana nel partito fondato da Silvio Berlusconi, è stato declassato dal solito Fatto Quotidiano in una “seduta spiritica”, organizzata per chiedere aiuto ai due leader scomparsi nelle contingenze politiche di questo 2024. Che vede obiettivamente Forza Italia insidiata nelle urne dagli alleati di centrodestra, Gorgia Meloni e Matteo Salvini, e da quel che pur di scompoasto si muove al centro.

Titolo del Giornale

   Matteo Renzi ha appena dato alle stampe un nuovo libro- “Palla al centro”- di cui ha chiesto e ottenuto dal generoso Giornale ora solo parzialmente della famiglia Berlusconi un’anticipazione per proporsi, anzi riproporsi come quello che lo stesso Berlusconi avrebbe voluto sottrarre al Pd considerandolo un anticomunista, anche se incontrato la prima volta in un abito di velluto “da comunista”, gli disse nel palazzo della provincia di Firenze.  Dubito tuttavia che il battutismo dell’ex premier, ex sindaco di Firenze e ancora altro, possa procuragli chissà quale pesca in acque forziste da qui a giugno.

Prodi difende la politica estera della Meloni dagli attacchi della Schlein

Titolo di Libero

   A Mario Draghi, a 71 anni compiuti da pochi mesi, non riuscì molto bene la disponibilità offerta alla fine del 2021 ai partiti che ne componevano il governo e la maggioranza a fare “il nonno” degli italiani, oltre che il loro momentaneo presidente del Consiglio. Tutti vi videro, a torto o a ragione, la voglia di succedere al Quirinale a Sergio Mattarella. Che stava concludendo il suo mandato rifiutando pubblicamente, tra piazze e teatri, tutte le sollecitazioni a farsi rieleggere.

    Si scatenò una gara fra quanti, o aspirandovi in proprio o non volendo saperne di lui addirittura come capo dello Stato, dopo averlo subìto a Palazzo Chigi, si misero a disseminare di trappole la reale o immaginaria corsa di Draghi al Quirinale: da Silvio Berlusconi, che si divideva fra le sue ville di Arcore e di Rona, sull’Appia Antica, e Giuseppe Conte fra le strade e i vicoli attorno alla Camera e al Senato.

Mario Draghi

         Finì notoriamente con la conferma di Mattarella, dopo la solita processione reverenziale al Quirinale, come già accaduto con Giorgio Napolitano. E seguì l’indebolimento di Draghi al governo. Che imboccò la discesa verso la crisi e le elezioni anticipate fortunatamente risolutrici di una crisi della quale avevano perso i fili anche quelli che l’avevano programmata.

Romano Prodi

         A Romano Prodi, che in agosto compirà 85 anni, è riuscita un pò meglio, almeno sinora, il no alla funzione di “padre” del Pd, attribuitagli generosamente sul Corriere della Sera da Antonio Polito, a vantaggio del “nonno”. Così egli  ha preferito sentirsi e chiamarsi, sempre sul Corriere, in una intervista fattagli a Bologna da Marco Ascione e pubblicata martedì scorso 30 gennaio.. Un nonno “che può somministrare affetto, non influenza e comando”, ha precisato il professore non so francamente se più deluso o preoccupato dal mancato ascolto dei suoi consigli da parte della segretaria del partito Elly Schlein. Come quello di non lasciarsi tentare dal candidarsi per finta alle elezoni europee. O di avere meno riguardi, diciamo così, per Giuseppe Conte, che non ha ancora deciso con chi stare davvero, ha avvertito lo stesso Prodi. Che d’altronde aveva sì aupicato di recente che la Schelly potesse “federare” alcuni oppositori purchè -aveva ammonito- costoro fossero stati d’accordo.

Beppe Grillo

   L’unico obiettivo elettorale di Conte avvertibile chiaramente è quello di sorpassare il Pd per assumere con la forza, visto che l’uomo non ci riesce con l’astuzia, la guida dell’opposizione. Che equivarrebbe ad un’opa sul Pd simile a quella tentata da Beppe Grillo in persona nel lontano 2009 iscrivendosi d’estate ad una sezione di Arzachena per scalare la segreteria nazionale appena lasciata, a sorpresa, da Walter Veltroni. Rifiutato in partenza su ordine da Roma, , il comico corse in piazza a Bologna a prenotare il suo partito personale e lanciarlo nello spazio, farcito di parolacce e di stelle.

Elly Schlein

   In pochi giorni dalla sua intervista al Corriere Prodi ha visto la sua Schlein –“sua” perché emersa politicamente nel 2013 come aspirante vendicatrice  della mancata elezione del professore al Quirinale- finalmente accorgersi delle troppe ambiguità di Conte. E contestargli pubblicamente la lotta che preferisce fare più al Pd che al governo di centrodestra.

La Conferenza ItaliAfrica

   Ma soprattutto, sempre con la sua intervista del 30 gennaio, Prodi ha voluto clamorosamente contraddire la versione quanto meno minimalistica data dal Pd alla Conferenza ItaliAfrica voluta a Roma dal governo. Egli ne ha riconosciuto la sostanziale continuità con la politica verso quel continente perseguita dall’Italia fra prima e seconda Repubblica. Una politica su cui Meloni, decisa a non fare più dell’Africa solo o prevalemtemente un continente di esportazione di migranti, ha avuto l’astuzia di appendere come un quadro il famoso “piano Mattei”, dal nome del fondatore e a lungo presidente dell’Eni: uomo della sinistra democristiana che fece vedere  i sorci verdi a tutti quelli che l’Africa volevano solo sfruttarla, come altre terre ricche di fonti energetiche. Un uomo ancora, Mattei, protagonista di una lotta partigiana la cui storia non mi risulta abbia creato alla Meloni la paura, la repulsione, il fastidio e quant’altro le viene attribuito dagli avversari un giorno si e l’altro pure quando si parla del passato e lo si proietta sul presente e sull’avvenire.

Meloni e von der Leyen

   “La scelta di guardare all’Africa non è solo giusta, ma anche necessaria”, ha premesso Prodi, Certo, serve “un progetto più ampio portato avanti dall’Europa intera”, perché “da sola l’Italia può fare ben poco per fronteggiare la forte penetrazione sistemica, in Africa, della Cina in campo economico e della Russia in campo politico, non so quanto in accordo fra loro”. Ma l’Europa non era certo assente alla Conferenza voluta dalla Meloni e svoltasi al Senato. L’Unione Europea c’era con i suoi vertici istituzionali, a cominciare dalla presidente della Commissione Ursula von ver Leyen. La cui “attenzione” per l’Italia guadagnatasi dalla Meloni -ha detto Prodi dando un’altra botta a chi nel Pd suona tutt’altra musica- è straordnariamente intensa e profonda”. Tanto intensa e profonda che “la premier italiana -ha continuato il professore- sta diventando una sorta di polizza di assicurazione per von der Leyen in caso di incidente elettorale” a giugno.

   E’ avvertibile in tutte queste parole e ragionamenti, passati un pò inosservati  nei giorni scorsi, un filo di continuità non solo fra il Prodi di Palazzo Chigi e di Bruxelles e la Meloni ma anche fra questa e tutta -ripeto- la politica sempre condotta dall’Italia repubblicana verso l’Africa: oltre a Mattei, Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Giulio Andreotti e il socialista  Bettino Craxi.  

Sergio Mattarella

    Non è d’altronde solo per un capriccio elettorale che il partito della Meloni ha assunto quelle dimensioni della Dc che furono per un po’, nella cosiddetta seconda Repubblica , della Forza Italia di Berlusconi. E che il Pd della Schlein può ormai vedere solo nella cartolina di Trieste di cadorniana memoria. Ma molti anziché vedere questa specie di luna, comprensiva del vetice europeo appena concluso con un compattamento dovuto anche all’azione della premier italiana, preferiscono fermarsi al dito puntato contro di essa. Che è il dito delle polemiche sui saluti romani di via Acca Larentia e simili, o sul premierato anticamera di una nuova edizione del fascismo, col povero Sergio Mattarella trascinato in catene nei sotterranei del Quirinale, peggio di Ilaria Salis nella cella del carcere ungherese prima del sopralluogo del procuratore generale che l’ha fatta ripulire, credo, per le telecamere.

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Le “sobrie” dimissioni di Vittorio Sgarbi da sottosegretario alla cultura

Titolo del Secolo XIX

            Sembrerà un paradosso di fronte all’accusa rivolta al suo ormai ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano di essere “senza dignità”, ma Vittorio Sgarbi questa volta si è contenuto dimettendosi in diretta da sottosegretario durante una manifestazione alla quale era stato invitato a parlare da critico d’arte. Ed ha generosamente, preventivamente assolto la premier Giorgia Meloni dal sospetto di non avere aspettato altro, o di averlo spinto alla rinuncia. No. La premier non c’entra. C’entra solo il ministro per averlo praticamente denunciato all’autorità di garanzia trasmettendole lettere anonime contro compensi percepiti per prestazioni relative alla sua attività di governo, in violazione di una legge sul conflitto d’interessi che porta il nome del compianto ministro Franco Frattini. E che Massimo Cacciari in televisione, dopo qualche ora, ha criticato polemizzando con Marco Travaglio, orgoglioso invece più di un pubblico ministero quando vede condannare un suo imputato.

In passato alla Camera

         L’insolita sobrietà di questo grande dissipatore di energia e intelligenza che personalmente considero il già altre volte sottosegretario dimissionario della Cultura, come ai tempi del ministro Giuliano Urbani nel 2002, ci ha risparmiato forse repliche spiacevoli di incidenti, a dir poco, di un certo clamore. Come quando nell’aula di Montecitorio, sotto la presidenza di turno dell’allora collega di parte Mara Carfagna, egli si fece portare via di peso dai commessi, come in un quadro di Andrea Mantegna sulla deposizione di Gesù Cristo, dopo avere insolentito qualche critico o avversario, e la stessa Carfagna che lo richiamava all’ordine.  Di sicuro le dimissioni hanno rimosso dal programma dei lavori parlamentari una votazione al cardiopalma sulle richieste delle opposizioni di sostanziale rimozione col ritiro delle deleghe ottenute con la nomina a sottosegretario.

Di Pietro ieri sul Fatto Quotidiano

         Rimangono aperte altre questioni, a cominciare dal verdetto anticipato dell’autorità di garanzia sulle sue prestazioni durante l’incarico di governo, cui Sgarbi ha annunciato il proposito di ricorrere al Tar. Ma il giornale di Travaglio, mai stato tenero con lui, cui non perdona le prestazioni televisive contro i magistrati negli anni di Mani pulite, tornate ieri ad essere rappresentate sul Fatto Quotidiano come un’epopea dall’ex pm, ex ministro e ora coltivatore diretto Antonio Di Pietro; il giornale di Travaglio, dicevo, lo aspetta ai processi che si vanta di avere contribuito a concepire su traffici di quadri manomessi o addirittura rubati.

Ripreso da http://www.policymakermag.it e http://www.startmag.it

Serve ben all’Europa il rapporto fra Giorgia Meloni e Viktor Orbam

La copertina del Riformista

    A qualcosa di utile dunque può servire, oom’è appena avvenuto anche al vertice europeo, il rapporto tra Giorgia Meloni e Viktor Orban tanto temuto e disprezzato a Roma e dintorni: i “Promessi sposi” sfottuti da Matte Renzi sul suo Riformista, pur riconoscendo che l’ungherese è rimasto “nell’angolo” e l’altra l’ha “spuntata”. Questo “amore”, come l’ha chiamato sfottendo anche Stefano Rollli nella vignetta del Secolo XIX, non è solo “una catena”, non so se più per l’uno o per l’altra, per l’ungherese o per l’italiana.  Intanto grazie all’intesa fra i due premier L’Europa si è “ricompattata” , come  ha titolato in apertura Avvenire, il giornale dei vescovi italiani .

Titolo del Corriere della Sera

            “Orban vota sì” -ha titolato il Corriere della Sera- ai 50 miliardi destinati dall’Europa all’Ucraina ancora aggredita dalla Russia di Putin, Che probabilmente scommetteva sul contrario. Ed ora teme anche, fra le mura del Cremlino, che all’Ucraina il presidente americano Joe Biden riesca presto a girare gli ingenti fondi russi sotto sequestro negli Stati Uniti proprio per la guerra in corso da due anni contro Kiev. Sarebbero ancora più soldi e aiuti di quelli bloccati al Congresso americano per diatribe inter

Dal Corriere della Sera

         Sarò pur vero ciò che proprio sul Corriere ha scritto e spiegato un esperto come  Federico Fubini – che cioè Orban votando no avrebbe rischiato, anzi avrebbe perduto 20 miliardi di euro di fondi europei contestatigli dall’Unione ed equivalenti, per la mostra economia, date le proporzioni fa i due paesi, a  240 miliardi di euro- ma è quanto meno improbabile che senza l’opera di convinzione, pressione, condizionamento e quant’altro della Meloni, e del presidente francese Emmanuel Macron, il premier ungherese si sarebbe piegato. Era in gioco per lui anche l’ammissione chiesta per dopo le elezioni di giugno, nel nuovo Parlamento europeo, al partito e al gruppo dei conservatori. Dove la Meloni dà le carte, per ripetere un linguaggio che lei ha appena usato in Italia per ricordare il turno finito per la sinistra al tavolo del gioco nazionale.         

    Sarà pure “inciucio”, come lo ha disprezzato Il FattoQuotidiano, che chissà quali e quante vignette o fotomontaggi aveva preparato nel caso di un fallimento del vertice europeo, ma il rapporto fra la Meloni e Orban non serve solo a far pulire in Ungheria -scusate l’ironia- le celle carcerarie dove finiscono le Salis di turno, sperabilmente in attesa che riescano anche ad uscirne e a tornare in Italia. Esso seve anche a far funzionare meglio l’Unione e a non ridurla alla groviera che farebbe comodo a Putin. E scasate se non è poco. E se dopo il 9 giugno, nel e col nuovo Parlamento europeo, potrà andare anche meglio, pur se Matteo Salvini nella maggioranza, oltre alla sinistra all’opposizione, non dovesse gradire.

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