Gli scherzi emeriti di Gustavo Zagrebelsky sulla riforma Meloni del premierato

Ma com’è diventato spiritoso a 80  anni ben compiuti il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, da lui guidata per nove mesi nel 2004! O -se preferite- come ha smesso rapidamente di esserlo dopo avere a suo modo cantato su Repubblica di un mesetto fa, occupandosi della riforma costituzionale del premierato proposta dal governo di Giorgia Meloni, il famoso, allegro, ottimistico “Voglio essere positivo” di Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti. Tanto positivo da avere riconosciuto alla Meloni e compagnia di avere predisposto un disegno di legge capace stavolta di superare anche l’eventuale, anzi scontato referendum popolare di ratifica. Sì, i partiti minori avrebbero avuto e avrebbero  tutto il diritto di ribellarsi, schiacciati da quelli maggiori con l’investitura diretta del  candidato della maggioranza alla guida del governo, ma erano e sono minori, appunto. Prima o dopo -sembrava il sottinteso del ragionamento dell’emerito- doveva finire la pacchia di un protagonismo senza voti.

         Ebbene, entrato nella lista degli esperti invitati a illuminare le menti e gli occhi dei senatori della Commissione degli affari costituzionali nel lungo, doppio percorso parlamentare della riforma considerata dalla Meloni “la madre di tutte le riforme”, l’emerito si è ravveduto. O ha buttato giù la maschera e nella “osservazione conclusiva” ha chiarito, testualmente: “Avrei voluto pensare positivo, ma mi accorgo di non esserci riuscito. Condivido le preoccupazioni circa il sistema parlamentare che, pur scritto sulla Carta, è andato degenerando legislatura dopo legislatura, governo dopo governo. Credo però che la riforma proposta, al di là dei difetti particolari su alcuni dei quali prima  mi sono soffermato, potrebbe rivelarsi non una cura ma, piuttosto, un colpo di grazia”. E così –“colpo di grazia”-  ha titolato in prima pagina la Repubblica pubblicando il testo pur incompleto dell’intervento, non essendo bastata a contenerlo un’intera pagina lasciatagli all’interno, oltre allo spazio in prima

Immagino il sollievo del direttore di Repubblica, che nei primi giorni di novembre, ospitando la prima sortita “in positivo” dell’emerito, aveva dovuto avvertire i lettori che il suo contenuto era di carattere ironico. Ora le cose sono state messe a posto davvero. L’emerito è contrario a tutti gli effetti, senza scherzi, implacabilmente.

E pazienza se contemporaneamente, su un giornale ancora più contrario alla “schiforma” del premierato, Il Fatto Quotidiano, il filosofo del diritto e della politica Francescomaria Tedesco, già docente all’Università per gli stranieri di Perugia, è riuscito a strappare l’ospitalità per un articolo contro i poteri “debordanti” del presidente della Repubblica. Che il premierato della riforma Meloni limiterebbe, a tal punto da avere allarmato anche Gianni Letta, già braccio destro di Berlusconi, comparso sui giornali di oggi per i “dubbi” o “la bocciatura” espressi a carico della premier.  

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Troppo deboli le spalle di Forza Italia per la reclamata riforma della giustizia

A sentire l’ormai immancabile Marco Travaglio collegato con Lilli Gruber all’ora di cena, a leggerlo sul suo Fatto Quotidiano e a vederne i fotomontaggi -per esempio quello di martedì scorso ispirato al pericolo della “opposizione giudiziaria” al governo avvertito dal ministro della Difesa Guido Crosetto in una intervista al Corriere della Sera- mai Silvio Berlusconi è stato così vicino, da morto, al successo mancatogli da vivo nell’azione di contrasto ai magistrati. “B. è vivo e lotta insieme a loro”, gridava il titolo di apertura della prima pagina del Fatto, appunto, sopra i volti dello scomparso fondatore di Forza Italia, sullo sfondo di Palazzo Chigi, e della premier Giorgia Meloni affiancata dal guardasigilli Carlo Nordio e da Crosetto, naturalmente.

         A leggere tuttavia le cronache interne dello stesso Fatto e altri giornali sempre in ansia quando le toghe ai avvertono in pericolo, a torto o a ragione, la buonanima del Cavaliere non avrebbe ragione di sorridere dall’aldilà. E i custodi della sua urna ceneraria avrebbero da proteggerla per ciò che potrebbe ribollirvi di fronte alle troppe frenate che subirebbero nel governo in carica, nonostante le apparenze, i suoi progetti o sogni di riforma radicale della Giustizia, con la maiuscola. La stessa Meloni, magari consigliata dal suo principale sottosegretario a Palazzo Ghigi Alfredo Mantovano, che come la buonanima dell’ex magistrato Oscar Luigi Scalfaro porta la toga incollata alla pelle sotto l’abito che indossa per i fotografi, si divide fra tentazioni allo scontro, alla sfida e altro e desiderio, interesse o simile ad attenuare i toni, a ridurre la velocità della corsa sino a fermarla, spiazzando chi si fosse avventurato troppo in avanti. Si posticipa, per esempio, ora questa ora quell’altra tappa del percorso riformatore dell’amministrazione giudiziaria.

         Sulla prova psico-attitudinale per i magistrati che entrano in carriera la premier non si è lasciata convincere ad insistere neppure dal suo intervistatore preferito e quasi biografo -il direttore del Giornale Alessandro Sallusti – che le ha offerto come su un piatto d’argento il recupero d’archivio dell’assenso dell’insospettabile Nicola Gratteri. Che nel 2019 diede sorprendentemente ragione a Berlusconi, ancora vivo e vegeto, pur tra un controllo e l’altro in ospedale, nel reclamare quello che i magistrati già ritenevano uno schiaffo. Anzi, l’attuale capo della Procura di Napoli sostenne che alla prova psico-attitudinale i magistrati dovessero essere sottoposti non solo per entrare ma anche per rimanere in carriera, ad una scadenza almeno quinquennale, quanto dura una legislatura. Deputati e senatori debbono riconquistare o conquistare la fiducia degli elettori e i magistrati quella degli psicanalisti, o simili.

         Neppure Nordio se l’è sentita di raccogliere la palla passatagli dal buon Sallusti. E chissà se proverà a spingere davvero sull’acceleratore, anziché sul freno, di una radicale riforma della giustizia quel monumento un po’ fisico che è diventato, per peso e posa, il mio amico Antonio Tajani. Che si divide ora per ora fra le sue funzioni di segretario di Forza Italia, vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri in una congiuntura peraltro internazionalmente non calda ma rovente.

         Ne ha di gatte da pelare il povero Tajani pensando anche al congresso del suo partito già convocato per la fine di febbraio, e ancora sprovvisto -tra l’insofferenza del vice presidente della Camera Giorgio Mulè e altri- di un regolamento che disciplini le candidature alla sua eventuale successione.

         Forza Italia naviga generalmente nei sondaggi attorno all’8 per cento delle cosiddette intenzioni di voto, preceduta dalla Lega di Matteo Salvini e seguita solo dalla scheggia di “noi moderati” di Maurizio Lupi, con uno striminzito 0,5 per cento. Stanno rientrando nel partito di Berlusconi anche alcuni di quelli che ne erano usciti negli anni scorsi per dissensi più o meno clamorosi, forse più dal suo cosiddetto cerchio magico che dall’allora presidente. Ma il loro apporto alla tenuta elettorale di Forza Italia nelle scadenze di vario livello della primavera del prossimo anno è tutto da verificare, perché temo che nel passato di voti personalmente essi ne portassero pochi, bastando e avanzando quelli personalissimi di Berlusconi.

         Pensare davvero in queste condizioni, di partito ormai fra i minori e non più il maggiore della coalizione di centrodestra, o destra-centro, di poter fare la voce grossa con la Meloni sul terreno della giustizia e altro ancora è francamente difficile, anche se paradossalmente vi spera qualcuno fra le opposizioni non per potervi costruire sopra un’alternativa di governo ma giusto per scommettere sul masochistico suicidio di una crisi minsteriale: masochistico anche per il campo, largo o stretto che sia, delle minoranze.

Pubblicato sul Dubbio

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