Le buone notizie per l’Italia da Bruxelles che non piacciono ai soliti gufi

A vederne le foto e le riprese televisive da Bruxelles la premier Giorgia Meloni non mi è proprio sembrata col “nodo alla gola” immaginato e gridato dal manifesto. Mi è apparsa invece soddisfatta, come Gongolo nella vignetta sulla prima pagina del Corriere della Sera, per avere ottenuto dall’Europa l’approvazione del piano nazionale di ripresa aggiornato ai cambiamenti intervenuti dopo la predisposizione dei finanziamenti.

         Neppure il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, pur annerito dalla barba che porta e forse contrariato da qualcosa appena riferitogli di ciò che l’amico e capopartito Matteo Salvini dice e fa in Italia, mi ha dato la sensazione di essere disperato per l’allungamento dei tempi sulla strada dell’accordo -previsto comunque fra una decina di giorni- sul nuovo patto europeo di stabilità. Che dovrà sostituire le regole “stupide”- parola dell’allora presidente della Commissione europea Romano Prodi- non a caso sospese quando sopraggiunsero l’epidemia da Covid e le relative complicazioni economiche e finanziarie.

         Una decina di giorni di ulteriori trattative o conteggi hanno fatto titolare a Domani, il giornale impaziente di Carlo De Benedetti, che “l’accordo è lontano”. Di “accordo a metà” ha preferito invece parlare il Corriere, di “primi accordi” Il Messaggero. E’ la solita storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto secondo gli umori, le aspettative e quant’altro di chi lo vede.

         Ai fini delle valutazioni o previsioni sulla coda di trattative per definire il nuovo patto di stabilità non mi sembra irrilevante, per gli interessi e le attese del nostro Paese, l’annuncio dato dalla ministra francese per gli affari europei Laurence Boone in una intervista al Giorno, Nazione e Resto del Carlino: non vi sarà “nessun patto senza l’Italia” perché “in Europa non si va avanti senza di voi a bordo”.

         Se poi tutto questo, con un vistoso cambiamento rispetto al solito spettacolo dell’asse franco-tedesco, si tradurrà davvero nella vampiristica rappresentazione dell’Unità –“Ci aspettano 10 anni di sangue e lacrime”- probabilmente condivisa, o auspicata in funzione antigovernativa dalle opposizioni politiche di varia denominazione e natura, si vedrà. Gli scongiuri non sono ancora vietati. Se fatti anche in piazza, per strada, al teatro, al bar, al ristorante, insomma fuori casa, non credo proprio che saremmo avvicinati da qualche vigile urbano, agente di polizia, carabiniere, guardia di finanza o superiori per farci declinare le generalità e mostrare i nostri documenti. Com’è accaduto a quel tale del loggione alla Scala che ha gridato per avere sentito puzza di fascismo provenire dal palco reale dove, fra il destro presidente del Senato Ignazio La Russa e il sinistro sindaco di Milano Giuseppe Sala, era in piedi, o già seduta, ospite soddisfattissima, la senatrice a vita Liliana Segre, ebrea scampata alla morte nei campi di concentramento nazisti. Ah, quanto riesce ad essere grande l’idiozia umana.

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Non tutti i guai vengono per nuocere, anche alla Scala di Milano

Ciò che è accaduto all’apertura della nuova stagione lirica alla Scala di Milano, all’ombra peraltro di un’opera -il Don Carlo di Giuseppe Verdi- che c’insegna come il potere possa diventare inconciliabile con la felicità, può ben appartenere alla serie dei guai che non arrivano tutti per nuocere.

         E’ stata ampiamente riscattata l’operetta, come da qualcuno è stata giustamente definita, del palco reale diventato per un pò imbarazzante alla vigilia a causa dell’assenza del presidente della Repubblica e della conseguente sovraesposizione, chiamiamola così, della seconda carica dello Stato detenuta da un presidente del Senato come Ignazio La Russa. Che è un uomo particolarmente e lungamente significativo della destra italiana, ben più della giovane premier Giorgia Meloni nel suo secondo anno ormai a Palazzo Chigi.

         Da vuoto che si voleva che fosse, e che dal loggione volevano anche certi trinariciuti di mente avvolti idealmente in panni e bandiere sindacali, il palco reale è stato ben riempito attorno ad una delle più belle figure di questa nostra troppo spesso scombinata società italiana. E’ naturalmente Liliana Segre, sopravvissuta ai campi nazisti di concentramento degli ebrei destinati allo sterminio da Hitler. L’unica che l’attuale presidente della Repubblica, nel pieno dei posti creato dal predecessore Giorgio Napolitano, ha potuto nominare nel 2018 senatrice a vita per gli “altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” contemplati dall’articolo 59 della Costituzione. Che sembra avere ormai gli anni contati, prevedendone la soppressione la riforma costituzionale messa in cantiere proprio al Senato, peraltro, dal governo in carica.

         Il rispetto, la simpatia, l’affetto, l’ammirazione che Liliana Segre ha saputo guadagnarsi alla Scala nell’ovazione che l’ha accolta all’arrivo sul palco , ma anche in una buona parte destinata anche a lei dei tredici, lunghi minuti di applausi levatisi al termine dello spettacolo teatrale, mi hanno almeno personalmente ripagato dello sgomento, della paura, dell’umiliazione che mi procura quasi ogni giorno l’osceno antisemitismo politico e mediatico, di strada e di piazza ,che si traveste di umanitarismo per i palestinesi pur dopo il pogrom del 7 ottobre scorso in Israele. Palestinesi vittime a Gaza non tanto della guerra alla quale sono stati costretti gli israeliani per difendere il loro diritto all’esistenza singola e comunitaria, quanto dal cinismo col quale i terroristi di Hamas li hanno usati e li usano ancora come scudi per proteggere e nascondere le loro milizie, i loro arsenali, i loro comandi, i loro affari e ricatti.  Ed hanno recentemente indotto, per il plauso che riescono a procurarsi nelle rappresentazioni della tragedia mediorientale, proprio Luciana Segre ad esprimere la spaventosa sensazione di essere sopravvissuta invano alla Shoah. Non invano, senatrice, come ha ben visto e sentito alla Scala.

Pubblicato sul Dubbio

Il significato consolante dell’accoglienza della Scala a Liliana Segre

Oltre all’ovazione iniziale, all’arrivo sul palco reale del teatro milanese,  nel posto d’onore riservato al presidente della Repubblica quando vi accorre, la senatrice giustamente a vita Liliana Segre, questa nostra meravigliosa comune madre, nonna, zia, com’è riuscito ad essere martedì nel suo genere Guido Cecchettin agli occhi e ai cuori degli italiani dando l’addio alla sua Giulia assassinata da chi la voleva sciaguratamente tutta per sé; oltre all’ovazione iniziale, dicevo, Liliana Segre si è guadagnata buona parte di quei tredici, lunghi minuti di applausi alla fine della rappresentazione del Don Carlo di Giuseppe Verdi. 

         Preceduta nei giorni scorsi a Roma da una manifestazione filoebraica riparatrice di tante altre svoltesi in Italia, ma anche fuori, di un sostanziale, rivoltante antisemitismo col pretesto di una solidarietà umana ai palestinesi, purtroppo vittime più dei terroristi di Hamas, i quali li usano come scudi umani, che dei militari e vertici israeliani provocati alla guerra, la ultranovantenne reduce dai campi nazisti di sterminio ha impersonato alla Scala l’impegno preso dalla civiltà occidentale, all’indomani della seconda guerra mondiale, che mai più sarebbe stato permesso ciò che era stati consentito a Hitler, fra razzismo, vigliaccheria e calcoli sbagliati di vittoria.

         Gli applausi alla Scala, al netto di quelle miserabili e strumentali grida contro il fascismo dirette in realtà alla persona o alla figura del presidente del Senato Ignazio La Russa, che è la seconda carica dello Stato, portano bene a chi li riceve e alle cause che rappresentano, qualche volta persino malvolentieri. Come accadde a Sergio Mattarella alla vigilia della sua non voluta, non richiesta, non predisposta rielezione al Quirinale per un nuovo, intero mandato presidenziale: non giusto per trovare il tempo e l’occasione giusta per sostituirlo prematuramente. Com’era successo per e con Giorgio Napolitano.

         Mattarella- di cui con poco garbo Fedele Confalonieri ha detto ieri sera, fra gli spettatori del Don Carlo, che non sentiva la mancanza- reagì a quegli applausi incoraggianti della Scala per il bis con lo stesso fastidio mostrato nelle piazze e nelle udienze al Quirinale tradottesi precedentemente in auspici per la sua rielezione, pur essendovi ancora fra i candidati possibili alla sua successione l’ottimo Mario Draghi. Che ora il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, stando a qualche retroscena giornalistico, vorrebbe portare l’anno prossimo al vertice della nuova Commissione dell’Unione Europea, a Bruxelles. Ma poi, tornando a Mattarella, prevalsero le attese popolari sui giochi palazzo.

         Mi spiace che a guastare, diciamo così, la festa della Scala a Liliana Segre si sia messo addirittura Il Foglio con una vignetta di prima pagina in cui la donna più autorevole, prestigiosa e lucida del Senato passa per una svanita che confonde fra voci, musiche e quant’altro. Ah, Giuliano, in che mani hai lasciato il tuo giornale.

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Cronache da Palazzo Chigi e dintorni sotto le stelle dell’Unione Europea

         Mica male lo spettacolo tutto politico di ieri a Palazzo Chigi sotto le stelle, pur non visibili di giorno, dell’Unione Europea. La premier Giorgia Meloni prima di ricevere con tutti gli onori dovuti l’ormai amica presidente della Commissione di Bruxelles Ursula von der Leyen -e il riconoscimento di essere “una donna molto forte”, che quando parla nelle sedi comunitarie dimostra che “l’Italia conta”, tanto da essere ormai “al centro del dibattito europeo sia sull’immigrazione, sia sui finanziamenti, sia sui piani digitali, climatico e sociale”-  ha convocato il leader leghista Matteo Salvini. Lo ha fatto, pur con l’aria di invitarlo a un incontro fra amici e alleati, con tanto di sorrisi e carinerie reciproche davanti ai fotografi, per chiedergli in pratica di darsi una regolata. Un incontro “forse anche franco”, ha scritto Marco Galluzzo sul Corriere della Sera

Gli obiettivi dei due in Europa sono diventati diversi, anche per le esigenze di questa lunga campagna elettorale che si concluderà solo a giugno per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo.  Salvini coltiva -o mostra di coltivare- il sogno di una maggioranza di centrodestra. o di destra-centro, anche nell’Unione, come in Italia dall’autunno dell’anno scorso, senza socialisti o simili fra i piedi. La Meloni, incoraggiata così pubblicamente e chiaramente da Metsola, che è stata già ricandidata alla presidenza dell’Europarlamento dall’amico e collega del Partito Popolare Europeo Antonio Tajani, segretario di Foza Italia oltre che vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, si è proposta un obiettivo apparentemente più limitato. Che è quello -ha detto più volte e ripetuto anche ieri fuori da Palazzo Chigi- di partecipare a “istituzioni europee in cui l’Italia conti molto di più”, anche rispetto a quello che le ha già riconosciuto Metsola.

         Immaginare che a questo obiettivo più limitato di quello che lui persegua fra Pontida, Firenze ed altre località o piazze dove forse continuerà a presentarsi prima di giugno con i suoi amici di estrema destra preferiti in Europa, Salvini voglia o possa preferire l’anno prossimo, a campagna elettorale terminata, anzi a campagne elettorali terminate, al plurale, una rottura con la Meloni in Italia e una conseguente crisi di governo significa vivere nella irrealtà. Anche se già provata da Salvini nell’estate del 2019, all’indomani delle precedenti elezioni europee, bevendo mojto e altre bevande sulle spiagge adriatiche, reclamando pieni poteri e scommettendo su elezioni anticipate solo perché gliele aveva fatte intravvedere dall’opposizione l’allora segretario del Pd Nicola Zingaretti. Che poi si allineò alle piroette giallorosse di Matteo Renzi senza peraltro riuscire neppure a trattenerlo sulla strada della scissione. Uno scenario, quello, che a ricordarlo deve essere diventato un incubo per il leader leghista di fronte al modellino, o sotto l’arcata immaginaria del suo ponte sullo stretto di Messina.

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Quanti rumori diversi nelle piazze e nei palazzi, a cominciare da Chigi

         Ciascuno, certo, fa i suoi rumori. Quelli commossi dei diecimila e più in piazza a Padova, raccolti e rilanciati al Quirinale dal presidente della Repubblica, per salutare la ormai nostra comune figlia o sorella o nipote Giulia Cecchettin, assassinata da chi la voleva tutta per sé, li abbiamo sentiti  sul posto o a a casa, davanti al televisore. Con gli occhi ancora lucidi per l’addio datole da quel magnifico papà in Chiesa.

         Matteo Salvini invece ha preferito scrivere al Corriere della Sera per riproporre in sostanza la sua e le altre voci levatesi a Firenze contro l’Unione Europea dei massoni, degli intrusi e quant’altri. E per proporsi -contro l’ex vice Antonio Tajani succedutogli alla guida di Forza Italia e suo collega di governo- come il vero continuatore, erede, emulo della buonanima di Silvio Berlusconi. Che nel 1993, di questi tempi, sdoganò in autostrada la destra italiana e la portò dopo pochi mesi al governo, come il leader leghista vorrebbe fare ora con tutte le destre europee, comprese le più estreme di linguaggi e simboli nazisti, nella maggioranza del Parlamento di Strasburgo che uscirà dalle urne nella primavera prossima. Povero Berlusconi. Quante cose gli fanno dire, pensare e auspicare nell’urna che ne custodisce le ceneri nella villa di Arcore.

         Eppure nell’Unione dominata -ripeto- secondo lui da massoni e poteri tanto forti quanto subdoli  Salvini si è vantato,  scrivendo al plurale al Corriere- di avere reso “meno drastiche le posizioni sull’uso dei carburanti alternativi, raccogliendo il sostegno della Germania”. “Abbiamo convinto parecchi Paesi europei -ha aggiunto- dell’irragionevole posizione austriaca al Brennero e, giusto lunedì al Consiglio dei Trasporti Ue, l’Italia ha incassato un’ampia condivisione su alcune critiche alla direttiva Ets che colpisce i porti europei (obbligati a rivoluzioni green frettolose e illogiche) a vantaggio di quelli africani”. Intanto l’amico, collega di partito e ministro dell’Economia, anzi superministro, Giancarlo Giorgetti tratta il nuovo patto di stabilità europeo, cioè le nuove regole o parametri di bilancio, pronto a votare contro, viste le resistenze dei soliti frugali teutonici, ma anche a favore non escludendo quindi che pure su questo terreno potranno essere compiuti passi in avanti.

         In attesa che Giorgetti concluda il suo lavoro mescolando fermezza e duttilità, come in ogni negoziato, Salvini contribuisce a suo modo – nella felice vignetta di Emilio Giannelli sulla prima pagina sempre del Corriere, accanto sl richiamo della sua lettera al giornale- ad allestire con la premier l’albero di Natale a Palazzo Chigi. Cioè a staccare, buttare a terra e rompere le palle che la presidente del Consiglio vi ha appena appeso infiocchettandole. Buon lavoro, diciamo così, e buon Natale, con largo anticipo, al diversamente rumoroso vice presidente leghista  del Consiglio, che pensa di poter così raccogliere poi chissà quanti voti, o cocci.

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Le docce gelate della politica, con tutto il freddo che fa

Fa freddo, almeno a sentire i meteorologi, ma la politica, che corre sempre contromano, rovescia docce gelate su chi la osserva, ma anche su chi la pratica. Come la presidente del Parlamento europeo, la maltese Roberta Metsola scambiata dal Corriere della Sera in prima pagina per la presidente del Consiglio europeo, che durante un suo viaggio in Italia si è vista rovesciare addosso la grandine oratoria del vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, scatenato contro l’Unione nelle mani dei massoni. Dei demo-giudaico-plutomassonici, avrebbe detto Benito Mussolini, di cui alla fine il leader leghista, con la piega che hanno preso i suoi comizi, rischia di contendere il ricordo anche ai fratelli d’Italia ancora ieri accusati da Ezio Mauro, su Repubblica, di esserne condizionati.

         Grandine deve essere caduta anche sul generale Roberto Vannacci e sui lettori entusiasti del suo “Mondo al contrario”. I quali non hanno fatto in tempo a festeggiare il suo ritorno in carriera come capo di Stato Maggiore delle forze terrestri, o come altro si chiama il diavolo del nuovo incarico, che hanno appreso non di una ma di due inchieste disciplinari a suo carico. Una è quella già nota del libro che gli ha procurato tanta notorietà quanti soldi. L’altra è quella appena rivelata da Repubblica sui suoi “anni in Russia”, fra il 2020 e il 2022, quando fu l’addetto militare all’ambasciata italiana a Mosca e maturò -dicono i malevoli- una certa simpatia per Putin e compagni. Che però lo cacciarono lo stesso dal loro paese come ritorsione per l’espulsione di alcuni diplomatici russi dall’Italia mentre maturava la crisi ucraina.

         Ritorsione per ritorsione, è apparsa tale a parecchi giornali, con tanto di titoli, anche la licenza per ragioni familiari presasi da Vannacci appena rimesso in carriera, e contemporaneamente più indagato di prima. Il ministro della Difesa Guido Crosetto – che continuo a sospettare, a torto o a ragione, di voler far passare al generale tentazioni politiche che potrebbero elettoralmente nuocere alla destra della premier Gorgia Meloni- si è affrettato a precisare che il generale aveva chiesto questa licenza già a novembre. Ma allora, signor ministro, non valeva la pena nominarlo capo di Stato Maggiore eccetera eccetera al termine della licenza? Non stanno scadendo termini per candidature a qualche tipo di elezione. L’alto ufficiale potrebbe al massimo candidarsi ad amministratore del suo condominio, se il suo alloggio ne ha uno.

         Non resta che ridere, una volta tanto, col vignettista del Fatto Quotidiano Mario Natangelo.  Che, senza cedere a tentazioni sessiste come fece a suo tempo con la sorella di Giorgia Meloni immaginandola  a letto con un migrante di colore, ha messo in concorrenza elettorale per “prendersi l’Italia”  Vannacci e il collega  Francesco Paolo Figliuolo, che però è dotato  di una stelletta più di lui perché giornale di corpo d’armata e non di divisione.  

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Solo ora è cominciato davvero il dopo-Berlusconi in Forza Italia

Il fondatore e unico presidente è morto il 12 giugno di quest’anno, il suo vice Antonio Tajani – nonostante i gravosi impegni governativi di vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, o proprio per questi- ne è diventato successore come segretario del partito il 15 luglio, affrettandosi a sottolinearne la provvisorietà con la convocazione del congresso a fine febbraio. Ma il vero post-Berlusconi in Forza Italia, non so se pure fuori, è appena cominciato col pubblico dissenso di Gianni Letta dalla riforma costituzionale del Premierato proposta dal governo come “la madre -parole di Gorgia Meloni- di tutte le riforme”. Compresa quella della giustizia, pur considerata prioritaria da parecchi forzisti ma che il presidente del Senato Ignazio La Russa ha consigliato, raccomandato, ammonito -come preferite- a posticipare perché l’elezione diretta del presidente del Consiglio la deve precedere, non seguire, e neppure accompagnare.

         La natura post-berlusconiana del dissenso dal Premierato espresso da Gianni Letta, già consigliere, sottosegretario, amico e quasi familiare dello scomparso ex presidente del Consiglio, è emersa in tutta la sua evidenza dall’imbarazzo provocato in Forza Italia, a cominciare da Tajani. Che, chiamatolo dopo qualche ora, non so se più rasserenato o ancor più insospettito e allarmato, si è sentito rispondere -secondo il racconto di Francesco Verderami sul Corriere della Sera– nel modo apparentemente più disponibile e umile: “Smentitemi pure”. Forse già gli bastava e avanzava il risultato raggiunto di “incassare, olimpico, i complimenti pubblici delle opposizioni e quelli privati delle istituzioni”, ha scritto sempre Verderami. Che con lo stesso Letta e, più in generale, con la sede romana di Mediaset ha sempre avuto buoni rapporti.

         Il dissenso dell’ex sottosegretario di Palazzo Chigi dall’elezione diretta del presidente del Consiglio è un po’ organico, direi, ai buoni rapporti ch’egli è riuscito ad avere durante la lunga esperienza politica di Berlusconi con tutti i presidenti della Repubblica succedutisi al Quirinale, anche con quelli le cui relazioni personali con Berlusconi sono state più difficili, a cominciare dal primo. Che fu il compianto Oscar Luigi Scalfaro, arrivato a dargli l’incarico di presidente del Consiglio, dopo la sorprendente vittoria elettorale del 1994, con una lettera davvero inusuale, in cui erano indicate sostanzialmente le linee programmatiche del nuovo governo. Poi sarebbe stato lo stesso Umberto Bossi a raccontare degli incoraggiamenti ricevuti al Quirinale quando lui da capo della Lega cominciò a scalciare contro Berlusconi sino a farlo cadere, a prescindere dalle difficoltà che avevano già cominciato a procurargli i magistrati della Procura di Milano.

         Gianni Letta è stato insomma al Quirinale più di casa di Berlusconi, tanto che questi lo avrebbe ben volentieri trasferito sul Colle se avesse potuto, e soprattutto se non avesse voluto lui stesso la voglia di andarvi, sino all’ultima corsa conclusasi con la conferma di Sergio Mattarella.

         Ebbene, secondo Gianni Letta l’elezione diretta del presidente del Consiglio avrebbe l’inconveniente non superabile in alcun modo di ridurre spazio, autorevolezza e quant’altro al Presidente della Repubblica eletto invece dal Parlamento, pur a poteri invariati sulla carta. “In teoria”, ha osservato Tajani in uno sforzo massimo di comprensione, non di condivisione. E così mi pare anche la Meloni.

         Ma in Forza Italia, con Berlusconi ancora vivo, nessuno si sarebbe spinto a parlare del Letta anti-premierato come ha fatto, rispondendo al Fatto Quotidiano, il presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera Nazario Pagano: “E’ un uomo Mediaset. Fa parte del gruppo industriale che fa capo a Berlusconi. Non ha mai avuto un ruolo di partito”. Cui in effetti Gianni non aveva bisogno di iscriversi per consigliare, assistere e quant’altro il capo a gestirlo, anche nei passaggi delicatissimi della formazione delle liste dei candidati alle elezioni. Sempre un passo indietro formalmente a Berlusconi, ma come il mitico Talleyrand con tutti i sovrani di Francia succedutisi sotto di lui. 

Pubblicato sul Dubbio

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Il Salvini Calimero di Firenze che abbaia contro l’Unione Europea ma non morde

         Se il ministro della Difesa Guido Crosetto avesse mai pensato, rimettendo in carriera il generale Roberto Vannacci con la nomina a capo di Sato Maggiore delle forze militari terrestri, di spuntare la campagna elettorale della Lega per le europee di giugno, cui l’autore del “Mondo al contrario” avrebbe potuto partecipare come candidato del Carroccio, l’obbiettivo potrebbe ritenersi fallito.

         Per dipingersi di nero, o comunque di scuro, come un Calimero qualsiasi, nella corsa a destra per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, e poi per la definizione di nuovi equilibri nell’Unione Europea con la formazione della prossima Commissione esecutiva di Bruxelles, il capo della Lega, vice presidente del Consiglio e ministro dei Trasporti credo che basti ed avanzi da solo. Il suo comizio ieri a Firenze- con l’attacco frontale all’Unione, dove invece la premier Giorgia Meloni spera con l’aiuto dell’altro vice presidente del Consiglio, il forzista Antonio Tajani, di far valere la destra che lei rappresenta e guida in Italia- dimostra che Salvini ha altro nella testa. Nel momento in cui persegue non un allargamento delle maggioranze tradizionali ma un rovesciamento degli equilibri, incurante anche del Partito Popolare indisponibile ad accordarsi con la destra europea che lui coltiva con le sue manifestazioni in Italia, da Pontida a Firenze e a chissà dove sino a giugno, Salvini vuole solo abbaiare. Non vuole né può mordere davvero: magari cercando solo di strappare alla destra di Meloni qualche decimale di punto nelle urne da contendersi con le liste eventuali dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno.  

Di questa scalata  allo 0 virgola qualcosa in più nessuno poi chiamerà Salvini a rendere conto nella coalizione di governo cui partecipa: a cominciare dalla Meloni, per quanto “imbarazzo” possa averle procurato -secondo il titolo odierno del Corriere della Sera– il comizio fiorentino dell’alleato. O per quanto il cognato ministro Francesco Lollobrigida abbia tenuto proprio sul Corriere a rispondergli che “mai” il partito della premier accetterà di allearsi a Strasburgo, Bruxelles e dintorni “con chi è contro Kiev e Israele”. E fra le destre che piacciono a Salvini ce ne sono.

         Così peraltro il cognato della Meloni si è tolto dalle scarpe anche i sassolini delle distanze prese dalla Lega nei suoi riguardi per la vicenda del treno precipitato dall’alta alla bassissima velocità, da cui egli dovette scendere per proseguire il viaggio in auto e arrivare puntuale ad un impegno di governo.

         Ha avuto forse ragione Alessandro Sallusti ad avvertire oggi sul Giornale che “Matteo è Matteo” col suo gioco ormai di corto respiro ma “a carte scoperte”. E a concludere che “siamo in campagna elettorale”, durante la quale “ogni partito ha il diritto di parlare ai suoi elettori con le parole d’ordine che ritiene più efficaci, che a volte sono vere, altre verosimili”. Parole cioè inattendibili.

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Il nipote di Agnelli realista come il nonno nei rapporti con il governo di turno

         Non sarà regale come il nonno Gianni Agnelli, “l’avvocato” che, pur all’ombra della Repubblica, in qualche modo successe con la sua famiglia ai Savoia deposti col referendum del 1946, ma John Elkann si sta rivelando non meno realista di lui. Dietro le quinte egli ha saputo articolare da editore -o disarticolare, direbbero altri- i suoi giornali per non vederli schiacciati sotto lo scontro riapertosi fra il potere esecutivo e l’ordine giudiziario. Se mai esso ha avuto vere pause in quella che ormai è una specie di riedizione della guerra dei trent’anni. Trenta davvero, essendone trascorsi tanti da quando i parlamentari -nel 1993- rinunciarono spontaneamente ad una parte delle loro prerogative, o immunità, per far passare il primato dalla politica alla magistratura, dalle Camere alle Procure.

         Se la Repubblica, quella di carta, ha sparato oggi in apertura contro “l’attacco di Meloni”, che da Dubai, in missione climatica,  se l’è presa con “quella piccola parte della magistratura che ritiene che i provvedimenti di alcuni governi non in linea con una certa visione del mondo debbono essere contrastati”, la consorella Stampa ha preferito un modesto richiamo in prima pagina di un articolo che all’interno prende sul serio la verbale assicurazione della premier che “nessun conflitto” sia in corso, almeno da parte sua, con “certe toghe ostili”. Sono loro piuttosto -par di capire- a mettersi in conflitto con il governo, che continua lo stesso sulla sua strada: in tema, per esempio, di immigrazione o di difesa di un sottosegretario appena rinviato a giudizio, peraltro coatto, contro la richiesta d’archiviazione da parte dell’accusa. Egli rimarrà al suo posto. o magari sarà promosso ministro, sino a eventuale condanna definitiva, dovendosi sino ad allora ritenere “non colpevole” per esplicito dettato costituzionale in disuso dopo lo tsumani di “Mani pulite”. Stavolta, poi, non si tratta neppure di un’accusa di corruzione, o simili, ma di violazione -udite, udite- di un segreto d’ufficio già escluso dal ministro competente.

         Se la consorella Stampa a Torino ha abbassato il livello dell’attacco, o comunque della reazione e lettura di Repubblica, il confratello Secolo XIX a Genova ha rimosso l’argomento dalla prima pagina, considerandolo di scarto rispetto a tutti gli altri che vi sono approdati con minore o maggiore evidenza.

         A Dubai la Meloni si è distratta un po’ dalle questioni climatiche anche per rispondere ad una domanda sul significato da attribuire ad alcune dichiarazioni del braccio destro del compianto Silvio Berlusconi, il suo ex sottosegretario Gianni Letta, sul torto che si farebbe alla figura del presidente della Repubblica col premierato proposto dal governo con l’elezione diretta del presidente del Consiglio. La premier non è parsa francamente preoccupata della sortita “strumentalizzata dalla sinistra”, come ha detto la ex capogruppo di Forza Italia Licia Ronzulli esordendo come vice presidente del Senato.

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La frenata del ministro Guido Crosetto senza tracce sull’asfalto

Alla faccia della “frenata” attribuitagli dal Corriere della Sera in prima pagina. Una frenata di quelle che non lasciano segno sulla strada, per quanti sforzi facciano vigili e poliziotti accorsi sul luogo dell’incidente per i rilievi d’uso. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha rivolto accuse pesanti nell’aula della Camera agli illustrissimi signori magistrati insorti contro di lui per la puzza di “opposizione giudiziaria” avvertita in una intervista che è stata deplorata anche dalle opposizioni politiche, e non certo per gelosia, cioè perché sentitesi defraudate del loro compito dalle toghe. I politici schierati contro il governo hanno solidarizzato con le toghe d’attacco incitandole implicitamente a continuare nelle loro iniziative di supporto, molto più efficaci di una mozione, di un ordine del giorno o altro.  Più efficaci perché, con quel poco che resta dell’immunità parlamentare dopo la rinuncia-suicidio dei deputati e dei senatori nel 1993, all’epoca delle “Mani pulite”, i malcapitati rischiano costosi processi addirittura “coatti”, disposti contro l’archiviazione chiesta dalla pubblica accusa, e detenzioni cosiddette cautelari, persino con tanto di autorizzazione dei loro colleghi di gruppo o di coalizione intimiditi dai processi sommari sulle piazze.

         Hanno partecipato anche deputati e senatori a quell’orrendo bilancio ricordato in aula da Crossetto di 30.778 innocenti finiti in manette negli ultimi 20 anni. Un bilancio che contribuisce a capire e spiegare quel 57 e più per cento degli italiani che diffidano della magistratura, ritenendola impegnata “con fini politici”, e il 45 per cento minoritario ancora convinto invece della imparzialità delle toghe. Lo ha appena verificato un sondaggio Demos riferito da Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera, sotto il titolo della presunta “frenata” del ministro della Difesa nell’aula di Montecitorio. Un’aula peraltro sconsolatamente deserta a beneficio, paradossale, sia della destra sia della sinistra.  

         A sinistra, come preferiscono essere classificati al Fatto Quotidiano sognando che prima o dopo ne prenda la guida il presidente delle 5 Stelle Giuseppe Conte, gli “appena 26 deputati” presenti alla seduta del venerdì, tanto abitualmente disertata che non sono generalmente calendarizzate votazioni, costituirebbero una vergogna per il governo. Incapace evidentemente di mobilitare la sua maggioranza per riempirne almeno i seggi.

         Con maggiore logica, considerando chi ha reclamato  la risposta di Crosetto, sentitosi un po’ convocato di fronte a “un plotone di esecuzione”, quelli di Libero hanno titolato accanto alla foto dell’emiciclo vuoto di Montecitorio: “Democrazia in pericolo, poi non vanno neanche in aula”. Che in effetti avrebbe dovuto essere affollata almeno a sinistra del governo per sommergerlo di fischi e simili. Deserte, o quasi, anche le tribune, dove magistrati avrebbero potuto essere invitati dai gruppi di opposizione non foss’altro per fare numero, come si dice.

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