Quando Toni Negri fu lasciato scappare per non fare il deputato di giorno e il detenuto di notte

    Appena morto a Parigi con tutti i debiti pagati alla giustizia italiana, che lo aveva condannato prima a 30 e poi a 12 anni di carcere per associazione sovversiva, banda armata, concorso morale in una rapina mortale, Toni Negri non ne aveva compiuti nemmeno 50 quando -nell’estate del 1983- fu lasciato scappare in Francia nientemeno che dal presidente del Consiglio e dal ministro dell’Interno allora in carica. Che erano, rispettivamente, il leader socialista Bettino Craxi e il democristiano “tutto di un pezzo”, come lo chiamavano nel suo partito, Oscar Luigi Scalfaro. Il quale si compiaceva di portare addosso, attaccata sulla pelle sotto l’abito civile, la toga di magistrato solo apparentemente dismessa nel 1946, quando era stato eletto all’Assemblea Costituente.

         Quello di Craxi e di Scalfaro non fu un atto né di generosità né di codardia, o tradimento allora contestabile ad entrambi davanti alla Corte Costituzionale. Fu una decisione paradossale, utile ad evitare che l’intera legislatura appena cominciata si svolgesse nelle curiose modalità immaginate da quel diavolo di Marco Pannella. Che aveva candidato e fatto eleggere deputato quel noto professore universitario di filosofia, benchè in carcere di massima sicurezza dal 1979, quando fu arrestato in una sostanziale retata a Padova di sospetti terroristi, assassini, rapinatori e sequestratori.

         Liberatolo per forza nel momento dell’elezione a deputato, i magistrati predisposero tempestivamente la richiesta di autorizzazione ad arrestarlo daccapo per la gravità dei reati contestatigli, in attesa di processarlo. Poi, nello scenario perseguito da Pannella, essi avrebbero dovuto autorizzarlo di volta in volta ad essere tradotto alla Camera per partecipare alle sedute d’aula o di commissione scelte dal detenuto per assolvere al proprio mandato.

         Pur amici entrambi di Pannella, presidente del Consiglio e ministro dell’Interno non ebbero bisogno neppure di parlarsi fra di loro. Bastò uno scambio di sguardi per intendersi e capire che, mollando la sorveglianza già allertata e lasciando scappare Negri in Francia da un porto della Toscana, avrebbero risparmiato agli italiani  uno spettacolo imprevedibile nei suoi sviluppi e risvolti.

         Così Toni Negri trovò rifugio in Francia, come altri nelle sue condizioni. E, incassata per tutta la legislatura con delega non so a chi la sua lauta indennità parlamentare, tornò in Italia di sua volontà dopo 14 anni, a processi terminati, condanne ridimensionate e in grado di patteggiare un modesto “residuo di pena”, contenente quattro anni di semilibertà. Un epilogo in qualche modo coerente con la sua storia stravagante, a dir poco, di uomo cresciuto con fede religiosamente cattolica e politicamente socialista ma tanto radicale nei suoi ragionamenti, nelle sue condotte e nelle sue frequentazioni, fra le quali quella con Renato Curcio, da procurarsi ogni tipo di sospetti: anche di avere concorso alla fondazione delle brigate rosse e al sequestro di Aldo Moro.

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Per una lettura corretta del Consiglio Europeo a Bruxelles

    Nonostante le apparenze valorirzzate dal “ricatto di Orban” sparato in prima pagina da Repubblica per “il veto” opposto -ha titolato il Corriere della Sera- agli “aiuti a Kiev” per 50 miliardi di euro, che gli ungheresi scambieranno la prossima volta con i venti o trenta che reclamano per loro da Bruxelles, il Consiglio Europeo non è andato per niente male.

         Per valutarne meglio gli effetti basta vedere quanto esso abbia guastato a Putin–“il bullo di Mosca”, aveva titolato giustamente ieri Il Foglio– la festa della conferenza stampa di fine anno. Dove l’illuso aveva cercato di fare credere davvero vicina la fine dei “500 anni” di egemonia occidentale preannunciata dal suo ministro degli Esteri. La sessione appena conclusa del Consiglio Europeo rimarrà nella storia dell’Unione per le porte aperte ai negoziati per l’ingresso dell’Ucraina, e della Moldavia. Un ingresso che da sola potrebbe bastare ed avanzare, forse ben più delle armi che stanno tardando ad arrivare a Kiev, a impedire a Putin di papparsi i vicini, per quante sofferenze e vite umane potrà ancora costare l’operazione. “L’Ucraina salva l’Europa dai suoi fantasmi”, ha titolato oggi Il Foglio. “Il gran “no” di Orban sul budget europeo non spaventa più: l’Ue può procedere a 26”, ha spiegato il giornale fondato da Giuliano Ferrara. Che ha aggiunto: “Kiev può vincere. Ecco il piano, i tempi e il calcoli per non regalare a Putin neppure il tempo”.

         Quello che è contato a Bruxelles non è il veto posto da Orban per bloccare o ritardare i 50 miliardi a Kiev ma il veto che lo stesso Orban, convinto anche dalla premier italiana Giorgia Meloni, ha rinunciato a mettere contro il percorso di adesione dell’Ucraina all’Unione. E pazienza se davvero, come ha profetizzato sulla Verità Maurizio Belpietro in curiosa sintonia con le speranze di Mosca, “l’Ucraina nella UE affonderà i nostri bilanci”. C’è tempo, per fortuna, per smentire una così nera profezia, come tante altre che hanno accompagnato negli anni scorsi l’Unione.        

   Un po’ troppo pessimistiche e negative mi sembrano anche le “mani vuote” attribuite da Matteo Renzi sul suo Riformista alla Meloni di ritorno da Bruxelles per partecipare alla festa del suo partito, chiamata Atreju. Dove ha fatto capolino ieri tra la sorpresa generale il suo ex compagno ma perdurante, ineliminabile padre di sua figlia Ginevra. Più attendibile della lettura di Renzi, acido pure alla vetta che è riuscito a raggiungere, almeno per ora, nella classifica degli onorevoli Paperoni, mi pare quella sulla Ragione di Davide Giacalone. Il quale  ha rappresentato il semestre di presidenza italiana del G7 che sta per cominciare come quello delle “seguenti cose importanti: il nuovo Patto europeo di stabilità e crescita sarà varato, l’accordo sul bilancio europeo sarà trovato, si eleggerà il nuovo Parlamento europeo, si attraverserà la fase cruciale del piano nazionale di ripresa nell’uso dei fondi europei, che l’Italia riceve quanto nessun altro nell’Unione”

I sinistri vaticini della Schlein e le volgari vignette contro la Meloni

   Accorsa anche lei a Bruxelles, ma non per accompagnare Giorgia Meloni al Consiglio Europeo, avendo almeno per ora tutt’altro ruolo in Italia, la segretaria del Pd Elly Schlein ha annunciato ai suoi colleghi di parte del vecchio continente che siamo finalmente in vista di una crisi di governo. Quello in carica, a dispetto dei larghi margini della maggioranza parlamentare conquistata l’anno scorso e della “prospettiva di legislatura” rivendicata ogni giorno dalla premier in carica, fiduciosa per giunta di poter essere confermata nella prossima direttamente dagli elettori con la riforma che ha messo in cantiere al Senato; quello in carica, dicevo, durerò meno delle Camere attuali. O se le porterà appresso nella tomba quando cadrà anzitempo.

         Questi neri presagi, o di  viola quaresimale del suo frequente abbigliamento, sono stati ripetuti dalla Schlein all’ospitalissima Repubblica, cui non è parso vero poterli ostentare in prima pagina accanto ad un altro presagio negativo, riguardante questa volta tutta l’Unione Europea. Eccovene la sintesi: “Scenario catastrofico nel 2030. L’Unione Europea conterà 35 partener, solo per l’Ucraina avrà speso circa 200 miliardi di euro, non potrà prendere una singola decisione perché l’unanimità sarà impossibile, avrà larghe fette di popolazione scontenta poiché Kiev e i nuovi soci avranno drenato tutte le risorse continentali per agricoltura e sviluppo”. Tutto testuale, vi giuro, che spero sia sfuggito alla lettura della Schlein per la sua incolumità fisica, non potendosi obiettivamente capire la fretta che lei mostra di avere per prendere il posto della Meloni, partecipando così in Europa a questa macabra danza.

         Il povero Federico Fubini rischia di finire in un manicomio riaperto apposta per lui avendo scritto tutt’altro nell’editoriale del Corriere della Sera sul “salto in avanti” a Bruxelles. Dove “governare l’Unione europea è diventato l’arte di pensare l’impensaibile”. “Se all’ìinizio del suo mandato qualcuno avesse detto a Ursula von der Leyen- ha scritto Fubini- quali decisioni aspettavano la sua Commissione, probabilmente neanche lei ci avrebbe creduto. Non avrebbe mai creduto che lei stessa avrebbe messo sul tavolo dei leader di 27 Paesi -quasi tutti in tempi brevi- un eurobond da 800 miliardi, di cui l’Italia ha una fetta di un quarto con il piano nazionale di ripresa e resilienza”. Una fetta che non abbiamo perduto né con l’arrivo della Meloni a Palazzo Chigi né dopo più di un anno di governo, durante il quale la premier si è messa peraltro a fare concorrenza al suo predecessore Mario Draghi, pur imprudentemente criticato qualche giorno fa, nell’accumulare foto di incontri internazionali  per il suo album.

         In un pur improbabile manicomio, se permettete, ci manderei anche il vignettista del Fatto Quotidiano Riccardo Mannelli per la sua volgare rappresentazione odierna della Meloni e delle sue “gambe corte” e grassottelle. Che compenserebbero il naso pinocchiescamente lungo della Schlein.  

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I guai della Meloni bastano da soli. E’ inutile inventarsene altri

   D’accordo, Giorgia Meloni è uscita malissimo dalla sortita alla Camera sull’album fotografico del suo predecessore Mario Draghi, molto più folto dei risultati concreti che egli avrebbe portato a casa in politica estera durante il suo governo. La pezza che poi la premier ha cercato di mettere, precisando di avere voluto polemizzare sul Pd che si sarebbe fatto bello delle foto di Draghi, è stata forse peggiore della pezza.  Quel partito peraltro non è più guidato da Enrico Letta, che si riconosceva pienamente nell’allora presidente del Consiglio, ma da una Elly Schlein che ha sensibilità diverse, a dir poco, anche se non ancora sufficienti ad accontentare Giuseppe Conte nelle nove vesti di pacifista, o quasi, aspirante alla guida delle opposizioni con quel cappotto di lana pregiata appoggiato come mantello sulle spalle nei corridoi della Camera.

         D’accordo, ripeto, su quello che ho già chiamato il deragliamento della Meloni. E anche sulla spiacevole sorpresa appena riservatale dalla “sua” Albania, dove il presidente Rama è stato bloccato dalla locale Corte Costituzionale sulla strada dell’accordo con l’Italia per trattenere sul proprio territorio una parte dei migranti soccorsi in mare e richiedenti asilo da noi. Ma fermiamoci qui, per favore. Non attribuiamo alla Meloni anche incidenti che non ha avuto, come persino Il Foglio, e non solo Repubblica e il Fatto Quotidiano, l’ha rappresentata per quel dispaccio sventolato ieri nell’aula del Senato. Dove la premier ha accusato il secondo governo Conte di avere autorizzato arbitrariamente con un fax del ministro degli Esteri Luigi Di Maio il rappresentante italiano a Bruxelles a firmare il trattato del Mes, o fondo salva-Stati, nella versione appena modificata rispetto a quello risalente all’ultimo governo Berlusconi.

         Poiché quel fax di adesione porta la data del 20 gennaio 2021, la premier non avrebbe potuto e tanto meno dovuto accusare Conte di avere agito di soppiatto, “nelle tenebre”, con l’ancora fedele Luigi Di Maio alla Farnesina, nonostante dimissionario e perciò in carica solo per i cosiddetti affari correnti, scaricando guai quindi sui governi successivi. Le dimissioni di Conte e del suo secondo governo furono in effetti formalizzate al Quirinale il 26 gennaio, sei giorni dopo quel fax. Ma chi segue correntemente la politica sa bene che da almeno una ventina di giorni prima il secondo governo Conte era in crisi, cercando “volenterosi” tra le fila del centrodestra per non soccombere in Parlamento, logorato da Matteo Renzi già dal giorno dopo della nascita propiziata dallo stesso Renzi ancora nel Pd nel 2019.

         Il 20 gennaio del 2021, quindi, Conte era già con un piede fuori da Palazzo Chigi e Di Maio forse già garantito di conferma alla Farnesina con Mario Draghi. Che, per niente stanco – come lo immaginava l’allora premier- delle fatiche alla presidenza  della Banca Centrale Europea, stava riservatamente già preparando il suo programma e il suo governo, nato il 13 febbraio.

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L’album fotografico di Mario Draghi strapazzato da Giorgia Meloni

    Può capitare a tutti, anche ai politici naturalmente, una battuta infelice, strumentalizzabile e quant’altro, specie quando si parla a braccio, improvvisando, com’è accaduto a Giorgia Meloni nell’aula di Montecitorio nella replica sulla vigilia del Consiglio Europeo. Ma quando vi casca in Parlamento un presidente del Consiglio -al maschile, questa volta, come preferisce appunto la Meloni- la vicenda è difficile da archiviare. Neppure -temo- con la dichiarazione studiata dalla premier col suo sottosegretario di fiducia, Alfredo Mantovano, per rimettere a posto l’album fotografico di Mario Draghi un po’ strapazzato poco prima.

         “Il mio- ha spiegato la Meloni- è stato un attacco al Pd, secondo il quale la politica estera è solo farsi le foto con Francia e Germania. L’intenzione non era quella di attaccare Draghi e l’impulso che è riuscito a dare nel sostegno europeo all’Ucraina”, accorrendo in treno nel 2022 da Zelenski con Macron e Sholz per incoraggiarlo a resistere all’aggressione della Russia di Putin. “Ho rispettato -continua la dichiarazione della premier, sempre riferendosi a Draghi- la sua fermezza di fronte ai problemi che aveva nella sua maggioranza. Il lavoro che ha svolto non si può risolvere in una fotografia”. Cosa che ha ripetuto ieri in aula al Senato.

         Ma nell’album di Draghi sono finite poi altre fotografie che, a toto o a ragione, sono entrate di straforo nelle polemiche, nelle insinuazioni, nei sospetti alimentati dalla replica parlamentare della Meloni. Sono finite, per esempio, anche foto recenti di Draghi col presidente francese Emmanuel Macron, che ha lasciato attribuirsi dalla stampa internazionale, senza smentire, il progetto di portare l’ex presidente del Consiglio italiano al vertice della prossima Commissione esecutiva dell’Unione Europea, a Bruxelles, o alla presidenza del Consiglio Europeo. Progetto che in teoria potrebbe correre parallelamente alle ambizioni politiche della Meloni nell’Unione ma anche disturbarle, diciamo cosi.

         Con la sua dichiarazione di precisazione, chiarimento e quant’altro la Meloni ha un po’ fatto quello che la buonanima di Amintore Fanfani soleva intimare in toscano doverosamente aspirato agli amici o colleghi di cui non condivideva scelte o parole: “Chi la fa grossa, la copra”. Ma qui c’è forse ancora da chiedersi -non si dispiaccia l’interessata, di cui capisco i ritmi stressanti di lavoro, fuori e dentro casa- quanto grossa debba essere intesa quella che l’è scappata fornendo involontariamente un assist che non meritavano, secondo me, né la segretaria del Pd Elly Schlein né Giuseppe Conte. Il quale ancora non riesce a mandare giù -temo- lo sfratto da Palazzo Chigi per essere sostituito a suo tempo da un Draghi ch’egli considerava troppo stanco per volergli succedere.

Pubblicato sul Dubbio

Meloni deraglia rovinosamente alla Camera con allusioni a Draghi

         Altro che “incidente”, come lo ha generosamente declassato Il Giornale riferendosi all’”attacco a Draghi” contestato da Repubblica a Giorgia Meloni per il discorso nel quale ieri alla Camera, in vista della partecipazione al Consiglio Europeo, si è praticamente vantata di avere portato o di poter ancora portare a casa, in termini di concessioni o solo di immagine, molto più di quanto avesse fatto il suo predecessore ripreso  in treno con il presidente francese Macron e col cancelliere tedesco Sholz in viaggio verso l’Ucraina appena aggredita dalla Russia di Putin. O ricevuto  ogni tanto da Macron all’Eliseo,  dove si coltiva la speranza neppure tanto nascosta di portare l’anno prossimo l’ex premier italiano alla presidenza della Commissione esecutiva dell’Unione, al posto della tedesca Ursula von der Layen, o del Consiglio Europeo, al posto del belga Charles Michel.

         Quello della Meloni, volendo restare all’immagine ormai storica del treno che lei ha evocato con Draghi, Macron e Sholz in missione di soccorso all’omologo  ucraino Zelensky, è stato un disastroso deragliamento politico: di quelli che possono segnare nella vita di un governo o nella carriera di un premier la  separazione fra il prima e il dopo. A rimuovere o raddrizzare le lamiere non sono certamente servite le precisazioni ufficiali, ufficiose o confidenziali seguite al discorso alla Camera per dirottare la polemica da tutti avvertita nei riguardi di Draghi verso il Pd di Elly Schlein, così diverso da quello di Enrico Letta in politica estera, per quanto Giuseppe Conte peraltro l’accusi di indossare ancora ”l’elmetto”. E la stessa Schlein possa replicare e difendersi ricordando quella “stanchezza” per la guerra in Ucraina lasciatasi sfuggire dalla Meloni nella famosa intervista strappatale da due comici russi travestiti da diplomatici africani, o qualcosa di simile.

         Non so francamente se e quanto tempo occorrerà alla Meloni per far dimenticare il suo deragliamento, ripeto. Né la premier può consolarsi -temo- con la sorprendente preferenza dicbiaratale oggi sul Foglio dal vecchio, indomito, “radicalizzato” Carlo De Benedetti. Che, intervistato da Salvatore Merlo sul declino di quelli che furono i suoi giornali, ha finito per parlare anche della destra sei mesi dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi. “Questa destra -ha detto l’ex editore di Repubblica, ora di Domani– non mi pare tanto normale. E Meloni non mi piace per niente”. Cioè continua a non piacergli, dopo averle dato della “demente” -se non ricordo male- fra le proteste anche di una nuora. “Eppure -racconta l’intervistatore- a un certo punto scopriamo che c’è qualcuno che all’Ingegnere piace persino meno”. E chi? “Se dolorosamente, costretto a scegliere tra Meloni e Conte, sceglierei Meloni”, ha detto Carlo De Benedetti parafrasando se stesso quando in televisione disse che avrebbe preferito il pur “avversario” e ancora vivo Berlusconi rispetto a Beppe Grillo e subordinati, o garantiti.

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Gli italiani purtroppo mostrano di avere sempre meno voglia di votare

         Scriveva ieri sulla Stampa Alessandra Ghisleri, a conclusione di un articolo illustrativo di sondaggi effettuati dalla sua Euromedia sugli ottimisti e pessimisti, che “il giudizio degli italiani sul governo è più severo rispetto ad un anno fa (35,5%). E mentre Giorgia Meloni sfiora il 40% nell’indice di fiducia (39,7%), nulla di importante ancora si muove nelle intenzioni di voto dei partiti tranne il crescere della percentuale dell’astensione”. Crescita che poi non sono riuscito a quantificare rileggendo bene lo stesso articolo e le tabelle di accompagnamento.

         In una di queste tabelle tuttavia ho visto che i più ottimisti, fra gli elettori dichiarati dei vari partiti, sono quelli di Forza Italia col 57,7 per cento, fedeli pertanto allo stato d’animo fiducioso che caratterizzava il fondatore del partito Silvio Berlusconi. Del quale ricorre oggi il primo semestre dalla morte commentato ottimisticamente -e come sennò?- dal direttore del suo ex Giornale di famiglia, ora posseduto anche dagli ex forzisti Angelucci. Seguono per ottimismo i fratelli d’Italia della Meloni col 51,7%, i centristi di Matteo Renzi col 50,1 , i leghisti di Matteo Salvini col 48,2. Gli elettori del Pd della Schlein si fermano al 38, visto anche -presumo- il modo col quale la segretaria sta guidando il partito, e quelli di Giuseppe Conte al 33,9: ancora meno, quindi, nonostante il passo sempre più veloce dell’ex premier per sorpassare gli ex alleati di governo.

         Il primato del pessimismo ce l’hanno gli elettori genericamente degli “altri partiti”, cioè i minori, col 56,5 per cento, e quelli che la Ghisleri ha definito “Indecisi/astenuti”, col 53,7 per cento. Di costoro -ripeto, gli indecisi/astenuti- solo il 20,5 per cento è risultato ottimista, forse incline -deduco- ad andare la prossima volta alle urne, anzichè restarsene a casa tra dubbi e indifferenza.

         Vedremo la prossima volta come varierà la percentuale dell’affluenza, ferma -mancando dati più recenti della Ghisleri- al 63,90 per cento delle elezioni politiche dell’anno scorso, a livello nazionale, e al 47,95 per cento delle elezioni molisane di giugno scorso, a livello regionale, con un astensionismo quindi maggiore dell’affluenza o partecipazione.

         Apparentemente, almeno rispetto al meno del 48 per cento dei votanti in Molise, il 63,90 per cento dell’affluenza alle elezioni politiche dell’anno scorso potrebbe sembrare un affare. Ma non lo è per niente, considerando i 9 punti percentuali in meno rispetto alle precedenti elezioni del 2018, Va infine precisato, poco ottimisticamente, che dei 26 milioni di elettori su oltre 51 milioni recatisi l’anno scorso ai seggi,  ben 493 mila vi andarono solo per deporre scheda bianca nell’urna e più di 793 mila per deporvi schede risultate nulle allo scrutinio o per errori commessi involontariamente dai cittadini o per parolacce preferite ad un segno di croce su un simbolo di partito, o su una coalizione.

         Per tornare alla scelta fra ottimismo e pessimismo, da cui si è mossa nei sondaggi la Ghisleri, il quadro complessivo non mi sembra francamente consolante, a dispetto di certe apparenze fra gli elettori della maggioranza, non a caso relativa. 

Gianni Letta smentito da Fedele Confalonieri sul no al premierato

Sorpreso dalle recenti cronache parapolitiche della Scala -credetemi- più che per quel grido contro il fascismo levatosi dal loggione con allusione al presidente del Senato Ignazio La Russa ospite del palco reale, per l’indifferenza ostentata invece nel foyer da Fedele Confalonieri parlando dell’’assenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, di cui ha tenuto a dire che non gli mancava per niente, ne ho capito la ragione due giorni dopo leggendo il Corriere della Sera. Dove si è raccontato di un incontro riservato avuto dal fraterno amico del compianto Silvio Berlusconi la settimana precedente con la premier Giorgia Meloni. Un incontro riferito dal solitamente ben informato Francesco Verderami, in effetti non smentito, anche alla esternazione di Gianni Letta contro il premierato proposto dal governo perché destinato a ridimensionare, quanto meno, la figura del Capo dello Stato, a cominciare da quello in carica.  Che l’ex sottosegretario e braccio destro di Berlusconi stima moltissimo,  al pari di tutti i predecessori, compresi quelli che procurarono più grattacapi o delusioni al fondatore di Forza Italia e quattro volte presidente del Consiglio, dopo la sua sorprendente vittoria elettorale del 1994.

         Verderami, a dire la verità, non si è dilungato molto su quell’incontro, pur guadagnatosi il richiamo in prima pagina e, all’interno, anche un catenaccio, come lo chiamiamo noi giornalisti, sul fatto che “il manager sul premierato non la pensa come Letta”. Cioè,  al presidente di Mediaset non crea preoccupazione, ansia e quant’altro che Mattarella nel proseguimento del suo secondo mandato e i successori eletti dal Parlamento finiscano ridimensionati, o compromessi, davanti ad un presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo. Un presidente del Consiglio che, con gli umori correnti nel Paese, potrebbe essere dopo la riforma anche la Meloni. Della quale  Confalonieri già prima delle elezioni dell’anno scorso,, avvertendone il risultato anticipato da tutti i sondaggi e l’approdo a Palazzo Chigi, aveva pubblicamente esortato amici, conoscenti e altri a fidarsi.

         “Sebbene l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio e il patron di Mediaset -ha raccontato Verderami nel suo scoop- siano stati i due autentici pilastri di Silvio Berlusconi, politicamente appartengono a chiese diverse. Il primo è di “rito ortodosso romano”, il secondo è di “rito federalista ambrosiano”. Due scuole di pensiero che -ha insistito Verderami, conoscitore di entrambi, avendone ripetutamente raccolte interviste, telefonate e simili- mole volte hanno avuto opinioni diverse. Sta accadendo di nuovo sul progetto di riforma costituzionale del governo”. Racconto, conclusione, sintesi -come preferite- dal sapore tacitiano, dal nome del leggendario storico romano Tacito, mitico per la sua precisione pari alla concisione.

         Prima difeso dentro Forza Italia per la sua sortita contro il premierato in quanto “strumentalizzato” dalle opposizioni -disse, per esempio, la vice presidente del Senato Licia Ronzulli- e poi ridimensionato politicamente a “uomo Mediaset”, come lo definì in una imbarazzata intervista al Fatto Quotidiano Nazario Pagano, presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera, Gianni Letta si è trovato spiazzato nel racconto del Corriere della Sera anche come eminenza aziendale, o di gruppo. Ne sarà rasserenata la Meloni, che ha notoriamente definito quella del premierato “la madre di tutte le riforme”, spalleggiata dal presidente del Senato, anche lui convinto della sua priorità rispetto anche a quella della giustizia, più cara ai forzisti, o delle autonomie differenziate care ai leghisti.

         Non dico che siamo ad un letticidio, sinonimo del famoso Conticidio coniato da Marco Travaglio quando fu sfrattato da Palazzo Chigi il primo e unico inquilino pentastellato, ma ci stiamo vicino. Del resto, questa è la fase che ho già definito del dopo-berlusconismo, e non solo nel centrodestra, o destra-centro ch’esso è diventato.

Pubblicato sul Dubbio

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Quando la politica diventa cafonaggine e degenera persino in violenza

 Quell’Ignazio La Russa, presidente del Senato, visto nelle foto e in qualche telegiornale accanto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nell’aula di Palazzo Madama che ospitava il concerto di Natale, col viso rivolto in alto alla sua destra non cercava un omonimo del loggista identificato alla Scala che qualche giorno prima gli aveva praticamente gridato contro il suo evviva all’Italia antifascista. Che La Russa, ospite del parco reale, dichiarò poi ai giornalisti di non avere sentito e che oggi sul Corriere della Sera ha commentato dicendo in una intervista: “E’ bastata una frase gridata da un appassionato di ippica perché costui si tramutasse per la sinistra in una specie di eroe nazionale, alla Scurati, che sul fascismo vive grazie ai suoi libri. Ci riflettano, qualcosa non funziona”.

         Credo che il presidente del Senato avesse guardato in alto per accertarsi se l’ex parlamentare della sinistra Paola Concia, da lui personalmente invitata al concerto anche per solidarietà dopo le polemiche contro la sua controversa e mancata nomina a presidente di una commissione per l’affettività nelle scuole, ci avesse ripensato. E, anzichè rimanere in Germania con la sua compagna di vita, avesse raggiunto Palazzo Madama. No, non l’aveva fatto. Aveva continuato a preferire opporre  un’assenza polemica a quella che giustamente Giuliano Ferrara sul Foglio ha definito “stupidata” e “pena” scrivendo del “congedo” imposto alla Concia così: ”Io sono contro il matrimonio unigender da quando i destri di governo avevano i calzoni corti, ma che c’entra con l’educazione alle relazioni, che poi è una stramberia piena di buone intenzioni? Niente”.

         Sono parole nelle quali, credendo di conoscerlo, credo si sia  pienamente riconosciuto  questa mattina anche il presidente del Senato dopo avere raccontato nella già accennata intervista al Corriere questo episodio della sua lunga esperienza parlamentare cominciata alla Camera nel 1992: “Un’altra mia amica è stata Vladimir Luxuria- Ricordo che quando venne eletta era intimidita, non sapeva come sarebbe stata accolta. Io, che ero capogruppo di An, regalai una rosa a tutte le elette come benvenuto. Un commesso mi chiese: “Ma anche a Luxuria?”. E io: “E perché no, scusi?”. Lei la gradì molto, soprattutto perché si ruppe il ghiaccio e ne nacque un bel rapporto”.         

Ecco. Questo è un modo civile di concepire le relazioni interpersonali e politiche, anche frequentando i loggioni in teatro anziché la platea e i palchi di vari gradi e denominazioni. Tuto il resto, prima di diventare addirittura violenza, è semplicemente cafoneria, maleducazione. Cui la politica è stata ridotta dai troppi che la praticano e la frequentano, pur nelle Camere ridotte inutilmente dai grillini nei seggi, con l’effetto di far vedere meglio quelli che non sanno sedervisi e restare nei dovuti modi. E’ non casuale ma voluta ogni allusione a Giuseppe Conte che dà dei codardi ai ministri e strappa i documenti per disprezzo o protesta.

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Il super europeo Mario Monti fra inusuali ottimismi e distrazioni

Senza voler togliere nulla, o più di tanto, alle tracce lasciate a Bruxelles da Romani Prodi, che ne guidò la Commissione esecutiva dal 1999 al 2004, due sono state davvero le nostre stelle nel firmamento dell’Unione Europea.

Prima è stata la volta di Mario Monti, commissario designato da più governi italiani, di diverso colore, particolarmente apprezzato dai tedeschi, anzi dalle tedesche. Che nei sondaggi lo avevano promosso a marito preferito per le loro figlie. Ed anche per questo forse, sotto sotto, chiamato nel 2011 al Quirinale da Giorgio Napolitano per interrompere anzitempo il quarto e ultimo governo di Silvio Berlusconi. Che gli passò allegramente a Palazzo Chigi la campanella del Consiglio dei Ministri prima di scoprire, denunciare e quant’altro -in verità, anche con qualche supporto autorevole negli Stati Uniti- di essere rimasto vittima di un mezzo colpo di Stato.  Salvo poi contribuire alla rielezione del presidente che di fatto lo avrebbe compiuto, o vi si sarebbe prestato, come preferite. Un presidente -va detto anche questo- che poi sarebbe rimasto deluso, a dir poco, dalla decisione di Monti, nominato senatore a vita per alti meriti proprio allo scopo di tenerlo al di sopra delle beghe politiche, di partecipare con proprie liste di candidati alle elezioni ordinarie del 2013.

Poi si è illuminata nel firmamento europeo la stella italiana di Mario Draghi, anche lui passato per questo per Palazzo Chigi, ma senza laticlavio per esaurimento dei posti. Una stella, quella di Draghi, ancora luminosa,  tanto che l’amico ed estimatore presidente francese Emmanuel Macron è impegnato neppure tanto dietro le quinte a spianargli per l’anno prossimo la strada della presidenza della nuova Commissione, o del nuovo Consiglio Europeo, se alla prima sarà confermata la tedesca Ursula von der Leyen: magari con la stessa maggioranza di centro sinistra dell’altra volta allargata ai conservatori di Giorgia Meloni: una specie di pentapartito italiano di una quarantina d’anni fa.

Pur escluso, come vedete, dal toto-Europa del 2024, l’ottantenne Monti è vigile. Oggi, per esempio, in un  editoriale del Corriere della Sera ha avvertito che il nuovo patto europeo di stabilità in cantiere, per quanto intestabile al commissario europeo e suo amico -credo- Paolo Gentiloni, non va. O non va abbastanza bene. E ciò non tanto per gli interessi contingenti italiani, che potrebbero anche guadagnarci qualcosa, ma per le sorti complessive dell’Unione, frenate un po’ dalla crisi sopraggiunta nella sua ex preferita Germania e un po’ dall’illusione che noi europei possiamo davvero contare nel mondo senza una comune politica estera e una altrettanto comune difesa. Meglio quindi ritardare ancora la riforma del patto, scritto in passato “con l’accetta”, e ricominciare le trattative daccapo, in combinazione fra la Commissione e il Parlamento europeo ormai in scadenza. Delle due l’una: Monti o è diventato ottimista o si è distratto, magari disturbato dalla luce di Draghi.

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