Il presepe di governo appena modificato con la bocciatura del Mes

         Alla faccia -scusatemi- della “mezza voce” con la quale, secondo il “retroscena” di Francesco Verderami sul Corriere della Sera, si starebbe riconoscendo nel governo “l’errore” compiuto  lasciando bocciare alla Camera dalla stessa maggioranza, soccorsa  paradossalmente dai grillini, il trattato del Mes modificato e sottoscritto nel 2021 dall’allora agonizzante secondo governo di Giuseppe Conte. A dissentire pubblicamente è stato addirittura il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che avrebbe preferito il contrario. E non si sa adesso, pur resistendo ai “consigli” -li chiama lui- delle opposizioni di dimettersi, se ce l’abbia più col proprio partito messo in riga sul fronte del no da Matteo Salvini o con la premier Giorgia Meloni e i suoi “fratelli d’Italia”.

         “Giorgetti contro il governo” ha titolato non arbitrariamente La Stampa, che ha rincarato con “un ministro sempre più solo”. O “commissariato” secondo Domani, il giornale col quale Carlo De Benedetti si sta consolando da qualche tempo della perdita di Repubblica inflittagli dai figli. Commissariato, poi, vi lascio immaginare con quanta perplessità, a dir poco, del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.  Che lo nominò l’anno scorso con tutti gli altri ministri propostigli dalla Meloni. E avrebbe ora il diritto di reclamare qualche chiarimento: si spera non nel messaggio televisivo di fine anno.

         Di fronte a questo presepe di governo, vista la stagione natalizia, ed evocando quello famoso della commedia di Eduardo De Filippo, non mancano tuttavia gli adoratori: non so se più per partito preso o per fede. “Spread giù, borsa su”, ha esultato su tutta la prima pagina Il Giornale ancora parzialmente della famiglia Berlusconi, cui deve essere apparsa esagerata la sostanziale protesta levatasi anche dal commissario europeo a Bruxelles, l’ex premier italiano Paolo Gentiloni, ricordando che i trattati sottoscritti si rispettano, non si bocciano nel momento di ratificarli in Parlamento, pur con tutto il rispetto dovutogli sul piano istituzionale.

         Poesia, questa del Giornale, rispetto alla prosa di Libero. Che, sempre su tutta la prima pagina, ha dato a Giorgetti e altri dissidenti o perplessi della maggioranza – in aggiunta al Pd e ai pochi altri che hanno votato contro la bocciatura del Mes- delle “vedove inconsolabili”, al femminile, o dei “cretini dell’apocalisse”, al maschile. Apocalisse mancata, secondo il già citato Giornale, per lo spread giù e la borsa su. Se poi la situazione dovesse cambiare, sino a capovolgersi, si potrà magari gridare contro qualche complotto finanziario pluto-giudaico-massonico di ricordo mussoliniano.

         Più lo si guarda questo presepe, ripeto, e meno si ha voglia di festeggiare e di sperare di trovare chissà che cosa di consolante o compensativo nei pacchi   sotto l’albero di Natale, quando sarà il momento di aprirli.

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Il mistero del giudizio di Sergio Mattarella sul ricorso al premierato

   Chissà se i critici del premierato, inteso come elezione diretta del presidentedel Consiglio, si spingeranno a considerare in pericolo pure l’abitudine ormai consolidata dei presidenti della Repubblica di rivolgersi agli italiani non solo attraverso i messaggi alle Camere, previsti dall’articolo 87 della Costituzione, ma anche direttamente la sera di San Silvestro, attraverso la televisione a reti unificate, per augurare il buon anno nuovo. Messaggio, questo, che si aggiunge ad altri cui pure i capi dello Stato ci hanno abituato rivolgendosi a platee più ristrette come gli ambasciatori accreditati in Italia o le cosiddette autorità.

         Il discorso pronunciato in quest’ultima occasione da Sergio Mattarella, ottavo della lunga serie cominciata nel 2015 col suo primo mandato succedendo a Giorgio Napolitano, si è forse prestato più del solito a diverse e persino opposte letture, persino su uno stesso giornale. Com’è accaduto sul Corriere della Sera con la cronaca di Monica Guerzoni e il commento di Marzio Breda. Una cronaca sensibile all’”angoscia come filo conduttore, come faro per illuminare le crisi del nostro tempo”, pur senza “perdere la via della speranza”. Che tuttavia è prevalsa nella valutazione di Breda – prima della sorpresa   sul Mes bocciato alla Camera- guardando alle “nuove responsabilità” che aspettano l’Italia nel 2024 con la presidenza di turno del G7, “foro di dibattito e di soluzioni “auspicate dal capo dello Stato. Che è sempre attento al quadro internazionale, ma ancor più da quando siamo maggiormente assediati dalle guerre, per esempio, in Ucraina e in Medio Oriente. Esse dimostrano peraltro come la pace non si debba mai dare per scontata, “così come -ha colto e sottolineato Monica Guerzoni- la libertà e la democrazia”, con tutto ciò che l’una e l’altra comportano, compreso “l’equilibrio fra i poteri”.

         Nella combinazione fra libertà, democrazia ed equilibrio dei poteri qualcuno ha avvertito, come in una caccia alle allusioni, la possibilità di scorgere una certa preoccupazione o contrarietà di Mattarella al premierato, pur avendo autorizzato la proposta del governo alle Camere. Beh, in questa interpretazione, e difesa implicita delle sue prerogative minacciate dalla riforma, non so se scorgere più malizia o semplice fantasia, maggiore di quella attribuita criticamente allo stesso Mattarella e ai suoi predecessori, specie Napolitano, nella soluzione di crisi di governo ricorrendo a tecnici come Mario Monti e Mario Draghi, pur di non sciogliere le Camere anticipatamente. Soluzioni che col premierato sarebbero proibite perché il capo dello Stato potrebbe al massimo rivolgersi per un altro e davvero ultimo governo della legislatura ad un parlamentare eletto nello stesso schieramento del presidente del Consiglio eventualmente dimessosi dopo essere stato mandato a Palazzo Chigi direttamente dai cittadini.

         Eppure tra i favorevoli al premierato, e  convinti che esso non comprometta i poteri del presidente della Repubblica, né indebolisca o  rovesci gli equilibri fra i poteri, ha voluto collocarsi persino Matteo Renzi. Che dopo avere perduto il referendum del 2016 sulla sua riforma costituzionale, ed essersi dimesso da presidente del Consiglio per rimanere solo segretario del Pd, si vide rifiutare da Mattarella, da lui praticamente spinto al Quirinale l’anno prima, la richiesta di elezioni anticipate. Un rifiuto dal quale derivarono prima la formazione del governo di Paolo Gentiloni, trasferito dalla Farnesina a Palazzo Chigi, e poi la sconfitta di Renzi anche nelle elezioni ordinarie del 2018, praticamente vinte dai grillini. Se c’era e c’è uno danneggiato dalle larghe prerogative assuntesi dal presidente della Repubblica, più che assegnategli esplicitamente dalla Costituzione, questi era ed è proprio Renzi, che pure -ripeto- pensa di non vedere compromesse le libertà, diciamo così, che i presidenti si sono presi nella gestione delle crisi di governo.  

         Per sapere cosa ci sia davvero dietro il silenzio o la discrezione impostasi da Mattarella sul destino dei suoi poteri con la riforma bisognerà attenderne l’eventuale approvazione. Se davvero il presidente della Repubblica dovesse sentire diminuite o compromesse le sue prerogative, dovrebbe essere quanto meno tentato dall’idea di non concludere alla scadenza ordinaria il suo secondo mandato, accelerando la successione. In caso contrario rimarrebbe tranquillo e sereno al suo posto, come i promotori della riforma hanno auspicato o -direbbe qualche malizioso- finto di auspicare.

Pubblicato sul Dubbio

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Fra le macerie politiche della bocciatura del Mes votata alla Camera

         Con quella benedetta sigla -MES- che gli è stata applicata il Meccanismo Europeo di Stabilità, o “fondo salva-Stati” da altri chiamato “fondo salva-banche”, specialmente quelle tedesche, la bocciatura riservatagli a Montecitorio si è prestata a vignette e titoli divertenti, nonostante la serietà dell’accaduto e i danni che potrebbero derivarne all’Italia. Compreso “il cappio” cui verbalmente Giuseppe Conte ha appeso la Meloni parlando alla Camera e guadagnandosi il titolo maggiore della prima pagina del solito, consenziente Fatto quotidiano.

         La vignetta di Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera ci ha proposto una messa di Natale celebrata, sotto un’immagine madonnara di Giorgia Meloni, dal leder leghista Matteo Salvini assistito alla sua destra dal meloniano Giovanni Donzelli e alla sua sinistra dal proprio collega di partito, e ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Che ha dovuto subire il no del suo superiore politico alla ratifica avvertendo che la bocciatura potrà costarci cara, come ha avvertito anche un commento della Stampa.

         Nella Lega tuttavia c’è chi contesta a Salvini l’intestazione della bocciatura come una vittoria personale. E’ il senatore Claudio Borghi, che si è guadagnato anche lui un titolo del Fatto quotidiano, a caratteri naturalmente inferiori a quelli dovuti all’ex premier. Che pure -va detto- è stato smentito  nelle sue previsioni, avendo nei giorni scorsi pregustato con un sì della Meloni l’ennesima giravolta della destra da sventolare nelle campagne elettorali per i voti programmati nei prossimi mesi, sino a quello di giugno per il rinnovo del Parlamento europeo.

         Alla Mes…sa natalizia di Salvini sul Corriere della Sera si sono accompagnati, sempre grazie ai giochi di parole consentiti da quella sigla, la “messinscena” del Riformista di Matteo Renzi e il “Mespacco” dell’Identità di Tommaso Cierno. Tutti a divertirsi, beati loro, per la obiettiva disavventura politica del governo e della sua maggioranza, nessuna delle cui componenti ha votato per la ratifica essendosi divise fra il voto contrario dei leghisti e dei fratelli d’Italia e l’astensione dei forzisti, refrattari a votare sì come il Pd della Schlein.

         Nonostante questo spettacolo, pur di aiutarlo ad uscire “dall’angolo”, il senatore a vita ed ex presidente del Consiglio Mario Monti ha voluto vedere il governo estraneo alla mancata ratifica proposta e votata dai deputati e gli ha perciò proposto o riproposto, in un editoriale del Corriere della Sera, di presentare al Senato un disegno di legge di ratifica, a condizione che per accedere al fondo salva-Stati, o banche, considerato troppo costoso, l’Italia ottenga l’autorizzazione parlamentare a maggioranza qualificata. Così si rimedierebbe a quello che la Repubblica ha definito “lo strappo con l’Europa” consumato dalla Camera riesumando -ahimè- come improbabili precedenti i ben diversi strappi del Pci di Enrico Berlinguer con l’allora Unione Sovietica fra il 1976 e il 1981.

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La rivincita della Camera sul Senato con la bocciatura clamorosa del Mes

   C’è solo l’imbarazzo della scelta fra i vari aspetti, tutti paradossali, della clamorosa bocciatura rimediata dal Mes, o fondo europeo salva-Stati, alla Camera fra l’esplosione sia della maggioranza sia delle opposizioni. Aspetti di carattere politico, continentale, istituzionale e parlamentare in questa stagione peraltro di fine anno, caratterizzata dalla precedenza dovuta alla legge di bilancio da approvare entro il 31 dicembre per evitare il ricorso al cosiddetto, svilente esercizio provvisorio.

         Sopraffatta dal Senato proprio sul versante della legge di bilancio, e poi anche nel percorso della riforma costituzionale del premierato, definita dalla premier “la madre di tutte le riforme”, la Camera si è presa una bella rivincita intestandosi la bocciatura -con 144 voti contro 72 e 44 astenuti- del Mes. Che sembrava invece destinato alla ratifica -nella logica del cosiddetto “pacchetto”- dopo l’accordo fra i ministri dell’Economia sul nuovo patto di stabilità europeo. Da cui il ministro Giancarlo Giorgetti, pur ultimo a intervenire nel vertice da remoto, si era ieri vantato, o aveva comunque assicurato che l’Italia avesse ottenuto “molto”. O abbastanza, in particolare, in termini di gradualità, sino al 2027, nel percorso di rientro dal debito stando attenti a non far prevalere la logica dell’austerità su quella ancora più necessaria dello sviluppo. Senza il quale non vi sono parametri o scadenze che possano essere rispettati nell’Unione da un paese come l’Italia.

         Evidentemente quel “molto” avvertito o garantito da Giorgetti, e condiviso per telefono da una premier a letto per l’influenza stagionale, non deve essere apparso tale al partito dello stesso Giorgetti, e al leader Matteo Salvini. Che si è vantato di avere fatto votare contro il Mes i deputati del Carroccio coerentemente con la posizione negativa assunta negli anni passati. E per coerenza hanno votato contro anche i “fratelli d’Italia” della pur premier in carica e acquietata . Che potrebbe, o addirittura dovrebbe sentirsi smentita o quanto meno spiazzata come Giorgetti, dai deputati del suo partito. Dei forzisti astenuti non parlo perché sarebbe come sparare su un’ambulanza della Croce Rossa, essendo il loro partito vedovo del fondatore Silvio Berlusconi da più di sei mesi.

         Non parlo neppure della incoerenza di Conte, che ha votato e fatto votare dai suoi contro la ratifica dopo avere chiesto un giurì d’onore contro la Meoni, che lo aveva accusato pochi giorni fa di avere autorizzato la firma del trattato modificato del Mes nel 2021 avvolto nelle “tenebre” di una crisi di governo non giù aperta, come sostenuto appunto dalla premier, ma ancora da aprire, comunque in embrione.

         Gli unici coerenti nel sì al Mes sono stati -va riconosciuto- i deputati del Pd e dell’ex terzo polo renzian-calendiano. Ma si tratta di una minoranza, di un campo non largo come immaginato da Elly Schlein, bensì strettissimo.

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La solita caccia politica alle allusioni negli auguri di Mattarella alle autorità

         Anche questa fine d’anno, a una decina di giorni dall’arrivo del 2024, navighiamo in politica tra un percorso parlamentare strozzato della legge di bilancio e litigi o polemiche su fatti e parole. Fatti, per esempio, come il nuovo patto europeo di stabilità concordato fra i ministri dell’Economia dei paesi dell’Unione, di natura inevitabilmente compromissoria. Dove il governo e la maggioranza hanno visto il “molto” ottenuto dall’Italia, come ha detto il ministro Giancarlo Giorgetti, e Giuseppe Conte invece, per l’opposizione grillina, “la resa” -titolo anche di Repubblica e del Fatto Quotidiano– al solito asse preferenziale franco-tedesco. Che avrebbe concesso all’Italia, sulla strada del rientro dal debito pubblico, una maggiore gradualità sino al 2027. Di cui sarebbe incerta la sufficienza ad attutire il rischio di un’austerità prevalente sullo sviluppo.  

         Tra i fatti potremmo inserire anche il discorso di auguri di fine anno alle autorità -o ex- dello Stato appena pronunciato dal presidente della Repubblica.  Che ha indotto partiti, opinionisti, leader a sbizzarrirsi  nella solita caccia alle allusioni, o processo alle intenzioni, per tirare dalla loro parte parole persino ovvie di Sergio Mattarella, come il monito -riproposto nel titolo di prima pagina del Corriere della Sera- a non dare “nulla per scontato: la pace, così come libertà e democrazia”. Una caccia alle allusioni messa forse nel conto dallo stesso Mattarella lamentando “il mero confronto fra propagande” cui si riduce troppo spesso quello fra i partiti, peraltro in perenne campagna elettorale. Com’è quella praticamente in corso per alcuni appuntamenti regionali e comunali da febbraio in poi, sino al voto generale di giugno per il rinnovo del Parlamento europeo.

         Che la pace a livello internazionale non sia scontata lo dimostrano purtroppo le guerre in corso, in una delle quali -quella in Ucraina- l’Italia è coinvolta con gli aiuti a Kiev appena confermati anche per il 2024. Ma pure in Medio Oriente siamo chiamati, non solo con la diplomazia, a contenerne gli effetti, a dir poco.

         Che la libertà e la democrazia siano a rischio in Italia lo sostengono le opposizioni mobilitate, per esempio, contro la riforma costituzionale per l’elezione diretta del presidente del Consiglio che lo stesso Mattarella ha autorizzato il governo a proporre alle Camere con un disegno di legge dal percorso né breve né facile. Proprio il ruolo del presidente della Repubblica –secondo le opposizioni, eccetto Renzi- sarebbe compromesso da questa riforma, o ricondotto ai suoi veri o presunti limiti originari, come ha detto recentemente il presidente del Senato Ignazio La Russa incorrendo in critiche e attacchi ch’egli ha inteso contestare da ospite al Quirinale, ieri, riconoscendo pubblicamente il “meritorio” svolgimento del mandato del capo dello Stato in carica. E Mattarella ha ringraziato, come per chiudere -penso- le polemiche, specie nei loro aspetti strumentali. Ma dubito, francamente, che cesseranno.

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Guido Crosetto, ministro della Difesa…della rappresentanza politica

         I ministri della Difesa, come anche degli Esteri, hanno molto da fare in questa era di guerra mondiale a pezzi, come la chiama il Papa: pezzi che coinvolgono anche l’Italia, impegnata a sostenere l’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin o a contenere la guerra alla quale gli israeliani sono costretti non dai palestinesi ma dal terrorismo che pretende di rappresentarli. E ne compromette invece le case, le scuole, gli ospedali, le chiese sotto le quali ha costruito postazioni belliche contro il diritto degli ebrei alla vita.

         Il ministro tedesco Boris Pistorius proprio in questi giorni, spiegando le ragioni del sostegno all’Ucraina, ha condiviso e rilanciato il timore, la convinzione e quant’altro degli esperti e dei servizi segreti del suo e di altri paesi che una vittoria di Putin, magari favorita dalla “stanchezza” avvertita in Occidente per un conflitto che sta durando oltre le previsioni, sia destinata a incoraggiare il Cremlino a muoversi poi anche contro paesi europei appartenenti alla Nato. Che, come l’Ucraina, verrebbero aggrediti col pretesto di difendere le minoranze di lingua, tradizioni e simpatie russe. Un timore, una convinzione e quant’altro -ripeto- che mi sembra condiviso in Italia anche o a cominciare dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella per il modo in cui parla dell’aggressione all’Ucraina ogni volta che gliene offre l’occasione la sua agenda fitta di incontri e udienze d’epilogo di questo tormentatissimo 2023, e di vigilia del 2024.

         Diversamente dal suo collega tedesco e da altri colleghi d’Europa e, più in generale, d’Occidente il ministro italiano Guido Crosetto si trova nell’imbarazzata -credo- e imbarazzante condizione di dovere estendere il suo concetto e ruolo di Difesa, con la maiuscola, a settori non militari. Ieri alla Camera, parlando in aula accanto al guardasigilli Carlo Nordio, egli non ha ripetuto la formula della “opposizione giudiziaria” usata il mese scorso in una intervista al Corriere della Sera che le opposizioni politiche non gli perdonano -e ripresa oggi da Nordio in una intervista al Foglio-  ma ha ribadito con chiarezza che in Italia occorre difendere “la rappresentanza” democratica costituita dal Parlamento -e con essa il primato della politica- da una parte della magistratura che non si muove neppure in modo carbonaro, ma pubblicamente, alla luce del sole. Lo fa in congressi o riunioni di corrente o di area criticando leggi approvate dalla maggioranza, non a caso disattese clamorosamente in qualche tribunale dove giudici ordinari si sostituiscono a quelli costituzionali, o altre in cantiere. Anche quando esse sono destinate a trascendere dai tribunali riguardando la natura oggi parlamentare della Repubblica e domani forse di altro tipo ugualmente democratico, come il presidenzialismo, il semi-presidenzialismo, il premierato e chissà cos’altro potrà produrre la fantasia di un Parlamento liberamente eletto cui, di legislatura in legislatura, il popolo delega la sua sovranità.

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Le dimensioni elettorali democristiane della destra di Giorgia Meloni

   Sono passati ormai 30 anni dalla morte della Dc, di cui francamente non considero neppure appendici il Partito popolare riesumato dal buon Mino Martinazzoli e nemmeno quel che di democristiano è stato da alcuni visto o addirittura vissuto prima nella Margherita e poi nel Pd. O almeno in quello guidato per ultimo da Enrico Letta, non sapendo ancora come classificare, francamente, quello di Elly Schlein. Da cui sono usciti non a caso alcun ex o post-democristiani nella sostanziale indifferenza di una giovane segretaria proveniente del resto da tutt’altra storia. E anche anagraficamente incapace -perciò senza colpa- di sentire, capire e quant’altro cosa fosse stata la Dc di Alcide De Gasperi, di Amintore Fanfani , di Aldo Moro, di Ciriaco De Mita, per fermarmi a quelli citati da Marco Follini sulla Stampa in un acuto, sofferto articolo di recensione delle “691 pagine fitte di appunti e di note di tre studiosi di vaglia” come Guido Formigoni, Paolo Pombeni e Giorgio Vecchio “sul cinquantennio democristiano”: pagine fresche di stampa per le edizioni del Mulino.

         De Gasperi, Fanfani Moro, De Mita  sono stati citati da Follini anche a costo di fare un torto a uomini come Guido Gonella, Paolo Emilio Taviani, Mario Scelba, Antonio Segni, Mariano Rumor, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani, per dimostrare con la loro storia che “la Dc non ebbe mai un capo”, fra le virgolette. Essa trattò anche loro “in modi fin troppo ruvidi”, con De Gasperi “bistrattato dai più giovani”, Fanfani e Moro “ricondotti tutti e due all’ordine doroteo che avevano cercato di scalfire” e De Mita “forlanizzato dopo i suoi primi anni rampanti” che credo avessero suggestionato un po’ anche Follini. Ma quella di non avere mai avuto un capo, sempre fra virgolette, fu una delle ragioni, se non la principale, della lunga vita dello scudo crociato, dove lavoravano assiduamente per il partito lontano dai riflettori in tantissimi, a livello locale e nazionale, ricchi solo delle loro competenze e della loro generosa militanza.

         Non dite, per favore, a Follini e neppure a me, modestissimo e anziano cronista politico, che a chiudere quella cinquantennale esperienza fu Tangentopoli. “Mancò alla Dc degli ultimi anni- ha scritto Follini- una prospettiva. Dalla fine di Moro in poi si procedette alla cieca, senza un disegno. Se il compito che Moro aveva dato a se stesso e al suo partito fu quello della “democrazia compiuta”, dello sblocco del sistema, quell’obiettivo sembrò svanire all’orizzonte, a tutto vantaggio di una quotidianità che strideva con i mutamenti del Paese”. Una quotidianità- aggiungo io- che durò una quindicina d’anni non tutti da buttar via, con l’inflazione riportata sotto le due cifre, solo grazie alla ritrovata alleanza con i socialisti di Bettino Craxi, sottrattisi alla subalternità ai comunisti cui li aveva ridotti Francesco De Martino.

         Paradossalmente di democristiano adesso sopravvive solo “la dimensione” – come l’ha chiamata Flavia Perina sulla Stampa scrivendo di Atreju- del partito della Meloni. Una dimensione che ha impensierito anche Follini scrivendo ancora prima di lei, sempre sulla Stampa, del “Partito-Paese” che fu lo scudo crociato ora “fagocitato dalla destra”.

         Nel condividere con Follini i danni procurati alla Dc dal sequestro e dall’assassinio di Moro, individuato dai brigatisti rossi come l’uomo chiave del suo partito e dell’intero sistema politico italiano, vi confesso di essere rimasto disorientato  leggendo -peraltro nello stesso giorno- su Repubblica il racconto degli “amici improbabili” che sono diventati, al termine di un lungo percorso di “giustizia riparativa”, Agnese Moro, la terzogenita dello statista democristiano ucciso nel 1978, e Franco Bonisoli, partecipe del commando brigatista che lo sequestrò in via Fani, a poca distanza da casa, fra il sangue della scorta decimata in quella che da parte di una stessa terrorista fu definita “una mattanza”. Alla quale seguì con una sinistra coerenza dopo 55 giorni l’assassinio dell’ostaggio, cui i terroristi spararono attorno al cuore perché -ha accertato l’ultima commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Giuseppe Fioroni-  l’agonia fosse più lenta e dolorosa.

         “Amici improbabili”, ripeto col titolo di Repubblica non so dirvi francamente se con più ammirazione cristiana o sgomento per tutto ciò che quell’orrenda, oscena tragedia rappresentò per la democrazia italiana, oltre che per il povero, incolpevole Moro e la sua famiglia.

Pubblicato sul Dubbio

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Il ritorno di Conte al disegno originario di Grillo di assoggettare il Pd

         In assenza di Rocco Casalino e delle sue telefonate spavalde, come quella che preannunciò il terzo governo di Giuseppe Conte accelerando la caduta del secondo e ultimo, dobbiamo accontentarci di Marco Travaglio per penetrare tra le nubi sparse sulla politica italiana dall’ex premier grillino. Che si è precipitato ieri nel vuoto della Camera, e di un improvviso rinvio dell’incontro usuale di fine anno del presidente dell’assemblea con i giornalisti, per una conferenza stampa da artiglieria.

         Anche se persino il Corriere della Sera ha scambiato per il principale bersaglio di Conte la premier Giorgia Meloni, che meriterebbe la condanna di un giurì d’onore a Montecitorio per avere accusato lo stesso Conte di avere autorizzato “nelle tenebre” l’adesione al trattato modificato del Mes, o fondo salva-Stati europei, il direttore del Fatto Quotidiano ha spiegato in fondo al suo editoriale di giornata che era il Pd della Schlein l’obiettivo grosso dell’ex premier. E c’è da credergli per i rapporti un po’ simbiotici che corrono fra i due.

         “Il Pd -ha raccontato o spiegato Travaglio- è impegnatissimo in un nuovo gioco di società, ancor più avvincente del Perdi-elezioni e dell’Ammazza-segretario: il Fanta-federatore, seguitissimo fra gli editorialisti-onanisti di Twitter e dei giornaloni, che purtroppo non hanno ancora spiegato chi dovrebbe federare cosa e perché. L’ultima mano si è disputata alla presenza (si fa per dire) di Prodi, Gentiloni e Letta: praticamente una seduta spiritica”. Una come quella -mi permetto di ricordare- alla quale Prodi, sempre lui, partecipò con amici durante il sequestro di Aldo Moro per raccogliere la raccomandazione del fantasma di Giorgio La Pira di cercare il bandolo della matassa del sequestro del presidente della Dc nella parola “Gradoli”. Ma anziché andare in via Gradoli, a Roma, dove in effetti si trovava il covo assegnato dalle brigate rosse al capo dell’operazione terroristica, Mario Moretti, polizia, carabinieri, guardie forestali, pompieri furono inutilmente mandati dal Viminale in provincia di Viterbo, dove si trova il Comune di Gradoli.

         A Prodi insomma non è passata la voglia delle sedute spiritiche. Stavolta si è lanciato alla ricerca del federatore delle opposizioni a Meloni individuandolo, pur con tutta la prudenza di un vecchio democristiano, in una donna: la segretaria del Pd. Che al massimo, secondo Conte, potrebbe cercare di federare “le correnti” del proprio partito, non certo un’alleanza comprensiva di grillini sottoposti al Nazareno.

    I grillini, d’altronde, furono politicamente concepiti nell’estate del 2009 dal comico genovese iscrivendosi ad una sezione del Pd di Arzachena per scalare la segreteria abbandonata da Walter Veltroni. Ed è a quel progetto che Conte è infine tornato, o rimasto fedele. Un po’ di segretari del Pd succeduti a Veltroni li ha già fatti fuori: Nicola Zingaretti ed Enrico Letta, per esempio. La terza potrebbe essere Elly Schlein.

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Lo scontro a distanza con Giorgia Meloni perduto da Elly Schlein

   Fra le “scintille” viste dal Corriere della Sera, l’”assalto” alla Schlein gridato da Repubblica, l’”alta tensione” avvertita dalla Stampa, lo “scontro aperto” preferito dal Messaggero, vi è stata una gara fra i cosiddetti giornaloni, casuale o non, a coinvolgere la segretaria del Pd come controparte nella festa politica e mediatica realizzata da Giorgia Meloni col nome di Atreju all’ombra di Castel Sant’Angelo.  

   Nel raduno di quest’anno del partito della destra italiana Flavia Perina sulla Stampa, con un certo compiacimento che ha tradito la sua passata esperienza di direttrice del Secolo d’Italia, ha peraltro ritrovato non a torto “le dimensioni democristiane”. Di una Dc di cui ricorrono in questi giorni i trent’anni dalla chiusura disposta da Mino Martinazzoli riesumando la denominazione di “Partito Popolare”: quello dei “liberi e forti” di don Luigi Sturzo.

   A parte il discorso, pur non irrilevante, sulle “dimensioni” -ripeto- del partito che la Meloni ha saputo portare in testa nella graduatoria elettorale e politica italiana,  in realtà non vi è stato confronto tra la festa della premier, alla quale la segretaria del Pd si è sottratta con orgoglioso ma forse sfortunato rifiuto, e quella che la Schlein ha voluto contrapporle riunendo -come ha scritto qualche cronista- “la vecchia guardia” del Pd. Che è stata comprensiva, per la prima volta da ex segretario del partito, di Enrico Letta ma guidata, non foss’altro per ragioni anagrafiche, da Romano Prodi. Il quale rimane nella storia della cosiddetta seconda Repubblica l’unico riuscito a battere elettoralmente per due volte il centrodestra realizzato nel 1994 da Silvio Berlusconi.

   E’ stato proprio Prodi in questo raduno di reduci a investire la Schlein della qualifica, funzione e quant’altro di potenziale “federatrice” di quello che con lui furono “l’Ulivo” prima e “l’Unione” poi,  e con lei dovrebbe essere il famoso “campo largo” comprensivo di ciò che resta del movimento grillino sotto la guida di Giuseppe Conte. Ma lo stesso Prodi ha depotenziato questa investitura ricordando “i sei milioni di voti perduti” dal Pd per strada in pochi anni e le resistenze di Conte a lasciarsi federare dalla Schlein. Che gli sta elettoralmente davanti di così pochi punti o addirittura decimali da considerarne realistico il sorpasso. Nel cui caso figuriamoci se l’avvocato di Volturara Appula, terra una volta di avvoltoi, sarà mai tentato dall’idea di fare il numero due.

   La Meloni invece ha concluso la sua festa con la plastica conferma fotografica della propria leadership di coalizione, al centro fra i suoi due vice presidenti del Consiglio, il leghista Matteo Salvini e il forzista Antonio Tajani, per quanto rappresentati un giorno sì e l’altro pure da retroscenisti e simili come insofferenti, a dir poco. Le foto, si sa, servono anche a comporre album. E quello della Meloni ornai è abbastanza folto, anche a quel livello internazionale da lei di recente rimproverato infelicemente al predecessore Mario Draghi.

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L’isola felice del garantismo mediatico oltre le Mura del Vaticano

   A noi, poveri e incalliti garantisti – fortunatamente scampati alle grinfie di Pier Carmillo Davigo quando era ancora in servizio nella magistratura italiana e sminuiva le poche assoluzioni che decideva, o cui contribuiva, insultando praticamente gli interessati che l’avevano semplicemente o dannatamente fatta franca- non resta ormai che chiedere asilo politico oltre  le Mura, alla  Città del Vaticano. E’ inutile che aspettiamo ancora le riforme della giustizia di tipo garantistico, appunto, promesseci da tanto tempo, neppure quella del guardasigilli Carlo Nordio finito -credo, a sua insaputa o sorpresa- in un governo e in una maggioranza dalle priorità variabili. Il cosiddetto premierato, per quanto contestato, ha superato in velocità di percorso parlamentare, per esempio, la separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici.

         Oltre le Mura può accadere, come abbiamo appena visto, che un cardinale venga condannato per la prima volta nella storia dal tribunale di Sua Santità per peculato e truffa a 5 anni e mezzo di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici senza finire sulla prima pagina dell’unico giornale quotidiano che si stampi in Vaticano, il mitico Osservatore Romano. Dove potrà magari contare di vedere pubblicata invece la notizia della sentenza riparatoria d’appello, della quale sono convinti i suoi avvocati difensori, amici ed estimatori. Che potranno nel frattempo continuare a chiamarlo col suo doppio nome di Giovanni Angelo Becciu. Quell’Angelo, vivaddio, non glielo può cancellare dall’anagrafe non dico Giuseppe Pignatone, l’ex capo della Procura di Roma che presiede il tribunale della Santa, anzi Santissima Sede, ma neppure il Papa in persona. Che può cambiare il suo nome quando viene eletto dai cardinali con l‘aiuto dello Spirito Santo, ma non quello degli altri.

         Non ha invece ritenuto di attenersi al santissimo garantismo, o alla santissima discrezione  dell’Osservatore Romano il laico ed esterno Avvenire, quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, cioè dei vescovi. Che, pur non facendone misericordiosamente il titolo di apertura, dedicato  invece ai “prigionieri della guerra” di Gaza, senza tuttavia dimenticare anche quelli in Ucraina, ha sistemato a metà della prima pagina la notizia degli “oltre cinque anni” comminati al cardinale Becciu e dei 37 distribuiti fra gli altri otto imputati condannati, essendone stato assolto solo uno, peraltro già segretario dell’Eminenza. Il cardinale simpaticamente sardo -ne sono sicuro- pregherà anche per i mei colleghi di Avvenire perché non si dimentichino di riservare uguale spazio alla eventuale, augurabile, per lui, sentenza di assoluzione in un processo d’appello auspicabilmente più semplice e rapido di quello di primo grado. Che ha avuto bisogno di ben 86 udienze, quasi da tribunale italiano.

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