Giancarlo Giorgetti chiude il caso Mes, da accusato ad accusatore

   Per niente mascherato, o cereo, come era stato immaginato ieri sulla prima pagina del Corriere della Sera da Emilio Giannelli pensando al suo prossimo incontro a Bruxelles con Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione europea presuntivamente delusa dalla bocciatura parlamentare del Mes in Italia, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti si è presentato agguerritissimo alla Commissione Bilancio della Camera. Dove ha chiudere il caso non da imputato ma da accusatore. Anzi, il falso caso, perché il problema vero dell’’Italia non è il tanto contrastato Mes ma quel debito pubblico che non riusciamo neppure più a declinare numericamente, tanto ci sembra grande e irrealistico. Un debito -ha avvertito il ministro guardando in faccia le opposizioni ma pensando anche a qualche collega e amico di governo e partito-  alimentato dagli allucinogeni di cui tutti  hanno fatto uso in passato, sino all’assuefazione.

         Il Mes, con le clausole iugulatorie temute dai suoi critici per salvare non solo gli Stati dell’Unione a rischio di default ma anche le banche, come avrebbe voluto il trattato mozzato dalla mancata ratifica italiana, non è la causa del nostro debito ma in qualche modo l’effetto. E lui, Giorgetti, pur avendo preferito la ratifica, non l’ha anticipata o promessa a nessuno dei suoi interlocutori a Bruxelles e dintorni, avvertiti anzi della prevedibilissima bocciatura. Ora non resta che incrociare le dita e aspettare che cosa ne verrà fuori in Europa, probabilmente più dopo che prima delle elezioni di giugno.

   C’è da incrociare le dita e vedere sul terreno pratico, non continuando a prevedere imbottiti di allucinogeni, l’impatto del nuovo patto di stabilità appena concordato nell’Unione per sostituirlo al vecchio sospeso durante l’epidemia del Covid. Che era pieno di clausole, parametri e simili più “stupidi” nella loro rigidità -parola di Romano Podi quando ancora presiedeva la Commissione di Bruxelles- che intelligentemente flessibili.

         Di questo nuovo patto, contrariamente a ciò che le opposizioni gli hanno attribuito per continuare a reclamarne le dimissioni, Giorgetti si è assunta la piena responsabilità, avendovi aderito nella convinzione che di meglio e di più non fosse stato possibile ottenere. Altro che lo “schiaffo” franco-tedesco visto e ascoltato, fra gli altri, da Giuseppe Conte. Che, come un trapezista al circo, dall’opposizione si è tuttavia unito ai due maggiori partiti di governo nella ritorsiva bocciatura del Mes, nella logica dello schiaffo che tira l’altro. Sembra l’asilo di Mariuccia come lo intendono a Milano, cioè sciocco e puerile, ma è quello dal quale esce ed entra con passo sempre spedito l’ex presidente grillino del Consiglio. Di cui peraltro si è appena scoperto un reddito da soccorso come avvocato che spiega perché l’anno scorso egli ha deciso di farsi eleggere alla Camera per quello che fortunatamente per lui è solo il primo mandato, cui un altro potrebbe seguire senza strappi alle regole grilline.

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La dieta elettorale della Meloni che sognano dentro Forza Italia

   Reduce da uno scontro persino scurrile avuto nell’aula del Senato con Matteo Renzi, che aveva accusato Forza Italia di avere “tradito” la buonanima del fondatore Silvio Berlusconi avendo a suo modo partecipato, con un voto di astensione, alla bocciatura parlamentare del cosiddetto fondo europeo salva-Stati., o Mes, il capogruppo forzista Maurizio Gasparri ha un po’ abbassato la guardia in una intervista al Foglio. Che con una certa generosità, in memoria dei bei tempi in cui Berlusconi lo aiutò a nascere e crescere, non bastando al giornale di Giuliano Ferrara il finanziamento pubblico assicuratogli da un movimento politico improvvisato apposta da Marcello Pera, ha tenuto basso -diciamo così- il colloquio col cuore in mano di Gasparri con Marianna Rizzini, senza richiamo in prima e confinato a pagina 4. Tutto sotto un titolo sul “paradosso” che Meloni ha finito per rappresentare o diventare nella coalizione di governo inventata nel 1994 dall’allora Cavaliere sdoganando la destra di Gianfranco Fini. Dove una Meloni ancora diciassettenne non poteva neppure immaginare di poter diventare vice presidente della Camera a 29 anni, ministra a 31 e presidente del Consiglio a 45 e mezzo.

         Gasparri ha trovato “naturale” la previsione di “un successo alle europee” di giugno “per il leader di governo in carica che abbia già consensi alti”, come il 28,5 per cento appena assegnato ai “fratelli d’Italia” da Alessandra Ghisleri collocando la Lega al 9,3 e Forza Italia al 7,5. La “dimensione democristiana” tenuta per tanto tempo dai forzisti di Berlusconi è passata ormai al partito della Meloni dopo essere passata brevemente, nelle europee del 2019, per le mani di Matteo Salvini. Che la dissipò in una intempestiva crisi di governo promossa per provocare le elezioni anticipate e conclusasi col Pd di Nicola Zingaretti salito sulla carrozza di Giuseppe Conte al posto dello stesso Salvini.

         “Tuttavia” -ha ammesso Gasparri- la premier “paradossalmente potrebbe avere qualche problema da eccesso di successo, per quanto riguarda gli equilibri della coalizione” governativa. E ha “spiegato” così il paradosso: “Fino al 27, 28, 30 per cento” della destra post-missina “non ci sarebbero scossoni”. “Diverso è”, non sarebbe, se Meloni sale ancora e gli alleati, noi compresi scendono di molto”. E si sentono, non si sentirebbero, minacciati da elezioni anticipate -immagino- dalle quali o l’uno o l’altro dei due partiti alleati della premier può rischiare di risultare numericamente ininfluente.

         Il ragionamento quasi fra sé e sé di Gasparri è così continuato: “Certo, non si può dire a nessuno: frena la tua scalata. E proprio per questo noi, come Forza Italia, abbiamo davanti una sfida: guadagnare voti”, e non continuare a perderne, sia pure un po’ alla volta com’è accaduto nel già ricordato, ultimo sondaggio della Ghisleri -forse neppure noto a Gasparri mentre si confidava al Foglio–  col -0,2 per cento in un mese contro il +0,3 per cento della Lega.

         Alla vigilia peraltro allungatasi della conferenza stampa di fine anno,  già rinviata nella scorsa settimana dalla Meloni per una fastidiosa influenza stagionale che l’ha allontanata anche dal Quirinale per gli auguri del e al capo dello Stato, quella di Gasparri potrebbe persino apparire una richiesta di soccorso alla premier. Perché pensi, nelle risposte a giornalisti, ma anche nell’intervento introduttivo, più agli alleati che a se stessa. Come se, peraltro, potesse bastare una battuta o un riguardo a ridurre le difficoltà quasi da disperazione di Antonio Tajani, che s’intravvedono fra le parole di Gasparri al Foglio, di fermare le perdite e cominciare finalmente a guadagnare voti. Ma guadagnarne peraltro a scapito diretto della premier, e non solo cercando di ridurre il bacino sempre più allarmante dell’astensionismo citato non a sproposito anche da Sergio Mattarella nell’incontro con le cosiddette alte autorità dello Stato, presenti e passate. Un Mattarella che immagino impensierito pure lui dall’ipotesi di una maggioranza in tensione ancora più forte e visibile e di un’opposizione -ottimisticamente al singolare- ancora più lontana di prima dall’obbiettivo di una competitiva federazione di tipo ulivistico auspicata di recente -niente di più- dall’ex premier Romano Prodi. Che si muove sulle parole come sulle uova, stando attento a non schiacciarle, consapevole com’è che non sarebbero buone neppure per una frittata.

         Di Tajani ho appena finito di consultare- per una vecchia abitudine di immaginare il mio articolo con una foto- l’album offerto da quell’archivio elettronico cui si può facilmente accedere col computer, alla faccia della vecchia macchina da scrivere che ci teneva incollati a vedere la carta dattiloscritta. Sono rimasto imbarazzato nella scelta fra un Tajani con le mani giunte, in attesa del congresso del suo partito a febbraio e delle consultazioni elettorali in programma sino a giugno, se gliele lasceranno gestire, come tutto lascia ragionevolmente prevedere, e un Tajani col guardo sospeso in alto, non so se più rassegnato o fiducioso. Intanto gli auguro sinceramente buon anno, pensando anche ai suoi difficili compiti governativi di ministro degli Esteri, assediato da guerre combattute nel senso più drammatico e autentico. 

Pubblicato sul Dubbio 

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