L’isola felice del garantismo mediatico oltre le Mura del Vaticano

   A noi, poveri e incalliti garantisti – fortunatamente scampati alle grinfie di Pier Carmillo Davigo quando era ancora in servizio nella magistratura italiana e sminuiva le poche assoluzioni che decideva, o cui contribuiva, insultando praticamente gli interessati che l’avevano semplicemente o dannatamente fatta franca- non resta ormai che chiedere asilo politico oltre  le Mura, alla  Città del Vaticano. E’ inutile che aspettiamo ancora le riforme della giustizia di tipo garantistico, appunto, promesseci da tanto tempo, neppure quella del guardasigilli Carlo Nordio finito -credo, a sua insaputa o sorpresa- in un governo e in una maggioranza dalle priorità variabili. Il cosiddetto premierato, per quanto contestato, ha superato in velocità di percorso parlamentare, per esempio, la separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici.

         Oltre le Mura può accadere, come abbiamo appena visto, che un cardinale venga condannato per la prima volta nella storia dal tribunale di Sua Santità per peculato e truffa a 5 anni e mezzo di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici senza finire sulla prima pagina dell’unico giornale quotidiano che si stampi in Vaticano, il mitico Osservatore Romano. Dove potrà magari contare di vedere pubblicata invece la notizia della sentenza riparatoria d’appello, della quale sono convinti i suoi avvocati difensori, amici ed estimatori. Che potranno nel frattempo continuare a chiamarlo col suo doppio nome di Giovanni Angelo Becciu. Quell’Angelo, vivaddio, non glielo può cancellare dall’anagrafe non dico Giuseppe Pignatone, l’ex capo della Procura di Roma che presiede il tribunale della Santa, anzi Santissima Sede, ma neppure il Papa in persona. Che può cambiare il suo nome quando viene eletto dai cardinali con l‘aiuto dello Spirito Santo, ma non quello degli altri.

         Non ha invece ritenuto di attenersi al santissimo garantismo, o alla santissima discrezione  dell’Osservatore Romano il laico ed esterno Avvenire, quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, cioè dei vescovi. Che, pur non facendone misericordiosamente il titolo di apertura, dedicato  invece ai “prigionieri della guerra” di Gaza, senza tuttavia dimenticare anche quelli in Ucraina, ha sistemato a metà della prima pagina la notizia degli “oltre cinque anni” comminati al cardinale Becciu e dei 37 distribuiti fra gli altri otto imputati condannati, essendone stato assolto solo uno, peraltro già segretario dell’Eminenza. Il cardinale simpaticamente sardo -ne sono sicuro- pregherà anche per i mei colleghi di Avvenire perché non si dimentichino di riservare uguale spazio alla eventuale, augurabile, per lui, sentenza di assoluzione in un processo d’appello auspicabilmente più semplice e rapido di quello di primo grado. Che ha avuto bisogno di ben 86 udienze, quasi da tribunale italiano.

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Quando Toni Negri fu lasciato scappare per non fare il deputato di giorno e il detenuto di notte

    Appena morto a Parigi con tutti i debiti pagati alla giustizia italiana, che lo aveva condannato prima a 30 e poi a 12 anni di carcere per associazione sovversiva, banda armata, concorso morale in una rapina mortale, Toni Negri non ne aveva compiuti nemmeno 50 quando -nell’estate del 1983- fu lasciato scappare in Francia nientemeno che dal presidente del Consiglio e dal ministro dell’Interno allora in carica. Che erano, rispettivamente, il leader socialista Bettino Craxi e il democristiano “tutto di un pezzo”, come lo chiamavano nel suo partito, Oscar Luigi Scalfaro. Il quale si compiaceva di portare addosso, attaccata sulla pelle sotto l’abito civile, la toga di magistrato solo apparentemente dismessa nel 1946, quando era stato eletto all’Assemblea Costituente.

         Quello di Craxi e di Scalfaro non fu un atto né di generosità né di codardia, o tradimento allora contestabile ad entrambi davanti alla Corte Costituzionale. Fu una decisione paradossale, utile ad evitare che l’intera legislatura appena cominciata si svolgesse nelle curiose modalità immaginate da quel diavolo di Marco Pannella. Che aveva candidato e fatto eleggere deputato quel noto professore universitario di filosofia, benchè in carcere di massima sicurezza dal 1979, quando fu arrestato in una sostanziale retata a Padova di sospetti terroristi, assassini, rapinatori e sequestratori.

         Liberatolo per forza nel momento dell’elezione a deputato, i magistrati predisposero tempestivamente la richiesta di autorizzazione ad arrestarlo daccapo per la gravità dei reati contestatigli, in attesa di processarlo. Poi, nello scenario perseguito da Pannella, essi avrebbero dovuto autorizzarlo di volta in volta ad essere tradotto alla Camera per partecipare alle sedute d’aula o di commissione scelte dal detenuto per assolvere al proprio mandato.

         Pur amici entrambi di Pannella, presidente del Consiglio e ministro dell’Interno non ebbero bisogno neppure di parlarsi fra di loro. Bastò uno scambio di sguardi per intendersi e capire che, mollando la sorveglianza già allertata e lasciando scappare Negri in Francia da un porto della Toscana, avrebbero risparmiato agli italiani  uno spettacolo imprevedibile nei suoi sviluppi e risvolti.

         Così Toni Negri trovò rifugio in Francia, come altri nelle sue condizioni. E, incassata per tutta la legislatura con delega non so a chi la sua lauta indennità parlamentare, tornò in Italia di sua volontà dopo 14 anni, a processi terminati, condanne ridimensionate e in grado di patteggiare un modesto “residuo di pena”, contenente quattro anni di semilibertà. Un epilogo in qualche modo coerente con la sua storia stravagante, a dir poco, di uomo cresciuto con fede religiosamente cattolica e politicamente socialista ma tanto radicale nei suoi ragionamenti, nelle sue condotte e nelle sue frequentazioni, fra le quali quella con Renato Curcio, da procurarsi ogni tipo di sospetti: anche di avere concorso alla fondazione delle brigate rosse e al sequestro di Aldo Moro.

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