I guai della Meloni bastano da soli. E’ inutile inventarsene altri

   D’accordo, Giorgia Meloni è uscita malissimo dalla sortita alla Camera sull’album fotografico del suo predecessore Mario Draghi, molto più folto dei risultati concreti che egli avrebbe portato a casa in politica estera durante il suo governo. La pezza che poi la premier ha cercato di mettere, precisando di avere voluto polemizzare sul Pd che si sarebbe fatto bello delle foto di Draghi, è stata forse peggiore della pezza.  Quel partito peraltro non è più guidato da Enrico Letta, che si riconosceva pienamente nell’allora presidente del Consiglio, ma da una Elly Schlein che ha sensibilità diverse, a dir poco, anche se non ancora sufficienti ad accontentare Giuseppe Conte nelle nove vesti di pacifista, o quasi, aspirante alla guida delle opposizioni con quel cappotto di lana pregiata appoggiato come mantello sulle spalle nei corridoi della Camera.

         D’accordo, ripeto, su quello che ho già chiamato il deragliamento della Meloni. E anche sulla spiacevole sorpresa appena riservatale dalla “sua” Albania, dove il presidente Rama è stato bloccato dalla locale Corte Costituzionale sulla strada dell’accordo con l’Italia per trattenere sul proprio territorio una parte dei migranti soccorsi in mare e richiedenti asilo da noi. Ma fermiamoci qui, per favore. Non attribuiamo alla Meloni anche incidenti che non ha avuto, come persino Il Foglio, e non solo Repubblica e il Fatto Quotidiano, l’ha rappresentata per quel dispaccio sventolato ieri nell’aula del Senato. Dove la premier ha accusato il secondo governo Conte di avere autorizzato arbitrariamente con un fax del ministro degli Esteri Luigi Di Maio il rappresentante italiano a Bruxelles a firmare il trattato del Mes, o fondo salva-Stati, nella versione appena modificata rispetto a quello risalente all’ultimo governo Berlusconi.

         Poiché quel fax di adesione porta la data del 20 gennaio 2021, la premier non avrebbe potuto e tanto meno dovuto accusare Conte di avere agito di soppiatto, “nelle tenebre”, con l’ancora fedele Luigi Di Maio alla Farnesina, nonostante dimissionario e perciò in carica solo per i cosiddetti affari correnti, scaricando guai quindi sui governi successivi. Le dimissioni di Conte e del suo secondo governo furono in effetti formalizzate al Quirinale il 26 gennaio, sei giorni dopo quel fax. Ma chi segue correntemente la politica sa bene che da almeno una ventina di giorni prima il secondo governo Conte era in crisi, cercando “volenterosi” tra le fila del centrodestra per non soccombere in Parlamento, logorato da Matteo Renzi già dal giorno dopo della nascita propiziata dallo stesso Renzi ancora nel Pd nel 2019.

         Il 20 gennaio del 2021, quindi, Conte era già con un piede fuori da Palazzo Chigi e Di Maio forse già garantito di conferma alla Farnesina con Mario Draghi. Che, per niente stanco – come lo immaginava l’allora premier- delle fatiche alla presidenza  della Banca Centrale Europea, stava riservatamente già preparando il suo programma e il suo governo, nato il 13 febbraio.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

L’album fotografico di Mario Draghi strapazzato da Giorgia Meloni

    Può capitare a tutti, anche ai politici naturalmente, una battuta infelice, strumentalizzabile e quant’altro, specie quando si parla a braccio, improvvisando, com’è accaduto a Giorgia Meloni nell’aula di Montecitorio nella replica sulla vigilia del Consiglio Europeo. Ma quando vi casca in Parlamento un presidente del Consiglio -al maschile, questa volta, come preferisce appunto la Meloni- la vicenda è difficile da archiviare. Neppure -temo- con la dichiarazione studiata dalla premier col suo sottosegretario di fiducia, Alfredo Mantovano, per rimettere a posto l’album fotografico di Mario Draghi un po’ strapazzato poco prima.

         “Il mio- ha spiegato la Meloni- è stato un attacco al Pd, secondo il quale la politica estera è solo farsi le foto con Francia e Germania. L’intenzione non era quella di attaccare Draghi e l’impulso che è riuscito a dare nel sostegno europeo all’Ucraina”, accorrendo in treno nel 2022 da Zelenski con Macron e Sholz per incoraggiarlo a resistere all’aggressione della Russia di Putin. “Ho rispettato -continua la dichiarazione della premier, sempre riferendosi a Draghi- la sua fermezza di fronte ai problemi che aveva nella sua maggioranza. Il lavoro che ha svolto non si può risolvere in una fotografia”. Cosa che ha ripetuto ieri in aula al Senato.

         Ma nell’album di Draghi sono finite poi altre fotografie che, a toto o a ragione, sono entrate di straforo nelle polemiche, nelle insinuazioni, nei sospetti alimentati dalla replica parlamentare della Meloni. Sono finite, per esempio, anche foto recenti di Draghi col presidente francese Emmanuel Macron, che ha lasciato attribuirsi dalla stampa internazionale, senza smentire, il progetto di portare l’ex presidente del Consiglio italiano al vertice della prossima Commissione esecutiva dell’Unione Europea, a Bruxelles, o alla presidenza del Consiglio Europeo. Progetto che in teoria potrebbe correre parallelamente alle ambizioni politiche della Meloni nell’Unione ma anche disturbarle, diciamo cosi.

         Con la sua dichiarazione di precisazione, chiarimento e quant’altro la Meloni ha un po’ fatto quello che la buonanima di Amintore Fanfani soleva intimare in toscano doverosamente aspirato agli amici o colleghi di cui non condivideva scelte o parole: “Chi la fa grossa, la copra”. Ma qui c’è forse ancora da chiedersi -non si dispiaccia l’interessata, di cui capisco i ritmi stressanti di lavoro, fuori e dentro casa- quanto grossa debba essere intesa quella che l’è scappata fornendo involontariamente un assist che non meritavano, secondo me, né la segretaria del Pd Elly Schlein né Giuseppe Conte. Il quale ancora non riesce a mandare giù -temo- lo sfratto da Palazzo Chigi per essere sostituito a suo tempo da un Draghi ch’egli considerava troppo stanco per volergli succedere.

Pubblicato sul Dubbio

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