Salvini e la sua Lega finiscono nel Cenone di Capodanno

   Non solo la famiglia Verdini -padre e figlio Denis e Tommaso, entrambi agli arresti domiciliari, sia pure per diverse ragioni, la figlia Francesca e il fidanzato ministro Salvini ancora liberi, pur essendo il secondo sotto processo in Sicilia per sequestro di migranti in mare, ma anche la Lega nel suo complesso è finita nel menù del cenone di Capodanno. Almeno in quello immaginato a casa di Giorgia Meloni dai giallisti di Repubblica. Che hanno attribuito alla premier “l’opa” sul secondo partito della coalizione di governo, imprudentemente impegnato da tempo a infastidire la premier per riprendersi se non tutti -che è un’impresa troppo difficile- almeno una parte dei voti perduti a favore dei “fratelli d’Italia” dopo l’ubriacatura delle elezioni europee del 2019.

         Le foto pur felici dei due maggiori alleati e concorrenti dei centrodestra, o destra-centro, sono ormai d’archivio a Repubblica, dove i magistrati sono riusciti a sollevare il morale dopo un anno e più di rospi ingoiati vedendo crescere, anziché diminuire il consenso di quell’emula di Benito Mussolini offerta all’immaginazione, o agli incubi, dei suoi lettori nel centenario -ricordate?- della marcia su Roma stoicamente sopportata da Sergio Mattarella. E supportata all’estero, nelle canellerie europee e, più in generale, atlantiche da un predecessore d’eccezione della Meloni come Mario Draghi.

         Ora, a dispetto di quella specie di sassolini che ne tormentano l’orecchio non so se di destra o di sinistra, la Meloni è immaginata felice dai suoi avversari di fronte a quei “500 milioni di appalti nel mirino di Verdini&C.” annunciati dal Fatto Quotidiano. Di cui Salvini, come ministro delle Infrastrutture e competente dell’Anas, è già stato chiamato dalle opposizioni a riferire in aula alla Camera appena liberatasi del bilancio dello Stato. E dovrà comunque preoccuparsi piu ancora dei fratelli d’Italia.

         E’ vero che il manager ex amministratore delegato dell’Anas Massimo Simonini, in rapporto con “la presunta cricca corruttiva dei Verdini”, come racconta il debenedettiano Domani, fu nominato a suo tempo da Draghi. ma Salvini -lo hanno accusato gli inquirenti di carta stampata- lo ha lasciato al suo posto nonostante la notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati sia di un anno e mezzo fa”. E, in più, ha osato liquidare garantisticamente il problema dicendo a suo tempo: “Stiamo parlando di un indagato, non di un condannato”. Non ha capito proprio niente questo ingenuo Salvini, che ora Meloni sembra tentata di divorare in un boccone precedendo la sinistra.  

         Piero Sansonetti già ieri sulla sua Unità, sentendo puzza di bruciato giustizialista, si era avventurato ad ammonire amici e compagni a non cadere nella trappola di Tangentopoli di una trentina d’anni fa. Ma Pier Luigi Bersani, come un gambero, lo ha subito deluso gridando alla Stampa e alla consorella di Genova che “la destra crea l’habitat ideale per la corruzione”, come il pentapartito di Craxi e Andreotti a suo tempo.

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Botti di fine anno fra incursioni giudiziarie e pagelle

   Fra gli inconvenienti, e non solo le feste, di fine anno ci sono le incursioni giudiziarie – come quella che ha appena colpito la famiglia Verdini, in qualche modo comprensiva anche del leader leghista Matteo Salvini, reclamato subito in Parlamento-  e  le abitudini alle pagelle ai politici.

         La Stampa, quella storica di Torino, ha affidato le pagelle del centrodestra a Flavia Perina, che conosce bene l’ambiente  per averlo a lungo frequentato e persino vissuto alla direzione del Secolo d’Italia. Le pagelle della sinistra abbastanza allargata sono state invece affidate a Federico Geremicca, anche lui di casa da quelle parti per ragioni familiari che lo hanno reso forse ancora più disilluso dell’altra per le speramze accese in lui da un padre abbastanza autorevole e smentite da compagni e successori. I voti di entrambi non hanno molto volato.

         La Perina si è spinta al 7 scrivendo della Meloni con la riserva di un miglioramento “aspettando la sessione malati” del 4 gennaio, essedo stata rinviata a quel giorno  per ragioni di salute la conferenza stanpa di fine anno. Da cui si aspettano “risposte di prima mano” alle domande suggerite da “errori talvolta imperdonabili persino dei suoi fedelissimi”. Fra i quali si scorge il pur “potente Gran Cognato graffeur d governo” Francesco Lollobrigida, meritevole di 5 Che è sempre superiore all’invotabilità del  presidente “pirandelliano” del Senato Ignazio La Russa per il suo busto del Duce, por donato di recente alla sorella. Superiore anche al 4 assegnato al leghista Salvini per le sue “soluzioni scombinate”, peraltro precedenti agli affari Anas contestati al quasi cognato appena finito agli arresti domiciliari.

         Meno male che nella Lega c’è anche il governatore del Veneto Luca Zaia, guadagnatosi un 7 nell’auspicio di una successione a Salvini.  Il povero forzista Antonio Tajani è incollato al 5 e mezzo, sotto quindi la sufficienza, per “la missione generosa ma impossibile” assuntasi di succedere a Silvio Berlusconi.

         A sinistra il 7 non lo merita nessuno: neppure “il professore Romano Prodi instancabile nello stanare i vizi” della sua parte politica, come gli ha riconosciuto Geremicca. Che gli ha pertanto assegnato 6 e mezzo, contro il 6 -non di più- meritato dalla segretaria del Pd Elly Schelin e dal presidente e suo competitore sconfitto Stefano Bonaccini.

         Un misero 5 e mezzo è spettato a Giuseppe Conte, che “ha gettato alle ortiche prudenza e pocette” e “infilato il passamontagna” per tornare “sovranista”, sfidando più la Schlein che la Meloni.

         Un quattro ciascuno infine hanno meritato Carlo Calenda, persosi anche la bussola di Mario Draghi, e un Matteo Renzi, ormai “politico per hobby” e “autorottamattore di talento”.

         In un presente così desolante a sinistra potrebbe costituire una riserva il sindaco di Milano Beppe Sala, “un Papa straniero” per un eventuale campo largo, ma “non tanto straniero” per le sue esperienze amministrative. Pure lui tuttavia non è andato sopra il 6 della sufficienza.

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Controversie di genere anche nella malattia capitata alla Meloni

   Diavolo di una donna, o di un “uomo dell’anno”, come l’ha incoronata su tutta la prima pagina di Libero il direttore ed ex suo capo dell’ufficio stampa a Palazzo Chigi Mario Sechi.

         Dopo averci inchiodato all’inizio del suo mandato, con tanto anche di comunicati e controcomunicati, alle discussioni su come chiamarla -il o la presidente del Consigilo, il o la premier, senza aspettare in quest’ultimo caso la riforma cosituzionale che aveva già in testa per l’elezione diretta di chi guida il governo- Giorgia Meloni si è presa una malattia dal genere anch’esso controverso.

         Quella specie di sassolino -chiamato scientificamente agglomerato di ossolato e carbonato di calcio, inglobato in una matrice gelatinosa- che la Meloni riesce ad accumulare non in una scarpa ma in un orecchio interno, ricavandone nausea, capogiri e bisogno di buio anziché di luce, per cui le sono proibite, fra l’altro, conferenze stampa, da rinviare a tempi, migliori; quella specie -dicevo- di sassolino diventa al plurale maschile o femminile? Sono stati chiamati, per esempio, “gli otiliti” nel titolo della Repubblica e “le otiliti” nel titolo del Foglio, solitamente sofisticato.

         Noi, del Dubbio, non so se più furbi o cauti, a cominciare dal direttore Davide Varì e giù giù sino all’ultimo collaboratore come il sottoscritto, ci siano sottratti alla scelta o scommessa e abbiamo scritto di quello della Meloni come di “un problema di otiliti”, o di “sindrome otolitica”. Non abbiamo avuto il tempo, ma neppure la voglia, di metterci a consultare chissà quante enciclopedie, né di bussare all’Accademia della Crusca, come qualcuno invece fece l’anno scorso, in occasione delle dispute attorno ai comunicati di Palazzo Chigi sul presidente, e non la presidente del Consiglio.

         Auguro naturalmente alla Meloni la più rapida e completa guarigione, che la restituisca agli italiani alla luce del giorno. E pazienza per il troppo severo professore universitario di storie Ernesto Galli della Loggia, che ne ha scritto polemicamente ieri in un editoriale sul Corriere della Sera, se gli sembrerà troppo vivace, troppo assertiva, troppo aggressiva. Sino a fare il gioco degli avversari e avversarie di sinistra che non aspettano altro per demonizzarla e farle perdere qualche punto nei sondaggi che continueranno ad accompagnarla, anzi ad inseguirla, sulla strada delle elezioni di vario tipo nell’anno nuovo che sta arrivando.         

   In questa speranza di vederla andare indietro e non avanti, di perdere consensi o “disponibilità al voto” anziché guadagnarne, avversari e avversarie non saranno comunque soli. Faranno loro compagnia non all’opposizione ma all’interno della stessa maggioranza gli alleati e al tempo stesso concorrenti della Meloni. A volte, in verità, sembrano più concorrenti che alleati. Ma gli altri, all’opposizione, sono messi anche peggio perché sono fra loro solo concorrenti, anzi avversari, non certo alleati, o non ancora federabili, come direbbe Romano Prodi

Pubblicato sul Dubbio

I malanni che non arrivano tutti per nuocere a Giorgia Meloni

         Per quanto di genere incerto -fra “gli otoliti” di Repubblica e della Verità e “le otoliti” del Foglio– si può ben dire che anche per Giorgia Meloni i malanni forse non vengono tutti per nuocere.

         Manca una settimana alla conferenza stampa di fine anno, che la premier è stata costretta a rinviare al 4 gennaio per quei quasi sassolini che a lei finiscono nell’orecchio anziché in una scarpa, e già l’adorante Giornale ha usato fatti e impressioni delle ultime ore per annunciare un “poker di fine anno”.  Che sarebbe costituito da un accordo sul “superbonus” che salverebbe famiglie e aziende, un decreto delegato che cambia l’Irpef facendo risparmiare ai fortunati “fino a 1.300 euro” annui, una riduzione delle bollette della luce dell’11 per cento e l’incasso dei 16 miliardi della quarta rata dovuta dall’Unione Europea per il piano nazionale di ripresa.

         Del “superbonus” edilizio, in verità, ci sono diverse letture. A quella genericamente ottimistica del Giornale si accompagnano la sconfitta di Giorgetti con Tajani annunciata sulla prima pagina del debenedettiano Domani e il riduttivo “SuperContentino” annunciato dal Riformista, visto che potranno beneficiarne solo i titolari dei redditi più bassi. Per La Stampa invece è “passata” la linea Giorgetti” del sostanziale rifiuto anti-allucinogeno.

         Un po’ più in là, diciamo così, del Giornale delle famiglie Berlusconi e Angelucci si è spinto, nella prospettiva della conferenza stampa del 4 gennaio, Libero della sola famiglia Angelucci col conferimento alla Meloni del titolo di “Uomo dell’anno”, così motivato dal direttore Mario Sechi: “Meloni ha proiettato gli avversari in una dimensione di eterno rosicamento, schiumano che è fascista, leader del patriarcato, femmina  ma non femminista. Quante chiacchiere, il problema è risolto: Gorgia è uomo dell’anno”.

         Sechi non sapeva, conferendo il suo premio alla premier, di rispondere ad un editoriale che nello stesso momento il professore Ernesto Galli della Loggia stava scrivendo contro di lei per il Corriere della Sera dal titolo “La premier e il freno del passato”, convinto che “il problema di Gorgia Meloi non è il Mes, non è questa o quella gaffe di qualche menbro del suo entourage e neppure i periodici dissidi all’interno della maggioranza”. Sarebbe piuttosto un problema di comunicazione, di “interpretare il proprio ruolo, il contenuto che lei stessa è istintivamente portata ad attribuirgli”.

         La Meloni, secondo l’editorialista del Corriere, farebbe male a “recriminare di continuo sulle vere o presunte malefatte degli avversari, alzando i toni della polemica “anziché smorzarli”,  a “stare sempre a eccitare l’applauso scrosciante della propria parte e gli ululati di disapprovazione di quella contraria. Tra l’altro, così accreditando l’immagine che fin dall’inizio cerca di costruirle la sinistra: quella di una persona perennemente pervasa da un’incontenibile aggressività”. E condannata per contrappasso dantesco al silenzio e al buio dei suoi o delle sue otoliti.

Giancarlo Giorgetti chiude il caso Mes, da accusato ad accusatore

   Per niente mascherato, o cereo, come era stato immaginato ieri sulla prima pagina del Corriere della Sera da Emilio Giannelli pensando al suo prossimo incontro a Bruxelles con Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione europea presuntivamente delusa dalla bocciatura parlamentare del Mes in Italia, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti si è presentato agguerritissimo alla Commissione Bilancio della Camera. Dove ha chiudere il caso non da imputato ma da accusatore. Anzi, il falso caso, perché il problema vero dell’’Italia non è il tanto contrastato Mes ma quel debito pubblico che non riusciamo neppure più a declinare numericamente, tanto ci sembra grande e irrealistico. Un debito -ha avvertito il ministro guardando in faccia le opposizioni ma pensando anche a qualche collega e amico di governo e partito-  alimentato dagli allucinogeni di cui tutti  hanno fatto uso in passato, sino all’assuefazione.

         Il Mes, con le clausole iugulatorie temute dai suoi critici per salvare non solo gli Stati dell’Unione a rischio di default ma anche le banche, come avrebbe voluto il trattato mozzato dalla mancata ratifica italiana, non è la causa del nostro debito ma in qualche modo l’effetto. E lui, Giorgetti, pur avendo preferito la ratifica, non l’ha anticipata o promessa a nessuno dei suoi interlocutori a Bruxelles e dintorni, avvertiti anzi della prevedibilissima bocciatura. Ora non resta che incrociare le dita e aspettare che cosa ne verrà fuori in Europa, probabilmente più dopo che prima delle elezioni di giugno.

   C’è da incrociare le dita e vedere sul terreno pratico, non continuando a prevedere imbottiti di allucinogeni, l’impatto del nuovo patto di stabilità appena concordato nell’Unione per sostituirlo al vecchio sospeso durante l’epidemia del Covid. Che era pieno di clausole, parametri e simili più “stupidi” nella loro rigidità -parola di Romano Podi quando ancora presiedeva la Commissione di Bruxelles- che intelligentemente flessibili.

         Di questo nuovo patto, contrariamente a ciò che le opposizioni gli hanno attribuito per continuare a reclamarne le dimissioni, Giorgetti si è assunta la piena responsabilità, avendovi aderito nella convinzione che di meglio e di più non fosse stato possibile ottenere. Altro che lo “schiaffo” franco-tedesco visto e ascoltato, fra gli altri, da Giuseppe Conte. Che, come un trapezista al circo, dall’opposizione si è tuttavia unito ai due maggiori partiti di governo nella ritorsiva bocciatura del Mes, nella logica dello schiaffo che tira l’altro. Sembra l’asilo di Mariuccia come lo intendono a Milano, cioè sciocco e puerile, ma è quello dal quale esce ed entra con passo sempre spedito l’ex presidente grillino del Consiglio. Di cui peraltro si è appena scoperto un reddito da soccorso come avvocato che spiega perché l’anno scorso egli ha deciso di farsi eleggere alla Camera per quello che fortunatamente per lui è solo il primo mandato, cui un altro potrebbe seguire senza strappi alle regole grilline.

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La dieta elettorale della Meloni che sognano dentro Forza Italia

   Reduce da uno scontro persino scurrile avuto nell’aula del Senato con Matteo Renzi, che aveva accusato Forza Italia di avere “tradito” la buonanima del fondatore Silvio Berlusconi avendo a suo modo partecipato, con un voto di astensione, alla bocciatura parlamentare del cosiddetto fondo europeo salva-Stati., o Mes, il capogruppo forzista Maurizio Gasparri ha un po’ abbassato la guardia in una intervista al Foglio. Che con una certa generosità, in memoria dei bei tempi in cui Berlusconi lo aiutò a nascere e crescere, non bastando al giornale di Giuliano Ferrara il finanziamento pubblico assicuratogli da un movimento politico improvvisato apposta da Marcello Pera, ha tenuto basso -diciamo così- il colloquio col cuore in mano di Gasparri con Marianna Rizzini, senza richiamo in prima e confinato a pagina 4. Tutto sotto un titolo sul “paradosso” che Meloni ha finito per rappresentare o diventare nella coalizione di governo inventata nel 1994 dall’allora Cavaliere sdoganando la destra di Gianfranco Fini. Dove una Meloni ancora diciassettenne non poteva neppure immaginare di poter diventare vice presidente della Camera a 29 anni, ministra a 31 e presidente del Consiglio a 45 e mezzo.

         Gasparri ha trovato “naturale” la previsione di “un successo alle europee” di giugno “per il leader di governo in carica che abbia già consensi alti”, come il 28,5 per cento appena assegnato ai “fratelli d’Italia” da Alessandra Ghisleri collocando la Lega al 9,3 e Forza Italia al 7,5. La “dimensione democristiana” tenuta per tanto tempo dai forzisti di Berlusconi è passata ormai al partito della Meloni dopo essere passata brevemente, nelle europee del 2019, per le mani di Matteo Salvini. Che la dissipò in una intempestiva crisi di governo promossa per provocare le elezioni anticipate e conclusasi col Pd di Nicola Zingaretti salito sulla carrozza di Giuseppe Conte al posto dello stesso Salvini.

         “Tuttavia” -ha ammesso Gasparri- la premier “paradossalmente potrebbe avere qualche problema da eccesso di successo, per quanto riguarda gli equilibri della coalizione” governativa. E ha “spiegato” così il paradosso: “Fino al 27, 28, 30 per cento” della destra post-missina “non ci sarebbero scossoni”. “Diverso è”, non sarebbe, se Meloni sale ancora e gli alleati, noi compresi scendono di molto”. E si sentono, non si sentirebbero, minacciati da elezioni anticipate -immagino- dalle quali o l’uno o l’altro dei due partiti alleati della premier può rischiare di risultare numericamente ininfluente.

         Il ragionamento quasi fra sé e sé di Gasparri è così continuato: “Certo, non si può dire a nessuno: frena la tua scalata. E proprio per questo noi, come Forza Italia, abbiamo davanti una sfida: guadagnare voti”, e non continuare a perderne, sia pure un po’ alla volta com’è accaduto nel già ricordato, ultimo sondaggio della Ghisleri -forse neppure noto a Gasparri mentre si confidava al Foglio–  col -0,2 per cento in un mese contro il +0,3 per cento della Lega.

         Alla vigilia peraltro allungatasi della conferenza stampa di fine anno,  già rinviata nella scorsa settimana dalla Meloni per una fastidiosa influenza stagionale che l’ha allontanata anche dal Quirinale per gli auguri del e al capo dello Stato, quella di Gasparri potrebbe persino apparire una richiesta di soccorso alla premier. Perché pensi, nelle risposte a giornalisti, ma anche nell’intervento introduttivo, più agli alleati che a se stessa. Come se, peraltro, potesse bastare una battuta o un riguardo a ridurre le difficoltà quasi da disperazione di Antonio Tajani, che s’intravvedono fra le parole di Gasparri al Foglio, di fermare le perdite e cominciare finalmente a guadagnare voti. Ma guadagnarne peraltro a scapito diretto della premier, e non solo cercando di ridurre il bacino sempre più allarmante dell’astensionismo citato non a sproposito anche da Sergio Mattarella nell’incontro con le cosiddette alte autorità dello Stato, presenti e passate. Un Mattarella che immagino impensierito pure lui dall’ipotesi di una maggioranza in tensione ancora più forte e visibile e di un’opposizione -ottimisticamente al singolare- ancora più lontana di prima dall’obbiettivo di una competitiva federazione di tipo ulivistico auspicata di recente -niente di più- dall’ex premier Romano Prodi. Che si muove sulle parole come sulle uova, stando attento a non schiacciarle, consapevole com’è che non sarebbero buone neppure per una frittata.

         Di Tajani ho appena finito di consultare- per una vecchia abitudine di immaginare il mio articolo con una foto- l’album offerto da quell’archivio elettronico cui si può facilmente accedere col computer, alla faccia della vecchia macchina da scrivere che ci teneva incollati a vedere la carta dattiloscritta. Sono rimasto imbarazzato nella scelta fra un Tajani con le mani giunte, in attesa del congresso del suo partito a febbraio e delle consultazioni elettorali in programma sino a giugno, se gliele lasceranno gestire, come tutto lascia ragionevolmente prevedere, e un Tajani col guardo sospeso in alto, non so se più rassegnato o fiducioso. Intanto gli auguro sinceramente buon anno, pensando anche ai suoi difficili compiti governativi di ministro degli Esteri, assediato da guerre combattute nel senso più drammatico e autentico. 

Pubblicato sul Dubbio 

Tutti i guai del povero Antonio Tajani alla vigilia del nuovo anno

   Lo scenario internazionale è diviso fra qualche colpo riuscito finalmente a Zelensky, affondando una nave russa piena di droni iraniani da utilizzare contro l’Ucraina, e la guerra a Gaza che Nethanyau continua nella sua “pura logica” di annientamento di Hamas apprezzata da Giuliano Ferrara sul Foglio. Altro che l’Israele “fuori controllo” rappresentato tutto in negativo dall’Unità.

         Eppure dopo due giorni di assenza natalizia dalle edicole la Repubblica di carta diretta da Maurizio Molinari, solitamente sensibilissimo alla cosiddetta geopolitica, ha acceso i riflettori della prima pagina sulla “grande crisi di FI”. Che non è naturalmente la targa di Firenze, ma di Forza Italia, impietosamente vista e descritta all’angolo in una coalizione di governo dove la velocità è quella di Giorgia e Matteo Salvini che si inseguono sovranisticamente, come si dice quando si parla dei rapporti fra Roma e Bruxelles.

         Molinari ha scomodato il suo predecessore pur non diretto Ezio Mauro per spiegare ai lettori “la sfida per il trono vacante dei moderati” nella maggioranza anche dopo la timida, imbarazzata astensione di Forza Italia, alla Camera, sulla bocciatura del Mes, votata insieme da fratelli d’Italia, leghisti e grillini.  Un’astensione che non si sa francamente se dettata più da riserve avute anche dalla buonanima di Silvio Berlusconi sul cosiddetto fondo salva-Stati sottratto ad ogni controllo del Parlamento, anche quello europeo, o dalla paura, imbarazzo e quant’altro di votare per la ratifica col Pd di Elly Schlein.

         Certo, non mancano problemi a Forza Italia, risultanti anche nei sondaggi freschi di stampa di Alessandra Ghisleri. Dove FI è l’unico partito della maggioranza calante col suo -0,2 per cento, contro il+0,3 della Lega e il +0,2 del partito della Meloni. Sono frazioni di punto, lo so bene, come il + 03 per cento del Pd e il -0,3 per cento dei grillini nell’assai presunto “campo largo” sognato a sinistra. Ma è la tendenza quella che vale, o comunque è percepita persino dentro Forza Italia. Dove il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri ha appena raccontato al Foglio che “è in un certo senso naturale prevedere un successo alle elezioni europee per il leader di governo in carica che abbia già consensi alti”, come il 28.5 assegnato dalla Ghisleri alla destra meloniana.

         Il problema tuttavia è di verificare le distanze finali fra i partiti della maggioranza. “Paradossalmente Meloni -ha osservato Gasparri sempre al Foglio– potrebbe avere qualche problema da eccesso di successo, per quanto riguarda gli equilibri della coalizione. Mi spiego: fino al 27,28, 30 per cento non ci sarebbero scossoni. Diverso è se Maloni sale ancora e gli alleati, noi compresi, scendono di molto”. E ancora: “Certo, non si può dire a nessuno: frena la tua scalata. E proprio per questo noi, come Forza Italia, abbiano davanti una sfida: guadagnare voti”. E già, questo è il problema del povero  Antonio Taiani, con o senza le mani giunte delle fotografie d’archivio.

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La premier Giorgia Meloni tra i suoi impegni privati e pubblici

   Quella foto della premier Giorgia Meloni  da sola con la figlia abbracciata davanti agli addobbi natalizi, ma anche un’altra precedente scattatale seduta alla recita della bambina a scuola, mentre  l’ex  compagno  in piedi a poca distanza cercava di godersi anche lui lo spettacolo della loro comune bambina hanno acceso fantasie sulla prima festa della coppia separata dalla scorsa estate. Quando la premier notificò annunciò clamorosamente la fine della relazione con Andrea Giambruno, vittima un po’ della sua sbruffoneria sessista in uno studio Mediaset in prova, ma ancor più dell’invadenza, a dir poco, tollerata dalla stessa azienda con la diffusione delle immagini e del sonoro letteralmente rubate in cosiddetta bassa frequenza da un’altra trasmissione in quel momento in crisi di ascolto e di spazio, vitali specie una televisione comnerciale.

         Non si sa se lo scoop, aggravato dalla pretesa dell’autore Antonio Ricci, di ricevere prima o poi i ringraziamenti della premier scampata, secondo lui, alla unione con un uomo che l’avrebbe meritata poco o per niente, abbia migliorato ascolti e introiti pubblicitari di quella striscia di spettacolo. Gli effetti familiari a casa Meloni sembrano tuttavia  permanere. Ogni tentativo, in questi giorni, di valutarne meglio la consistenza, per esempio cercando di sapere se vi sono state occasioni di incontri, di scambi di auguri e simili, preceduti peraltro da una breve comparsa di Andrea Giambruno, sia pure in assenza della premier, alla festa del partito dei “fratelli d’Italia”; ogni tentativo, dicevo, di valutare meglio la situazione si è infranto contro un riserbo assoluto degli interessati. “Nessuna indiscrezione sulle feste in famiglia, con Giambruno o senza”, ha battuto Monica Guerzoni sull’edizione elettronica del Corriere della Sera, assente anche oggi, come ieri, nelle edicole chiuse per le feste. Ma, temo, anche per contenerne i costi aggravati dalla generale flessione delle vendite dei quotidiani e di altri articoli, non proprio stampati, che spesso li hanno sostituiti sui banchi, o appesi a qualche supporto.

         Di ben altra natura sono invece i problemi politici della Meloni in questa fine d’anno, alla vigilia di quanto dirà domani il suo ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti in commissione alla Camera sulla legge di bilancio appena approvata al Senato, ma ancor più-reclamano le pur divise opposizioni- sul dissenso già espresso pubblicamente dalla bocciatura, sempre a Montecitorio, del trattato sul Mecccanismo europeo di stabilità, o salva-Stati. Una bocciatura votata dai gruppi parlamentari della Lega, dei fratelli d’Italia e delle 5 Stelle. Anche se quest’ultimo è presieduto non da un omonimo ma dallo stesso Giuseppe Conte che aderì al Mes con un governo da lui gridato: il secondo dei due realizzati nella scorsa legislatura con maggioranze di segno opposto. Ma del Mes e dintorni sarà probabilmente costretta a parlare la stessa Meloni il giorno dopo nella conferenza stampa di fine anno.

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Ah, questo Natale dei paradossi e dei bavagli, di mercato e d’altro….

         E’ curiosa davvero questa nostra società mediatica affamata di ben altri “consumi”, direbbe il Papa, in cui si accettano due lunghi giorni di assenza dei giornali dalle edicole, peraltro sempre meno numerose e frequentate. Giornali da molti dei quali si è appena levata la disinvolta minaccia di un silenzio di protesta volontario, non imposto dalle esigenze del mercato, contro il “bavaglio” in arrivo col divieto di pubblicare integralmente le voluminose ordinanze di arresto cosiddetto “cautelare”. Che sono farcite di intercettazioni destinate a demolire gli imputati, ma anche terzi del tutto estranei, prima ancora dei processi. Dai quali molti di loro escono alla fine assolti nella indifferenza, a dir poco, di quegli stessi giornali prestatisi alla preventiva e sommaria condanna.

         Ricordo con una certa nostalgia, senza l’imbarazzo preteso dalla storiografia corrente che lo ha condannato alla “damnatio memoriae” come un Nerone del Novecento, il Bettino Craxi che da Palazzo Chigi levò la sua voce contro i giornali che avevano proclamato il silenzio di più giorni consecutivi, dimenticando la loro natura di “servizio pubblico”. Che giustificava e giustifica tutte le garanzie della libertà di stampa, di informazione, di commento e quant’altro previste nella Costituzione.

         Pazienza poi se di queste garanzie ognuno fa l’uso che vuole, anche il più blasfemo come quello recente di un giornale –Il Fatto quotidiano, naturalmente- che ha celebrato in anticipo il Natale con una vignetta di Vauro nella quale Gesù Bambino giaceva non in una culla-mangiatoia ma su una bara.  E magari Vauro sosterrà ora di avere ispirato Papa Francesco nell’omelia natalizia di ieri sera, a San Pietro, sul “principe della pace rifiutato dalla logica perdente della guerra”, persino nei luoghi in cui Dio volle che nascesse suo figlio salvatore. Una logica perdente di guerra, ripeto, che alcuni preferiscono attribuire addirittura a Israele, nonostante tutto sia partito il 7 ottobre scorso dal pogrom contro gli ebrei praticato dal terrorismo cui in tanti -non solo il turco Erdogan o il russo Putin- riconoscono la rappresentanza dei palestinesi, le prime vittime invece degli arsenali nascosti sotto le loro case.  

         In un quadro obiettivamente così fosco di questo Natale, simile purtroppo ad altri regalatici nel secolo scorso da Hitler prima che gli fosse per fortuna proibito di continuare, ma guardando più modestamente alle vicende interne della politica italiana all’indomani di un passaggio parlamentare confuso come quello della bocciatura del Mes, Giorgia Meloni ha voluto far vedere la sua immagine e sentire la sua voce per raccomandare “serenità” coniugata con “orgoglio” e persino ”entusiasmo”. Che è forse un po’ troppo, anche se bisogna riconoscere che ancor peggio del governo e della sua maggioranza stanno le opposizioni, non meno divise e  con la loro velleitaria pretesa di costituire numericamente e politicamente un’alternativa.

Sembra Carnevale ma -credetemi, calendario alla mano- è solo Natale

         Si, lo so. Siamo solo alla vigilia di Natale e non di Canevale, che viene dopo. Ma è tempo anche di calendario al contrario, scriverebbe forse il generale Roberto Vannacci in questi ultimi giorni di permesso che si è preso prima di insediarsi al comando delle forze terrestri. O come diavolo si chiama la postazione assegnatagli dal Ministero della Difesa pur conservandolo sotto inchiesta disciplinare per quel libro omonimo pubblicato senza permesso.

         E’ ancora tempo non di maschere ma di alberi, per quanto spelacchiato come quello natalizio attribuito da Stefano Rolli sulla Stampa alla premier Giorgia Meloni pensando alla “manovra” appena approvata dal Senato, col contorno del solito voto di fiducia. E passata alla Camera per lo spolverino di fine anno fra le polemiche sulla bocciatura del Mes. Eppure è una maschera, magari ambrosiana, quella che lì per lì sembrava applicabile al volto dell’ancora inconsolabile Marta Fascina, sulla prima pagina del Corriere della Sera, andata con l’agenda di Silvio Berlusconi dal capo della Procura di Milano per difenderne il generoso testamento. Che uno sprovveduto troppo spiritoso poteva pensare compromesso nell’aula del Senato da Matteo Renzi acccusando Forza Italia di avere tradito l’europeismo del fondatore col sì negato alla ratifica del trattato sul Mes. E procurandosi dal capogruppo Maurizio Gasparri, già vice presidente dell’assemblea, un insulto di cui poi si è inutilmente scusato, visto che l’ex premier non ha ancora sciolto la riserva di una denuncia, per quanto archiviata simbolicamente dal presidente Ignazio La Russa con auguri generali di Buon Natale.

         Ma l’agenda di Berlusconi portata dalla Fascina alla magistratura  non ha niente da fare con l’eredità politica, ed europeista, del suo compianto e quasi marito compromessa- ripeto- secondo Renzi dal suo successore Antonio Tajani e amici. L’agenda è stata sconodata a difesa della più materiale eredità di Berluscomi, compreso quel centinaio di milioni di euro destinato alla stessa Fascina. Fra le sue pagine ci sarebbero gli elementi necessari o sufficienti a “smascherare -ha raccontato nel suo scoop Luigi Ferrarella- un falso erede, ora indagato per estorsione”. La politica insomma, una volta tanto, non c’entra né direttamente nè indirettamente con la cronaca giudiziaria in qualche modo riferibile al compianto premier.

         La cronaca politica rimane quella che è in questa coda un po’ troppo  pasticciata del 2023, in cui sul già citato Mes bocciato tra l’entusiasmo del vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini e il rammarico del suo collega di partito, ancora amico e ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, hanno votato allo stesso modo  leghisti, fratelli d’Italia della Meloni e pentastellati di Giuseppe Conte. Che però -dimenticando peraltro la firma fatta apporre dal suo secondo governo a quel trattato- dice peste e corna dei suoi “compagni di merenda” in questa fantasmagorica o -ripeto- carnevalesca fine d’anno.

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