Il solito Donzelli sparacchia a suo modo contro la torre di Mediaset

         Grazie ad Antonio Ricci, alla sua “Striscia la notizia” di Mediaset e all’esibizionismo sconsiderato dell’ex compagno Andrea Giambruno, ora soltanto padre di sua figlia Ginevra, che non è poco, Gorgia Meloni può anche fare a meno di andare alle feste di partito e di governo, appena entrato nel suo secondo anno di vita, per conservare e aumentare il consenso. Non ci sono ancora sondaggi veri e propri, ma Il Giornale ha già lavorato sulle integrazioni di Facebook, come le ha chiamate, per sostenere che nel giro di un paio di giorni i giudizi sulla Meloni si sono rovesciati. Un inedito negativo del 59,3 per cento è diventato un verde positivo del 57,4.

         Sotto questo profilo non solo la Meloni, affacciatasi in video ieri al Brancaccio, ma tutto il clan dei suoi familiari e intimi dovrebbe ringraziare Ricci, che probabilmente aspetta al telefono, e tutta intera quell’azienda complessa e singolare che è Mediaset. Dove può accadere che un dipendente, nominato sul campo “imperatore dei rompicoglioni” da un Fedele Confalonieri tanto fuori dalla grazia di Dio da parlare solo in dialetto milanese stretto per dirgli tutto il resto, conti più dei proprietari, amministratori, dirigenti e via dicendo. E possa mettere nel suo frigorifero bustine di fuorionda imbarazzanti da prelevare e adoperare quando gli pare e piace, fregandosene altamente di tutti i guai, e simili, che può provocare.

         Il deputato Giovanni Donzelli, un fratello d’Italia coetaneo della Meloni, già noto per una certa quale ribalderia mediatica e parlamentare, dal teatro romano dove è stata metaforicamente spenta la prima candelina del governo ha annunciato “nessun riguardo per Mediaset”. Che invece di riguardi ha bisogno dal governo di turno per quella cosa complicata che si chiama “conflitto d’interessi”. E di cui la buonanima del fondatore Silvio Berlusconi non volle liberarsi neppure quando Rupert Murdoch gli fece proposte di acquisto del Biscione a prezzi stratosferici, come ancora gli rimprovera alla memoria l’ex alleato Pier Ferdinando Casini, ora senatore quasi di diritto o a vita del Pd.

         Certo, Donzelli non è un ayatollah.  E il suo annuncio non ha la carica micidiale della minaccia dell’Iran di colpire persino direttamente Israele, che è pronta con gli americani a rispondere. Per fortuna le torri di Mediaset sono a Milano e non nella Striscia di Gaza.  Ha avuto ragione Il Foglio a dare una versione minimalista dell’annuncio del deputato meloniano titolando su Donzelli che “punzecchia Mediaset”. Dove chissà in quanti sono all’opera dietro le quinte per rimediare all’accaduto. A cominciare probabilmente dal povero Antonio Tajani, che si gioca in questa partita anche la leadership, guida, gestione, chiamatela come volete, del partito che fu fondato da Berlusconi, come le altre sue aziende, e vive appeso ai cento milioni di euro di debito che esso ha con gli eredi: un peso che potrebbe in qualsiasi momento schiacciare il vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri.

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Gli slalom di Gorgia Meloni fra le guerre degli altri e quelle personali

         Reduce dal Cairo per un summit di buona volontà fra tante, troppe guerre che si accavallano e s’intrecciano, Giorgia Meloni è corsa quindi da Nethanyau per unirsi alle raccomandazioni del presidente americano Joe Biden di trattenere la rabbia nelle risposte che pur meritano i terroristi palestinesi asserragliatisi nella Striscia di Gaza facendosi scudo, oltre che degli ostaggi rapiti il 7 ottobre negli attacchi in territorio israeliano, dell’intera popolazione palestinese. Una raccomandazione che nel suo piccolo la premier italiana, alle prese non con la Striscia di Gaza, come ha notato Marcello Veneziani sulla Verità, ma con la Striscia la notizia posseduta in Mediaset da Antonio Ricci, ha applicato a se stessa sottraendosi a tutte le domande impietosamente fattegli dai giornalisti sulla rottura col suo ex convivente, e padre di sua figlia Ginevra, dopo un po’ di furionda a dir poco sconvenienti. Che Ricci ha appena raccontato di avere messo “in frigo” quest’estate per consumarli in questo autunno che già si profilava caldo per la presidente del Consiglio sul piano sindacale e politico ma è diventato rovente pur tra piogge e temporali.

         Per quanta impegno ci possa mettere la Meloni ad archiviare davvero la sua vicenda familiare, bisogna dire che l’impresa le riuscirà difficile per il livello medio, a dir poco, dell’informazione e -quel che più conta- della lotta politica in Italia. Dove, per esempio, un giornale dalle ambizioni istituzionali come la Repubblica di carta è tornata oggi a mettere il cappello della politica, appunto, a questo titolo di prima pagina: “Meloni si blinda: “Di Giambruno non parlo più” e FI teme ritorsioni”. Intendendo per FI il partito Forza Italia fondato una trentina d’anni fa da Silvio Berlusconi e guidato per il momento, in attesa del congresso di fine febbraio, dal vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri  Antonio Tajani. Che Il Fatto quotidiano immagina, rappresenta e quant’altro “nei guai” per il rischio che prima o poi la Meloni si lasci tentare, nonostante le raccomandazioni al premier israeliano, dal piatto della vendetta. Che notoriamente si mangia freddo.

         Personalmente non credo che Pier Silvio  o Marina Berlusconi, o entrambi, meritino il sospetto di avere fatto il doppio gioco col frigorifero di Antonio Ricci, provvisto di chissà quante serrature di sicurezza. O col telefono chiamando la premier per consolarla e al tempo stesso assicurarle di essere stati tenuti all’oscuro di tutto. Ma altrettanto personalmente riconosco a chi non ci crede il diritto di dubitare, essendo francamente difficile che in un’azienda -dove peraltro ho lavorato per un po’ di tempo- possa accadere ciò che è stato permesso ad Antonio Ricci. Un lusso, diciamo così, che forse si poteva permettere la buonanima di Silvio Berlusconi per la sua imprevedibilità quasi artistica, ma altri chissà….  

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L’affare politico procurato alla Meloni dalla “Striscia” di Ricci

Salvo errori e omissioni, solo L’Osservatore Romano dall’alto dei suoi 163 anni di vita protetti dalle guardie svizzere del Vaticano ha resistito al pur metaforico assalto di Antonio Ricci. Che ha difeso anche questa volta il possesso della sua “Striscia la notizia” dalla proprietà dei Berlusconi -prima il padre e poi i figli- facendo esplodere la coppia Meloni. E sfrattando, o quasi, dalle prime pagine dei giornali anche le guerre di Ucraina, di Israele e dei  migranti.  Sulle quali è prevalsa quella che Il Fatto Quotidiano ha chiamato “la guerra dei Melones” immaginando Pier Silvio Berlusconi schiacciato fra il suo dipendente “autosospeso” Andrea Giambruno e la premier che lo ha licenziato da convivente.

         Antonio Ricci, imperturbabile nella sua abitudine di infilarsi nei retrobottega del Biscione ricavandone imbarazzanti fuorionda, ha detto di aspettarsi i ringraziamenti della premier per averla aiutata a conoscere meglio il suo ex compagno.  Dal quale del resto la stessa Meloni ha scritto che “da tempo” aveva cominciato a prendere o aumentare le distanze. Non per niente, del resto, i due non si erano sposati.

         Non so se Ricci riceverà mai una telefonata o altro di ringraziamenti dalla premier. Che intanto per la reazione di “rabbia e orgoglio”, alla Oriana Fallaci, riconosciutagli su Libero dal suo ex capo ufficio stampa Mario Sechi, si è guadagnata elogi di giornali e giornalisti del palato difficile per una donna della sua storia politica tutta di destra.

         Il post-comunista Piero Sansonetti sulla sua rinverdita Unità si è tolto il cappello, che di solito non porta, avvertendo i lettori che se cercano solo gossip nella vicenda familiare della premier, senza fermarsi alla ferma e dignitosa reazione della Meloni al suo ex compagno un po’ troppo spaccone, debbono leggere “un altro giornale”.

         Un altro post, anzi ex comunista, Giuliano Ferrara in apertura del Foglio ha titolato in turchese sui “complimenti” spettanti alla premier e ha scritto nel suo incipit: “Altri si divertiranno a commentare la separazione tra Giorgia Meloni e Andrea Giambruno. E’ inevitabile divertirsi a spese delle coppie scoppiate in un quadro piuttosto sbrindellato e casuale di informazione gossippara. Qui non si ha tanta voglia di divertirsi, non è precisamente il momento della spensierata leggerezza. Il poco che si può dire, senza compunzione ma anche restando minimamente seri, è che quest’ultima botta di stile di Meloni era prevedibile per i molti che la stimano ma non per chi a fatica ha imparato in questo anno di governo a considerare le sue qualità con riserva”.

         A divertirsi naturalmente hanno provveduto i vignettisti. Come Stefano Rolli sul Secolo XIX mandando Giambruno, a calci della Meloni nel sedere, nella transumanza dei migranti da lui stessa coniata recentemente in televisione. Nico Pillinini sulla Gazzetta del Mezzogiorno lo ha impietosamente colpito in testa con un melone lanciatogli dalla mamma.  Domani -prometto- tornerò a occuparmi delle guerre vere.

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Le vite (quasi) parallele di Giorgia Meloni e Veronica ex Berlusconi

Incredibile ma vero per il carattere diabolico che possono avere le coincidenze o simmetrie anche, o soprattutto, in politica. Giorgia Meloni mentre, volente o nolente, insegue o insidia l’elettorato del compianto Silvio Berlusconi per le difficoltà oggettive di Forza Italia dopo la scomparsa del fondatore, ne ripercorre anche la vita privata, sia pure a parti rovesciate. Lei infatti si ritrova in qualche modo nei panni di Veronica Lario, l’ex moglie del Cavaliere, e il suo già ex convivente Andrea Giambruno, padre della figlia Ginevra, in quelli di Berlusconi per i suoi imbarazzanti fuorionda con una collega di redazione. Fuorionda peraltro “rubati” da una rete all’altra del Biscione.

         Prima di precipitare in una famosa lettera di protesta a Repubblica per le frequentazioni del marito e nel divorzio, i rapporti fra i coniugi Berlusconi -sposati in Comune dall’allora sindaco Paolo Pillitteri dopo che avevano già avuto figli-  si erano inclinati per una cena abbastanza affollata in cui il Cavaliere aveva detto alla bellissima Mara Carfagna che l’avrebbe corteggiata o persino impalmata se non fosse stato già ammogliato. Che era in fondo, o apparve ai più, e no solo alla lontana Veronica, un modo di corteggiarla lo stesso. O comunque di desiderarla.

         La stessa Carfagna, ancora oggi bellissima con i suoi 47 anni portati come se ne avesse meno d 30, rimase infastidita più che lusingata dalle parole del suo mentore, che l’aveva portata nei piani alti della politica dagli studi televisivi e dalle passerelle della moda. Da quel giorno tutto ciò che accadeva politicamente fra i due -da un semplice scambio di saluti, o di parole dietro al banco di un convengo o di una conferenza stampa, da voci sul proposito di nominarla portavoce del partito, o qualcosa del genere, alla nomina a ministro dello stesso Berlusconi nel 2008 e di Mario Draghi nel 2021- apparivano a torto o a ragione come segni di un loro legame particolare. A smentire o troncare il quale arrivò alla fine la rottura politica della Carfagna con Berlusconi quando questi decise di togliere la fiducia al governo Draghi e contribuì a provocare le elezioni anticipate dell’anno scorso.

         Carfagna, già salita nel 2018 alla vice presidenza della Camera, decise di seguire la collega, amica e ministra Mariastella Gelmini passando nel 2021 nel partito di Carlo Calenda, assumendone poi la presidenza, e nel cosiddetto terzo polo dallo stesso Calenda allestito con Matteo Renzi. Anche i due, più coltelli che fratelli, ora hanno appena completato la loro rottura. Tutte storie di unioni e divisioni a doppio taglio, personali e politiche, che ingolosiscono cronisti, retroscenisti, analisti e simili.

Pubblicato sul Dubbio

La festa del primo compleanno del governo disturbata dal convivente della Meloni

Per quanto alta e apprezzata in Occidente sia la sua esposizione internazionale, e in difficoltà il variopinto fronte interno delle opposizioni, Giorgia Meloni soffierà domenica con qualche ansia o malumore sulla prima candelina del suo governo, insediatosi il 22 ottobre dell’anno scorso. “Un anno difficile a Chigi”, ha titolato il giornale della Confindustria 24 Ore. Che ha osservato, commentando il titolo compiaciuto della manifestazione organizzata dai gruppi parlamentari della destra –“l’Italia vincente, un anno di risultati: come il governo Meloni sta facendo ripartire la Nazione”- con una nota critica di Lina Palmerini. Che tuttavia riconosce “ai risultati inferiori alle attese” l’attenuante che un anno fa “nessuno poteva prevedere che ad aggiungersi al fronte ucraino ci sarebbe stato quello del Medio Oriente, che l’inflazione avrebbe continuato a mordere e che gli sbarchi” dei migranti clandestini “avrebbero toccato il picco del 2016”.

         Per fortuna, correttezza o altro ancora la notista del quotidiano della Confndustria ha ignorato, o ha escluso dalla politica, dove invece l’ha collocata nel titolo di prima pagina la Repubblica di carta, un incidente professionale in cui è incorso il convivente della premier, ormai ex, Andrea Giambruno. Un incidente di cui la Meloni, insorta troncando la relazione col padre di sua figlia Ginevra, avrebbe volentieri fatto a meno per l’uso che possono farne le opposizioni politiche e mediatiche. E’ un fuorionda, chiamato retrobottega nel gergo televisivo, strappato da una trasmissione di Mediaset –“Striscia la notizia”, di Canale 5-  ad una consorella –“Il diario del giorno,” di Rete 4- in cui Giambruno turpiloquia con una collega avvenente di redazione. Eccovi la parte iniziale dell’urticante racconto di Francesco Merlo, sempre su Repubblica: “Non fa più ridere, Andrea Giambruno, che si tocca e ritocca il pacco con la mano a coppa e ogni due parole dice almeno un “cazzo” e poi spiega ad una collega di cui non si vede il viso che la filosofia aziendale è “scopare”, in due, in tre, “si, noi facciamo anche il foursome”. E a poco a poco il tonto broccolone si fa lupo e porcello e vuole le prove della competenza sul lavoro. “Un test attitudinale?”. “Sì, sco-pa-re”. La collega “di cui non si vede il viso” in quel passaggio de fuorionda è l’avvenente Viviana Guglielmi.

         “Ma quale scandalo: Giambruno in buona fede”, ha titolato il Giornale ancora in parte della famiglia Berlusconi cercando di difendere l’ormai ex convivente della Meloni. Che intanto, in coincidenza con le paturnie attribuite dal solito Fatto Quotidiano a Pier Silvio Berlusconi, ha saltato una conduzione del suo “diario del giorno”. “Una turnazione prevista, spiegano da Rete 4. Ma è la prima volta che accade, nell’ultimo mese, per un principe consorte che ora imbarazza il regno”, ha scritto su Repubblica Emanuele Lauria. Il regno naturalmente è quello di Mediaset, cui in qualche modo appartiene anche Forza Italia. Dalla cui serratura c’è sempre qualcuno che sbircia per valutare il grado di vero gradimento di cui gode la Meloni.

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Le guerre di Antonio Tajani fuori e dentro la sua Forza Italia

Per sfortuna di Matteo Renzi, che pensava di potere ingoiare Forza Italia liquidandone il segretario come un successore non all’altezza dello scomparso Silvio Berlusconi, sino a rifiutarsi negli articoli e nelle dichiarazioni di farne il nome per la sua presunta irrilevanza politica, Antonio Tajani sta consolidando la propria esposizione mediatica, oltre che esperienza politica, con le guerre -quelle vere, dall’Ucraina a Israele- di cui deve occuparsi come vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri: altro che le infrastrutture, o trasporti, del leghista Matteo Salvini, l’altro vice di Giorgia Meloni.

         Ora a Renzi, e al “Centro” che l’ex presidente del Consiglio ha riesumato per allocarvi il suo movimento appena sottoposto a congresso, non resta che sperare, scommettere e quant’altro su altre guerre che potrebbero danneggiare Tajani: quelle interne di un partito peraltro messo da lui stesso sui binari di un congresso convocato per la fine di febbraio. E di cui ogni tanto qualcuno -per esempio, il vice presidente della Camera Giorgio Mulè- sollecita il completamento delle regole per garantire la effettiva contendibilità della segreteria da parte di una, dieci, cento candidature.

         Come tutte le guerricciole interne di partito, e come già accadeva ai tempi della Dc e, più in generale, della cosiddetta prima Repubblica, anche quella di Forza Italia si presta a incursioni esterne, di altri partiti e di giornali che mescolano notizie e fantasie, retroscena e manovre, magari enfatizzando -e ricamandoci sopra- qualche infortunio o imprudenza. Come quella secondo me compiuta dall’ex sindaca di Milano, ex assessore regionale in Lombardia, ex ministra, ex presidente della Rai e non ricordo più di cos’altro, Letizia Moratti uscita e rientrata nel partito che fu di Berlusconi raccontando: “Ho parlato con Marina prima dell’ingresso in FI, mi ha chiamato lei”.

Marina è naturalmente la figlia primogenita del defunto presidente del partito forzista. Che non so se con quella telefonata abbia più preceduto davvero o accompagnato la chiamata altrove annunciata di Tajani, con tanto di offerta di incarico interno creato apposta per la Moratti, dopo che in una intervista aveva chiuso la breve esperienza vissuta di una moderata aspirante nelle ultime elezioni regionali alla presidenza della Lombardia col sostegno anche del Pd.

         “L’operazione Moratti -ha scritto sul Fatto Quotidiano Gianluca Roselli con l’aria di saperne abbastanza- si muove su due binari”, anch’essi come quelli del congresso. “Il primo -ha spiegato il collaboratore di Marco Travaglio- è ridare fiato a FI che, con la leadership di Tajani va stancamente. Per le Europee, deve aver pensato anche Marina, serve una figura forte per una campagna che si annuncia agguerritissima. E Moratti sembra perfetta. Lei continua a ribadire che non si candiderà, ma chi la conosce è pronto a giurare il contrario”.

         Passiamo al “secondo binario”. “L’operazione Moratti -ha scritto, riferito, intuito, fantasticato, come preferite, il cronista del Fatto- potrebbe nascondere la volontà di cessione della ditta: i Berlusconi non richiederebbero più indietro i famosi 100 milioni di debito, a patto che tutte le nuove spese se le accolli la Moratti, che a quel punto diventerebbe la nuova proprietaria del partito. Difficile che l’ex presidente della Rai accetti, ma la voce circola”. E quelli del Fatto l’hanno raccolta intingendo il biscotto nel veleno di una citazione di Licia Ronzulli, attuale capogruppo forzista al Senato, che diede a suo tempo alla Moratti -quando ruppe col presidente della Lombardia, il leghista Attilio Fontana, cercando di succedergli- della “signora annoiata e in cerca di una poltrona” più importante di quella di assessore ottenuta in regione.

         In attesa di capire davvero se la cosiddetta “operazione Moratti” sia avvenuta e continui con un “Tajani scavalcato”, come ha titolato Il Fatto nel richiamo di prima pagina, e senza la pretesa di distoglierlo più di tanto dalle vere guerre di cui deve occuparsi dalla sua postazione di governo, penso che il segretario di Forza Italia debba anche guardarsi da qualche socio di maggioranza che lavora con la vecchia astuzia democristiana per spostare non solo pedine ma soprattutto voti dal suo partito ai fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, con i quali non a caso egli è appena tornato in Parlamento. Mi riferisco a Gianfanco Rotondi, già ministro di Berlusconi quando si faceva eleggere nelle sue liste.

Rotondi da presidente di una fondazione intestata al compianto Fiorentino Sullo, della sinistra poi capeggiata  nello scudo crociato da Ciriaco De Mita, ha organizzato per il 27 e il 28 ottobre un convegno a Saint Vincent -dove il compianto Carlo Donat-Cattin riuniva ogni anno gli amici di corrente- per associare le memorie di Silvio Berlusconi e di Arnaldo Forlani, morti entrambi nella scorsa estate. Un’associazione di amici, che si stimavano, utile anche a sognare nel centrodestra un partito delle stesse dimensioni della Dc. Ma esso a questo punto, con l’aria che tira nei sondaggi, e col ricordo troppo lontano della Forza Italia al 30 per cento delle elezioni europee del 1994, non potrebbe che essere il partito della premier in carica, ormai attestato proprio attorno a quella consistenza.

Pubblicato sul Dubbio

Biden trattiene gli israeliani ma viene contestato dalle piazze arabe

Su quella faccia un po’ dimessa e rassegnata del premier israeliano mentre si accomiata -credo- dal presidente americano o lo ascolta nel briefing davanti alle telecamere nella sua breve e dimezzata missione in Medio Oriente si legge con chiarezza tutto il dramma ebraico anche di questo secolo. Non è bastato evidentemente quello del secolo scorso, cioè l’Olocausto compiuto da Hitler. Che tutti, inorriditi, a guerra mondiale finita promisero che non avrebbero mai più permesso.

         Diciamo le cose come stanno realmente, senza infingimenti. Joe Biden ha trattenuto Israele sulla strada della reazione, pur giustificata in partenza e in qualche modo protetta da due portaerei degli Usa mandate in prossimità del teatro di guerra scatenata il 7 ottobre dal proditorio attacco dei terroristi palestinesi di Hamas. Eppure il presidente americano non è riuscito a spegnere il fuoco nelle cosiddette piazze arabe, che non gli hanno creduto. Esse, da Beirut al Marocco, come ha titolato il Corriere della Sera, sono insorte contro lo sgradito ospite del Medio Oriente, incoraggiate sostanzialmente dal presidente egiziano, dal re di Giordania e dal presidente della cosiddetta Autorità Palestinese sottrattisi ad un incontro con Biden cui inizialmente si erano mostrati disponibili. E lo hanno fatto col pretesto di una strage -quella nell’ospedale di Gaza- intervenuta con sospetto tempismo e dall’assai controversa paternità. Hamas e Israele si palleggiano o rinfacciano le colpe: la prima creduta dalle piazze, appunto, e la seconda creduta da Biden anche per quel che risultava e risulta al Pentagono.

         In Italia “la rabbia araba”, come l’ha chiamata Il Messaggero, ha subito attecchito purtroppo, e al solito, a sinistra. Dove, pur giuntovi da altri lidi, avendo a suo tempo sostenuto la fine delle ideologie e dei vecchi schemi politici e messosi a contemplare ammirato, le cinque stelle del movimento grillino, peraltro fondato da un comico abituato a frequentare nei suoi soggiorni romani l’ambasciata della Cina comunista; in Italia, dicevo, la “rabbia araba” ha trovato la sua eco nel titolo dell’ormai sinistro -politicamente- Fatto Quotidiano. Che ha accusato Biden di “doppio gioco”.

Quello degli altri invece, da Al Sisi ad Abu Mazen, sarebbe un gioco unico, lineare, tutto a favore della pace nel tormentatissimo Medio Oriente. Dove i palestinesi, e non solo gli israeliani, sono le vittime di campagne d’odio senza fine. D’odio -aggiungo- e anche di interessi ai quali non sono estranei né la Russia né la Cina, i cui capi non a caso hanno trovato proprio in questi giorni l’occasione di un incontro diretto e amplificato mediaticamente.

Poveri israeliani e poveri arabi, poveri ebrei e poveri palestinesi. E povera Europa, sempre ai margini con i suoi confini, di terra e di acqua, violati di giorno e di notte da disperati in fuga infiltrati da terroristi di esportazione, o formazione, come quel tale sbarcato a Lampedusa e finito stragista a Bruxelles.  

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La missione di Biden tra i carboni ardenti del Medio Oriente, e altrove

         Peggio, di certo, non poteva cominciare la missione del presidente americano Joe Biden in Medio Oriente partendo dagli Stati Uniti con quel suo modo inconfondibile di impugnare il corrimano della scaletta dell’aereo per non inciampare, come gli è capitato qualche volta impietosamente ripreso dai fotografi.

In un incrocio di tempi a dir poco sospetto il capo della Casa Bianca si è messo in viaggio mentre nel territorio di Gaza, assediato dalle forze armate israeliane nella guerra provocata il 7 ottobre da una strage compiuta in terra ebraica dai terroristi palestinesi di Hamas, veniva provocata l’esplosione di un ospedale. Dove sono morti circa cinquecento fra ricoverati, medici, infermieri e rifugiati nella fuga dalle loro abitazioni minacciate dalle incursioni aeree.

Di questa esplosione dell’ospedale i terroristi palestinesi hanno denunciato la responsabilità anche degli americani in quanto alleati e sostenitori degli attaccanti israeliani. Ma Israele nega di avere mai messo fra i suoi obiettivi quell’ospedale così affollato, che sarebbe stato invece colpito da un razzo di Hamas lanciato contro il territorio ebraico ed esploso in partenza, magari con altri ordigni che i palestinesi nascondono nel sottosuolo, anche di un ospedale.

Più ancora dei già tanti, troppi morti e feriti di questa esplosione a Gaza e, più in generale, di questa guerra riaccesasi il 7 ottobre scorso, pesa sulla situazione mediorientale e sulla stessa missione decisa da Biden, nel tentativo di fermarla o di contenerne gli effetti, il clima di odio, di sospetto, di paura ulteriormente cresciuto sul posto e altrove, anche molto lontano, in Europa. Dove a Bruxelles, per esempio, un cosiddetto lupo solitario sbarcato a suo tempo a Lampedusa ha ammazzato due svedesi prima di essere scoperto ed eliminato dalla polizia.

A Parigi sono stati blindati interi quartieri, in Spagna e in Germania sono stati alzati i livelli di sicurezza, a Milano sono stati cautelativamente arrestati degli arabi malintenzionati e sulle coste è aumentato l’allarme per la presenza di terroristi fra i tanti migranti irregolari che vi sbarcano di giorno e di notte. E non possono essere tutti trattenuti per i controlli perché ve ne sono di liberati da giudici ordinari che, sostituendosi a quelli costituzionali dell’omonima Corte operante di fronte al Quirinale, considerano illegittime le norme applicate dalle Questure nei fermi. E guai a lamentarsene, come ha fatto la premier in persona Gorgia Meloni, “basìta”, o il suo principale sottosegretario Alfredo Mantovano, perché da fior di costituzionalisti e da quasi tutti i partiti di opposizione si ritiene minacciata l’indipendenza, l’autonomia e quant’altro della magistratura.

Certo, ci sono i ricorsi con i quali i questori potrebbero far valere le loro ragioni, ma nel frattempo i migranti irregolari messi in libertà possono essere fuggiti, com’è accaduto proprio in questi giorni, e ripetere il percorso di quel” lupo solitario” a Bruxelles.  

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E’ tempo purtroppo di coperte corte e di storie dolorosamente lunghe

         E’ tempo purtroppo di coperte corte, mentre peraltro torna il freddo, o va via il caldo, e di storie lunghe.

         E’ corta, ad esempio, per rimanere nei nostri angusti confini nazionali, la coperta della legge finanziaria appena varata dal governo: sia nella versione di 24 miliardi del Corriere della Sera sia in quella di 28 dello specializzato Sole 24 Ore e di altri giornali. Aumenta il debito ma non si riduce di altrettanto il disagio sociale, a dir poco, che la stessa premier Giorgia Meloni riconosce ma spera di diminuire più avanti, comservandole le opposizioni, con le loro divisioni e le loro inconsistenze, una prospettiva di governo quinquennale, quanto la durata ordinaria della legislatura uscita dalle urne del 2022 .Non è una manovra da lacrime e sangue ma da pizza e funghi, si dicono inseguendosi un immaginario ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti -penso- e la presidente del Consiglio nella vignetta impietosa  di  Stefano Rolli sul Secolo XIX.

         Stanno diventando corte, ancora più drammaticamente oltre i confini, le coperte degli ucraini per proteggersi dai russi di Putin e degli israeliani per difendersi dai terroristi di Hamas che li hanno attaccati. Più passano i giorni, più si ammassano truppe e carri armati d’Israele attorno alla cosiddetta striscia di Gaza, da cui cercano di scappare i palestinesi da sempre usati come scudi umani dai terroristi che vogliono far credere di difenderne i diritti; più cresce a Tel Aviv e a Gerusalemme la voglia di “tagliare la testa al serpente”, come scrive e titola Mario Sechi su Libero, più gli alleati americani mostrano di temere il cosiddetto allargamento del conflitto pur previsto inviando due delle loro portaerei più potenti davanti alle coste del Medio Oriente per proteggere quell’avamposto occidentale che è lo Stato ebraico. Domani sarà il presidente  Joe Biden in persona a completare l’opera del suo Segretario di Stato sul posto e a correre da Nethanyau per “provare a frenarlo”, titola con speranza l’Unità.

         Se la coperta si accorcia, o mostra di accorciarsi, la storia dell’antisemitismo e antisionismo, messi giustamente sullo stesso piano dal compianto Giorgio Napolitano, si allunga. Come quell’ombra che Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera proietta efficacemente fra il carnefice e il bambino ebreo romano mandato a morire nel 1943 col rastrellamento del ghetto, meno lentamente ma non per questo meglio dei bambini sgozzati il 7 ottobre scorso nelle culle dai “nuovi nazisti”. Così Il Foglio chiama giustamente i terroristi palestinesi di quel 7 ottobre scorso in territorio israeliano e quelli più o meno dormienti in Europa, magari accanto a noi in un autobus, non necessariamente davanti ad una sinagoga ben protetta. Come forse eri a Bruxelles si sentivano protetti i due assassinati per strada dall’emulo dei terroristi che proprio da lì partirono 8 anni fa per la strage parigina al Bataclan.

         La storia è lunga, ripeto. Spero che la memoria non si accorci una  coperta.

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Giuseppe Conte canta con Gino Paoli contro l’elmetto

Più di un casco di sicurezza da cantiere, magari in uno dei tanti ancora aperti per il rifacimento delle facciate dei palazzi, di cui egli va particolarmente fiero a dispetto di tutti i buchi che lo accusano di avere procurato alle finanze pubbliche, non riuscirete mai a far mettere sulla testa a Giuseppe Conte. L’ex premier, e ora presidente solo di quel che rimane del Movimento 5 Stelle, non vuole neppure sentir parlare di elmetti. Vi sembra anche fisicamente allergico come Gino Paoli che cantava: “Quando si va in guerra c’è l’elmetto che si mette proprio sulla testa. Ci vuole una testa fatta apposta, fatta un po’ diversa dalla mia”.  Si chiamava “all’est niente di nuovo” quella canzone che dev’essere molto piaciuta all’ex presidente del Consiglio.  

Qualche giorno fa, preso fra la vecchia guerra ormai in Ucraina, scoppiata quando lui per fortuna non era più a Palazzo Chigi ma era rimasto nella maggioranza mandando Luigi Di Maio al Ministero degli Esteri, e quella nuova -l’ennesima- cui è stata costretta Israele dall’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, Conte ha detto che “Il Pd non s’è ancora tolto l’elmetto”. E ha seminato di altri chiodi il terreno del “campo largo” che già gli aveva procurato “l’orticaria” e la nuova segretaria del Nazareno Elly Schlein vorrebbe invece comporre o ricomporre con lui dopo la rottura del suo predecessore Enrico Letta.

         Di certo quest’ultimo al casco non credo che sia diventato allergico. Quella vecchia foto che lo ritrae in tenuta semi-militare scendendo da un elicottero della Difesa lo inchioda in qualche modo all’immaginario di Conte. Che ogni tanto intravvede quel casco anche addosso a chi ne ha preso il posto alla guida del Pd. Dove forse sono rimasti ancora troppi dirigenti dei quali il presidente grillino avrebbe desiderato vedere l’uscita con l’arrivo della Schlein, tipo l’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini ora presidente del Copasir. Se ne sono invece andati altri di tono o peso considerato minore, a torto o a ragione.

         Il direttore in persona di Repubblica, Maurizio Molinari, volendo fiduciosamente dimostrare l’esistenza di una “Italia bipartisan di Meloni e Schlein” alle prese con le guerre che vanno “dall’Ucraina a Gerusalemme”, quando sotto il titolo dell’editoriale ha dovuto fare i nomi dei dirigenti del Pd espostisi con maggiore chiarezza ha dovuto fermarsi, limitarsi e quant’altro a quelli di “Beppe Provenzano, responsabile esteri, e Lorenzo Guerini. Così come scrivendo degli uomini del centrodestra ha dovuto fermarsi al ministro forzista degli Esteri Antonio Tajani e al ministro della Difesa, e fratello d’Italia, Guido Crosetto, senza neppure allungare lo sguardo al Carroccio di Matteo Salvini.

Nella Lega sotto sotto -nonostante la partecipazione dello stesso Salvini alle proteste per la presenza di un ex terrorista rosso al corteo anti-israeliano a Milano, e la sua polemica con la ministra spagnola Irene Montero per il presunto scarso impegno contro Hamas-  si è forse tentati a riconoscersi più con Conte che con Tajani, come ai vecchi tempi della maggioranza gialloverde, fra il 2018 e il 2019. Prima che il capo del Carroccio, inebriato dal 34 e più per cento di voti appena raccolti nelle elezioni europee, perdesse un po’ la testa al mare e reclamasse i pieni poteri tramite un rapido passaggio elettorale. Di cui però si era dimenticato di accertare il primo presupposto: la disponibilità del presidente della Repubblica Sergio Mattarella a sciogliere le Camere anticipatamente. L’altro presupposto era la disponibilità vera del Pd alle elezioni, non quella a parole dell’allora segretario Nicola Zingaretti, improvvisamente convinto dall’ancora compagno di partito Matteo Renzi a cambiare idea e a consentire a Conte un cambio di governo e di maggioranza.

         A parte la presunta o vera “Italia bipartisan di Meloni e Schlein dall’Ucraina a Gerusalemme”, che secondo Molinari “rafforza la credibilità internazionale dell’Italia”, per tornare a Conte e alla sua allergia tipo Gino Paoli all’elmetto bisogna stare attenti ad attribuirgli debolezze o altro di simile verso il terrorismo palestinese di Hamas. Il capo della comunità ebraica di Milano Walker Meghnagi ha appena dovuto scusarsi pubblicamente per avergli dato dell’antisemita, risparmiandosi così una querela già annunciata. Ma per una diabolica coincidenza quel 18 per cento di disponibilità al voto attribuito ai “solidali” con Hamas da un sondaggio di Noto citato dal direttore di Repubblica verso la fine delle sue considerazioni è di poco più di un punto superiore al 16,9 attribuito al Movimento 5 Stelle dall’ultimo sondaggio Ipsos. O al 16,5 dell’ultimo sondaggio Swg. Coincidenza, ripeto, diabolica, come solo la politica sa riservarne.

Pubblicato sul Dubbio

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