L’urlo degli ostaggi da Gaza sommerso a Roma da quello fantomatico di Repubblica

         I partiti di opposizione al governo, così divisi fra di loro e pasticciati anche all’interno da essere considerati non a torto i principali alleati del “Gabinetto” di Giorgia Meloni, per chiamarlo con l’ironia pungente di Davide Giacalone sulla Ragione per il modo col quale ha preparato la legge di bilancio, zigzagando fra un’infinità di bozze, hanno finalmente trovato chi sta messo peggio di loro. Sono i giornaloni, come li chiama da qualche tempo anche la premier: quelli di maggiore diffusione e pretese di rappresentare o influenzare, come preferite, l’opinione pubblica che diventa ogni cinque anni, salvo anticipi, l’elettorato nazionale chiamato alle urne.

         Pur posseduti di fatto dallo stesso proprietario, un nipote del compianto Gianni Agnelli che però non ne porta neppure il cognome, né ha pensato di farselo almeno aggiungere come qualcuno fa assumendo anche quello della mamma, i due maggiori giornali italiani – la Repubblica e La Stampa- si sono divisi oggi nella lettura, valutazione e quant’altro delle emergenze in cui ci troviamo.

         Per La Stampa, fresca peraltro di un cambio di direzione, a fare paura è “l’urlo degli ostaggi” arrivato dal sottosuolo di Gaza, dove i terroristi di Hamas ne hanno selezionati tre, tutte donne israeliane, per fare intimare a quel boia che è già diventato nelle piazze anche italiane Nethanyau, la cui stella di David è stata affiancata alla svastica di Hitler, di smetterla di reagire agli eccidi di ebrei del 7 ottobre e di liberare piuttosto tutte le migliaia di detenuti palestinesi nelle carceri d’Israele per scambiarli, come reclama Hamas, con i duecento e rotti sventurati catturati in quell’infame progrom.

         Per la Repubblica– il cui direttore Maurizio Molinari scrive da o su Israele non tanto o non solo commenti tutti giustamente favorevoli al suo diritto di esistere, ma saggi di decine di migliaia di parole l’uno per descrivere nei più piccoli particolari le drammatiche condizioni in cui quello Stato è costretto a vivere dalla sua fondazione- sull’urlo degli ostaggi trattenuti nel sottosuolo di Gaza prevalgono come motivo di allarme “le mani sulla Repubblica” italiana, quella vera e non di carta fondata nel 1976 da Eugenio Scalfari. Mani che il governo Meloni ha deciso di mettere con la riforma costituzionale del cosiddetto premierato, inteso come elezione diretta del presidente del Consiglio, come se fosse il sindaco d’Italia. “Le mani sulla Repubblica”, ripeto, con tutto ciò che una formula del genere comporta nell’immaginario collettivo. Una manomissione, appunto, simile se non peggiore di altre inutilmente tentate in passato da Berlusconi prima e da Renzi poi.

         Diversamente da Repubblica, quella di carta, La Stampa tuttavia ha titolato in prima pagina, al pari del confratello Secolo XIX, che “Il Colle è pronto al via libera”. Il che sembra smentire la rappresentazione del quotidiano diretto da Molinari perché Sergio Mattarella non mi pare un presidente disposto a far manomettere la “sua” Repubblica.

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Quell’enorme e un pò vile Consiglificio cui è ridotto l’Occidente in Medio Oriente

         Osserva giustamente Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera, a più di venti giorni dagli eccidi di ebrei uccisi, feriti o sequestrati in terra israeliana dai miliziani di Hamas usciti dalle viscere di Gaza, dove operano usando i palestinesi come scudi umani, che “nella stragrande maggioranza dei tallk televisivi e dei commenti della stampa, nelle dichiarazioni pubbliche di tutto lo schieramento di centro-sinistra (ma non solo) ha sempre più spazio il tema “consigli a Israele”. Cui è “tutto un mettere in guardia contro gli eccessi della reazione …a non esagerare, a fare attenzione alle conseguenze”. Non parliamo poi delle piazze, anche quelle italiane, dove la stella di David dello Stato ebraico è affiancata alla svastica della Germania che fu di Hitler e le bandiere di Israele faticano a rimanere al loro posto, come quella tirata giù dai pennoni della sede romana della Fao da un manifestante emulo a suo modo dei programmi e delle azioni dell’organizzazione terroristica appena scambiata da un socio della Nato come la Turchia di Erdogan, sul fronte sud dell’alleanza atlantica,  per  un’organizzazione di “liberatori” dei palestinesi da “56 anni di occupazione israeliana e di violazione dei diritti umani”, quasi contemporaneamente deplorati a New York  non da qualche delegato arabo ma dal segretario generale in persona dell’Onu, il portoghese Antonio Manuel de Oliveira  Guterres. Per carità, non togliamo nulla al suo lungo nome.

         L’ex direttore dell’Espresso ed ex parlamentare della sinistra Tommaso Cierno ci ha proposto sulla sua Identità una versione trasteverina  “de  noantri” di Hamas con una bandiera italiana stampata in arabo, diciamo così, e in fiamme come prima o dopo vedremo nelle piazze, accanto a quelle israeliane e americane, vista la linea di politica estera assunta dal governo in carica di Giorgia Meloni. Che neppure lei tuttavia, come Biden alla Casa Bianca e persino in Israele, quando vi è andato di persona dopo gli eccidi del 7 ottobre, si è risparmiata qualche invito alla prudenza nelle reazioni ebraiche.

         Tutto questo enorme Consiglificio cui sembra ridotto l’Occidente, e che contribuisce a indebolire ulteriormente il premier israeliano in patria pur omaggiato da visite di sostegno a questo punto più apparente che reale, è silente o innocuo nei riguardi Hamas. Cui in pratica si è finito per riconoscere il diritto vigliacco e sanguinario di coprirsi dietro e sotto gli ormai affamati palestinesi, le loro case , i loro ospedali, le loro scuole, le loro chiese, con gli arsenali militari e gli ostaggi ebrei catturati nel progrom del 7 ottobre.

         Non ha torto Giuliano Ferrara a scrivere sul suo Foglio che “le piazze per il cessate il fuoco” degli israeliani impegnati a difendere le loro vite “sono le piazze dei guerrafondai” veri, perché “le cose giuste spesso non sono compassionevoli”. E perché “a dispetto delle folle che gridano Non in may name, bisogna snidare e colpire i terroristi dove si nascondono e conseguire l’obiettivo della sicurezza e della pace”.

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Dalle piazze non acqua ma benzina sulle fiamme in Medio Oriente

Oltre che antistorica, essendo lo Stato ebraico il prodotto, non la causa, dell’antisemitismo nazista, è semplicemente infame, indecente quella equazione sventolata nelle piazze del pacifismo fra la stella di David d’Israele e la svastica della Germania di Hitler. E c’è ancora chi si meraviglia a sinistra, come anche il mio amico Piero Sansonetti sull’Unità di ieri, ma anche su quella di oggi, come il suo Pd, per quanto mi par di capire, nonostante il compianto Emanuele Macaluso si fosse ben guardato dal farne parte, sia un po’ l’Araba fenice. Che nessuno sa dove sia, se fuori da quelle piazze come la segretaria Elly Schlein, pur eletta “dai passanti” secondo Aldo Grasso oggi sul Corriere della Sera, o dentro come altri esponenti convinti -per esempio, Susanna Camusso- che la capa del partito fosse soltanto impegnata altrove.

         Non dico indecente come l’associazione cartellonisica fra la stella di Israele e la svastica di Hitler, ma alquanto curiosa trovo la sorpresa manifestata a sinistra, e questa volta congiuntamente dalla Schlein e da Giuseppe Conte non ritrovatisi in piazza, per l’astensione dellI’Italia del governo Meloni, al pari di altri 45 Paesi fra i quali la Gran Bretagna e il Giappone, di una mozione -passata con 120 voti- per una immediata tregua umanitaria a Gaza senza neppure un inciso di condanna dell’eccidio di ebrei compiuto il 7 ottobre scorso dalla palestinese Hamas  in territorio israeliano. Ma l’aveva già deplorato -ho letto e sentito da qualche parte- il segretario generale dell’Onu Guterres. Sì, ma con tale convinzione e chiarezza, addebitandone la causa a “56 anni di occupazione e di violazione dei diritti umanitari” da parte israeliana, da essere apparso un….sottosegretario, con tutto il rispetto che meritano, per carità, i sottosegretari di un qualsiasi governo.

         Persino l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, così bravo da essere diventato, come ogni tanto ricordo, un quasi senatore a vita o di diritto del Pd col favore dei suoi elettori bolognesi, renitenti l’ultima volta anche alla  missione di disturbo compiuta sul posto da Vittorio Sgarbi candidandosi per il centrodestra; persino Pier Ferdinando Casini, dicevo, ha appena “capito le perplessità espresso sul voto dell’Italia all’Onu, ma è anche difficile votare un documento in cui manca una esplicita condanna contro Hamas”.

         Certo, l’Italia avrebbe potuto fare come la Francia e la Spagna, che hanno votato a favore,ma anche contro come hanno fatto Israele e gli Stati Uniti, tanto per darvi un’idea di ciò che è diventata l’Onu, sfuggita all’Inferno di Dante solo perché non c’era ancora quando il poeta lo perlustrò con Virgilio. Mi spiace per la fiducia che ancora vi ripone il buon Sergio Mattarella al Quirinale, dove ha appena raccomandato non di criticare ma di aiutare le Nazioni Unite.

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Quella ferocia di Hamas di nascondersi sotto gli ospedali e le case dei palestinesi

Altro che “alla cieca”, stampato dal manifesto sulle fiamme e sul fumo di Gaza bombardata dagli israeliani in preparazione dell’invasione di terra programmata dopo le stragi subite da quella direzione il  7 ottobre. E ritardata nel tentativo di ottenere nel frattempo la liberazione di più ostaggi possibili rapiti quel giorno dai terroristi palestinesi di Hamas e custoditi, si fa per dire, nei sotterranei della Striscia, con o negli arsenali e comandi militari. Il principale dei quali, o uno dei maggiori, è stato individuato dai noti mezzi sofisticati dell’esercito d’Israele, secondo le rivelazioni del portavoce, sotto il maggiore ospedale di Gaza, Al Shifa.

In quell’ospedale più ancora dei malati e dei feriti si trovano anche, come sardine, gli sfollati che hanno perduto le case e gli stessi miliziani di Hamas. I cui vertici naturalmente smentiscono perché non hnno ancora trovato la sfacciataggine di vantarsene, come di tante altre nefandezze compiute nella presunta lotta per la libertà della Palestina, a parole, e per il più reale e infame esercizio del diritto proclamato di sterminare gli ebrei. Come si era proposto di fare Hitler in una guerra interrotta dalla sconfitta militare e dal suo tardivo suicidio.

         Solo a raccontare il presente e a risalire al passato vengono brividi da raccapriccio. Che ho l’ingenuità di credere, o sperare, che prima o poi, tra una fiaccolata e l’altra, un comizio e una festa elettorale come quella celebrata di recente a Foggia per l’elezione della sua candidata a sindaco in un campo che lui ha preferito definire giusto anziché largo, anche Giuseppe Conte comincerà ad avvertire veramente. La speranza, si sa, à sempre l’ultima a morire.

         Prima o dopo anche l’ex premier, avvocato del popolo, Camaleonte e com’altro lo si voglia definire, non potendosi sottrarre quanto meno al dubbio, dovrà chiedersi se è più feroce, criminale, infame fare dei sotterranei di un ospedale una base militare, come un po’ tutto è diventato del resto il sottosuolo di Gaza amministrata e governata da Hamas, o doverlo colpire da parte di chi è costretto a difendersene.

Non sto chiedendo a Conte di infilarsi un elmetto al quale so quanto lui si senta allergico, vedendone un’infinità sulle teste degli altri, anche della segretaria del Pd Elly Schlein che frequenta fra piazze e bar, secondo le circostanze. Gli sto solo chiedendo di usare quel cervello custodito nella testa con la semplice protezione dei capelli per ragionare. Da umano, mi verrebbe voglia di aggiungere.

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Il Conte largo di Foggia si è ristretto nella fiaccolata della pace a Roma

Largo, larghissimo, enorme o soltanto “giusto” che sia, come ha voluto definirlo  con apparente sobrietà Giuseppe Conte sul posto intestandoselo accanto alla sindaca appena eletta -dopo averne imposto la candidatura ad un Pd che pure precede ancora i grillini nelle urne-  il campo di Foggia si è già ristretto. Ne rimane solo l’ombra, o il ricordo dei titoli altisonanti di qualche giorno fa nella fiaccolata romana della pace per il Medio Oriente. Dove la pace per essere vera dovrebbe soddisfare secondo i promotori della manifestazione le attese non di Israele, dopo le migliaia di ebrei morti e feriti negli assalti terroristici di sabato 7 ottobre, ma di Hamas. Che continua a tenere nei sotterranei di Gaza gli ostaggi catturati una ventina di giorni fa e in superficie i palestinesi. I quali perdono vite e case ogni giorno per i missili che Hamas continua a sparare contro Israele, qualche volta con traiettorie autolesioniste, e quelli che Israele lancia su Gaza per neutralizzarne i depositi.

         Originariamente tentata solo dall’idea di non aderirvi personalmente, e quindi di non unirsi a Conte vi aveva messo il cappello, la segretaria Elly Schlein ha deciso di negare l’adesione del Pd, declassando a personali tutte le presenze di esponenti del partito invitati dall’Unità di Piero Sansonetti a esserci per “battere un colpo”. Anche a costo di fare affogare il povero Corrado Augias nelle lacrime di dolore e di rabbia che sta versando in questi giorni, tra dichiarazioni, articoli e interviste, sulla sinistra tenera con Hamas come i turchi. Il cui presidente Erdogan ne ha lodato i miliziani come “liberatori”, non terroristi. E pensare, caro Augias, che la Turchia è la frontiera meridionale della Nato. Che dovrebbe stare a Israele politicamente come, più a nord, all’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin.

         La decisione di non limitare alla sua assenza la distanza dalla fiaccolata della pace sospetta filo-Hamas, con la richiesta di una cessazione delle ostilità della sola Israele e non anche dei terroristi che l’attaccano con i loro missili, è stata presa dalla Schlein consultando tutti i componenti della segreteria e altri esponenti del partito, fra i quali l’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini e la deputata Lia Quartapelle. Ne ha scritto dettagliatamente sul Corriere della Sera Maria Teresa Meli. Ciò conferma il clima di preoccupazione, quanto meno, esistente nel Pd sui delicatissini temi della politica internazionale e dei rapporti col Movimento 5 Stelle. Cui molti lamentano che la Schlein stia concedendo troppo anche sul piano locale per coltivare un progetto di improbabile ripresa dell’alleanza a livello nazionale.

         Consumatasi la partita di Foggia con la sostanziale cessione della carica di sindaco alla candidata di Giuseppe Conte, che ne ha decantato il carattere “tosto” in dialetto pugliese nella festa dell’elezione, se ne sta sviluppando una alquanto scabrosa in Sardegna. Dove l’ex presidente Renato Soru ha appena avvertito che non accetterà di subire l’anno prossimo la candidatura di una grillina alla quale a Roma sarebbero state fatte già delle promesse. O Conte accetterà quello che rifiuta altrove, cioè il ricorso alle primarie per designare il candidato comune di una eventuale alleanza con i pentastellati, o Soru si presenterà da solo, anche a costo di spaccare il partito e di far vincere il centrodestra. E’ un po’ quanto intende fare in Campania, quando sarà il momento, il governatore uscente Vincenzo De Luca notoriamente sgradito alla Schlein.

Pubblicato sul Dubbio

Matteo Salvini è ormai l’Erdogan di Giorgia Meloni nel governo

         Meno male che in questa nostra Repubblica delle Procure, che contano ben più del governo di turno e di tutti i patiti messi insieme, anche di quelli che le sostengono e ne amplificano le iniziative, non è ancora venuto in mente a nessun magistrato di considerare un falso in atto pubblico un titolo di giornale incomoleto. In fondo che cosa c’è di più pubblico di un titolo di giornale? Che spesso deforma la realtà semplicemente mutilandola. Come hanno fatto, per esempio, oggi il Corriere della Sera, il Giornale e Libero attribuendo alla premier il merito -presumo- di avere stoppato nella legge di bilancio, ancora a livello di “bozze” pur essendo passato un bel po’ di giorni dall’approvazione in Consiglio dei Ministri, il clamoroso diritto reclamato dal fisco di intervenire sui conti bancari risparmiandosi tutte le altre, più lunghe procedure per incassare quello che reclama dai contribuenti.                

         In realtà, la Meloni molto meno autonomamente e volentieri ha dovuto fare il “dietrofront” contestatole da Repubblica per l’altolà imposto dal vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini a lei e al suo ministro dell’Economia pur leghista Giancarlo Giorgetti. Un altolà che la premier, sempre secondo il racconto di Repubblica, avrebbe considerato un “agguato” sbottando nella promessa o minaccia, come preferite, di non lasciarsi più sorprendere e farsi “logorare”.

         “Meloni cede, salta il prelievo dai conti degli evasori”, ha titolato impietosamente Il Secolo XIX accusando così Salvini di averli praticamente difesi, protetti, corteggiati e quant’altro. Un “veto” provvidenziale, a leggere anche i titoli comuni dei giornali del gruppo Riffeser Monti – Giorno, Resto del Carlino e Nazione- contro misure così invasive.

         Mai una copertina dell’Espresso, pubblicata oggi ma preparata qualche giorno fa, è stata così attuale, o tempestiva, con quel titolo e fotomontaggio sui “carissimi nemici” che sarebbero la premier e Salvini, appunto. Che è un po’ diventato nella maggioranza di governo quello che nella Nato è, sul caldissimo fronte sud, il presidente turco Erdogan, difensore dichiarato dei “liberatori”, non terroristi palestinesi di Hamas.

  Meloni e Salvini sono ormai ancora più nemici di quanto stiano o rischino di diventare la premier e il vice presidente forzista del Consiglio Antonio Tajani dopo che la televisione di riferimento del partito lasciato da Silvio Berlusconi ai suoi eredi ha quanto meno contribuito a sfasciarle la famiglia di fatto. Quei fuorionda rubati al pur imprudente Andrea Giambruno, facendogli perdere insieme la convivenza con la premier e la conduzione del suo diario televisivo, sono ormai dei paracarri nei rapporti tra la Meloni, Biscione e dintorni, comprensivi dell’onnipotente Antonio Ricci e del frigorifero in cui si è vantato di conservare la merce della sua “Striscia la notizia”.   

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Marina Berlusconi stima molto la Meloni, ma forse anche Antonio Ricci

La stima, la fiducia e quant’altro di cui Giorgia Meloni ha bisogno per realizzare il proposito ribadito ieri di governare almeno per altri quattro anni, quanti ne mancano alla fine della legislatura e alla verifica delle elezioni politiche, sono notoriamente quelle delle Camere. A meno che qualcuno prima o dopo non riesca a modificare l’articolo 94 della Costituzione, che ne tratta in cinque capoversi, o commi. Ma Marina Berlusconi, soppiantando il fratello Pier Silvio  che si occupa delle televisioni di Mediaset, e forse tradendo “le paure” attribuitele proprio oggi da un retroscena  in rigoroso giallo sulla prima della Stampa, ha voluto “scendere in campo”, come ha titolato Il Giornale ancora un po’ di famiglia, e annunciare la stima, anzi la molta stima, che ha della premier. Lo ha fatto cogliendo al volo l’occasione offertale da Bruno Vespa con una delle interviste che raccoglie per l’ormai solito libro di fine anno, E che  contribuiscono ad alimentare in questa stagione il dibattito politico grazie a tempestive anticipazioni.

         Molta stima Marina Berlusconi nutre probabilmente anche per Vespa, avendo ereditato quella che il padre manifestava partecipando alle presentazioni dei suoi libri-strenna e frequentando il suo salotto televisivo di Porta a Porta. Avrebbe scuramente onorato anche i suoi cinque minuti quotidiani dopo il Tg1 se la morte non ce l’avesse portato via il 12 giugno scorso.

         Una certa stima, nonostante qualche telefonata d’insofferenza dell’amico Fedele Confalonieri, che sopporta poco quelli che lui chiama “rompicoglioni”, Marina Berlusconi deve averla anche di Antonio Ricci. Che è l’autore, a contratto da sempre, prima alla Fininvest e poi a Mediaset, con quella “Striscia la notizia” che ha appena provocato, con la vecchia pratica del furto di fuorionda, la rottura di Giorgia Meloni dopo una decina d’anni di convivenza con Andrea Giambruno, padre della figlia Ginevra. Di questa rottura il Ricci non è per niente rammaricato, ma orgoglioso, visto che ha dichiarato ai quattro aventi di attendersi prima o poi i ringraziamenti della premier. Che  altrimenti non avrebbe mai scoperto l’inaffidabilità, a dir poco, del suo ingombrante e allupato compagno di vita a colloquio con le colleghe di redazione prima di andare in onda.

         Chissà se la “molta stima” -ripeto- espressa dalla primogenita di Silvio Berlusconi basterà a placare la Meloni “concentrata -nel titolo odierno del Foglio, e non solo nel retroscena già ricordato della Stampa– sulla guerra ad Hamas e su quella a Mediaset”. Che ormai può ben essere considerata, per le dimensioni e le partecipazioni procuratele in tanti anni di lavoro dal fondatore, uno dei cosiddetti poteri forti di questo nostro Paese. Un potere forte, peraltro, che dispone davvero, e alla luce del sole, anche di un partito, Forza Italia, praticamente indebitato per una fideiussione di 100 milioni di euro con gli eredi di Berlusconi. Un debito di cui non sarà ceto Antonio Tajani a liberarlo.

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La crisi dell’Onu ha ora il volto del suo segretario generale Guterres

         Ora ha anche un volto -quello del suo segretario generale Antonio Manuel de Oliveira Guterres, portoghese di 74 anni, per un po’ esule in Italia negli anni della dittatura nel suo Paese- la crisi morale, e non solo politica, dell’Onu. Che è inerme di fronte ad ogni conflitto in cui sono in gioco gli interessi di qualcuno dei paesi che hanno il diritto di veto -o di vetro, come titola il manifesto- nel Consiglio di Sicurezza.

         Ciò che questo signore ormai imbolsito ha raccontato parlando della guerra in Israele provocata dall’ultimo eccidio dei terroristi palestinesi di Hamas appartiene al “mondo alla rovescia” non del generale Roberto Vannacci, ma di Paolo Mieli nel titolo del suo editoriale di oggi sul Corriere della Sera. Dove si considera giustamente “un’enormità dall’innegabile sottinteso giustificazionista” la lingua e il dito puntati da Guterres, dopo gli eccidi terroristi in terra israeliama del 7 ottobre scorso, contro “i 56 anni di soffocante occupazione israeliana” e di violazioni, sempre da quella parte, del diritto umanitario.

  Eppure, nonostante il sospetto che alla luce di questo giudizio possano “apparire insincere” le parole di rammarico e deplorazione degli eccidi -ripeto- del 7 ottobre, e dei duecento ostaggi portati dai terroristi nei tunnel di Gaza, Mieli ha trovato “un eccesso di precipitosità” la richiesta delle dimissioni di Guterres avanzata dal delegato d’Israele. Siamo quasi al “ripudio dell’Onu” gridato con disapprovazione da Piero Sansonetti sull’Unità, che sempre di meno merita quella specie di scomunica levatasi, al suo ritorno in edicola, dai figli di Enrico Berlinguer, infastiditi anche o soprattutto dalle fotografie del padre riproposte ai lettori dal direttore.

         Cos’altro poteva fare e dire il delegato d’Israele, caro Mieli, dopo avere visto e sentito il segretario generale delle Nazioni Unite “giustificare”, come tu stesso hai convenuto, il terrorismo di Hamas? Che peraltro nuoce ai palestinesi, con l’aria di volerli difendere, ancor più che agli israeliani.  La protesta e la  richiesta di dimissioni di Guterres erano il minimo, non il massimo che ci si potesse aspettare. E se non servirà a rimuoverlo o a convincerlo alla rinuncia peggio sarà per le costosissime Nazioni Unite. Che affondano nelle sabbie di Gaza come in Ucraina, da dove, grazie anche a ciò che il segretario generale dell’Onu dice d’Israele, lo sciagurato Putin è riuscito a distrarre l’attenzione pubblica.

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La resa a Foggia del Pd della Schlein a Giuseppe Conte

Come nei bollettini di guerra di Benito Mussolini, la cui sola evocazione dovrebbe impensierire la baldanzosa segretaria del Pd Elly Schlein, i sostenitori del cosiddetto campo largo, esteso dallo stesso Pd al Movimento 5 Stelle, alla sinistra gialloverde e cespugli vari, si sono attestati su una nuova linea difensiva dopo il turno elettorale di varia natura di domenica scorsa: dalle suppletive di Monza per il Senato alle provinciali di Trento e di Bolzano e alle comunali di Foggia.

         E’ proprio a Foggia che si è attestata come in un fortino la linea difensiva del campo largo, anzi larghissimo: tanto largo, con le dieci liste di sostegno alla sindaca che è stata eletta al primo turno, da essere di improbabile riferimento altrove. Dove volete, per esempio, che potranno o vorranno trovarsi di nuovo insieme l’Azione di Carlo Calenda e l’Italia dei Valori di Matteo Renzi? Una coppia che più scoppiata non potrebbe essere. Non le terrebbe testa neppure quella di Giorgia Meloni e Andrea Giambruno asfaltata da Antonio Ricci con i fuorionda della sua “Striscia la notizia” fra lo stupore dei capi e sottocapi di Mediaset sempre più difficile da prendere sul serio. Cui chissà se riuscirà a mettere una pezza il solerte Adriano Galliani appena rimandato al Senato con 67.801 voti di brianzoli sottrattisi ad un astensionismo di circa l’ottanta per cento dell’elettorato. Voti fra i quali Galliani può vantarsi di aver potuto contare anche quello di Marta Fascina, una volta tanto uscita dal ritiro quasi vedovile di Arcore per contribuire alla successione parlamentare del suo Silvio Berlusconi.

         Oltre che troppo largo per essere esportabile o soltanto credibile, il campo sperimentato a Foggia è più di Giuseppe Conte che di ogni altro. Sua è stata la presenza più attiva nella campagna elettorale, da specialista della zona com’è per la sua provenienza dalla vicinissima Voltura Appula, che era una volta terra di avvoltoi, dal cui nome latino prese il nome. Sua, sempre di Conte, è la bollinatura della candidata a sindaco accettata da tutti gli altri, o a tutti gli altri imposta: la sessantenne dirigente scolastica Maria Aida Tatiana Episcopo.

 Non solo quindi, il Pd della Schlein nella capitale del tavoliere pugliese -13,66 per cento contro 12,32-  si è fatto quasi raggiungere dal Movimento 5 Stelle, che gli è indietro di solo un punto e qualcosa, ma ne ha subito la candidata senza alcun imbarazzo.

         Suo, sempre di Conte e del Movimento che presiede, è paradossalmente anche il contributo del Pd alla vittoria elettorale. Più ancora di Francesco Boccia, che guidò la campagna congressuale della Schlein ricavandone poi la carica di capogruppo al Senato, è contato nel Pd a favore della sindaca grillina il lavoro del governatore pugliese Michele Emiliano. Che a Bari – scusate la malizia- sta un po’ alla Schlein come a Napoli il governatore campano e compagno di partito Vincenzo De Luca. Di cui   è appena uscito un libro in cui il partito del Nazareno ha rimediato del “demente” e del “cafone”: un partito “nonostante” il quale De Luca ha scritto di riuscire a governare la sua regione.

         Di questo passo e in questo clima la Schlein si è attestata, ripeto, sulla sua nuova linea difensiva nella guerra che l’imprevista elezione a segretaria grazie all’apporto degli esterni, non ha spento ma inacidito.

Pubblicato sul Dubbio

Il lavoro che aspetta il….monaco di Monza Adriano Galliani

         Celebre per la monaca del Manzoni, “la sventurata” che “rispose” al suo corteggiatore, Monza ha ora un monaco del Berlusconismo, fedele come nessun altro alla buonanima del Cavaliere. Al cui solo ricordo Adirano Galliani si intenerisce. E gli passa la voglia anche di ridere della vignetta  di Stefano Rolli che lo rappresenta in attesa del “pullman di troie” una volta promesso da Berlusconi ai giocatori brianzoli se avessero vinto una certa partita. La sua, di candidato al Senato nelle elezioni suppletive indette per assegnare il seggio che fu di Berlusconi, il buon Galliani l’ha vinta sfidando non so se più il radicale Marco Cappato, sostenuto da quello che a sinistra si chiama “campo largo” mettendo insieme Pd, grillini e altro, o l’assenteismo. Che è stato non alto ma altissimo, avendo votato meno del 20 per cento degli elettori chiamati alle urne.

         Fra i 67.801 elettori che si sono mossi da casa per votarlo e farlo tornare al Senato, dove era già stato nella scorsa legislatura, Galliani è riuscito a smuovere persino Marta Fascina, la inconsolabile quasi vedova di Berlusconi. Che per lui ha fatto ciò che ha rifiutato a molti altri: uscire appunto dalla villa di Arcore, dove ha eletto domicilio anche politico, mettendo tanto di targa di segreteria dell’onorevole che è sulle porte di non so quante stanze diventate così inaccessibili, senza la dovuta autorizzazione della Camera, al malintenzionato magistrato che volesse metterci il naso.

         Fra i compiti che aspettano Galliani tra il Senato e tanti altri palazzi, romani e brianzoli, c’è quello di comporre, rimuovere e quant’altro i detriti del conflitto che molti giornali, a torto o a ragione, immaginano o raccontano tra il Biscione televisivo che lui conosce come le proprie tasche e la premier Giorgia Meloni. Che ha dovuto liberarsi del padre di sua figlia Ginevra, Andrea Giambruno, per gli imbarazzanti fuorionda praticamente rubatigli dalla “Striscia la notizia” di Antonio Ricci. Che ora reclama anche i ringraziamenti  per averle permesso di capire di che pasta fosse davvero l’uomo di cui così a lungo si era fidata.

         Proprio oggi, mentre la Repubblica di carta continua a titolare in prima pagina sulla Meloni che studia o esegue ritorsioni con uno “schiaffo all’uomo di Mediaset” e uno “stop” a un disegno di legge di un ministro di Forza Italia, un giornale come Il Foglio, non certo sospettabile di prevenzione verso le aziende che furono di Silvio Berlusconi, dà impietosamente dell’ipocrita al Biscione. Dove -ha scritto Salvatore Merlo, di cui ho perso il conto delle interviste concessegli da Fedele Confalonieri col cuore in mano- “sapevano delle parole di Giambruno” negli studi televisivi preparando le puntate della sua trasmissione, “lo hanno assecondato e ora lo processano” per violazione del codice etico dell’azienda. Ne ha da fare di lavoro di ricucitura, ripeto, il rieletto Galliani nel suo metaforico saio di monaco di Monza. Altro che attendere le  troie del vignettista del Secolo XIX.

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