Una lezione meritata di libertà di stampa da Giorgia Meloni

         Eppure della conferenza stampa di Giorgia Meloni dopo le misure adottate dal Consiglio dei Ministri contro non l’indisciplina ma la criminalità minorile, non mi ha interessato tanto il contenuto largamente anticipato del decreto legge che porta il nome di Caivano, dove la premier aveva preannunciato l’intervento del governo e la decisione, confermata ieri, di “metterci la faccia” nell’impegno di portare lo Stato dove non c’è. “La mamma di ferro”, ha titolato su Libero il nuovo direttore Mario Sechi, reduce dall’esperienza di capo dell’ufficio stampa di Palazzo Chigi. “Stato di pulizia”, non di polizia, ha coraggiosamente titolato L’Identità di Tommaso Cerno mettendo una scopa fra le mani della Meloni. Che invece l’Unità, anche a costo di tornare davvero quello che era ai tempi di un certo comunismo trinariciuto, che vedeva fascismo dappertutto, ha creduto di ridicolizzare come edizione femminile di un Mussolini deciso a “spezzare le reni ai ragazzini”.

         No. Della Meloni ingiustamente fascistizzata -ahimè- dal mio amico Piero Sansonetti, mi ha interessato di più la lezione che le è stato improvvidamente permesso di dare ai giornalisti in tema di libertà di stampa proponendole praticamente di dissociarsi dal convivente e padre di sua figlia che nell’esercizio della sua professione di conduttore televisivo ha esortato le ragazze a non ubriacarsi, drogarsi e simili nelle feste per evitare “il lupo” di turno. Pur attribuendo, a mio avviso esageratamente, al suo Andrea Giambruno un “modo frettoloso e assertivo”, la premier ha riconosciuto nelle sue parole quelle che la mamma le diceva a suo tempo: “occhi aperti e testa sulle spalle”. Che non significavano -ha spiegato per certi versi la figlia ormai cresciuta sino a guidare un governo- “se giri in minigonna ti possono violentare”. E non devi protestare o denunciare -aggiungo io- perché in fondo te la sei cercata.

         Dove la Meloni ha dato ai critici del suo convivente e ai propri avversari politici la lezione cui accennavo, di giornalismo ma anche di cultura, è nel passaggio della sua lunga risposta a chi -naturalmente del Fatto Quotidiano- l’aveva trascinata nella polemica in cui ha detto. “Vorrei capire qual è la lettura che voi date del concetto di libertà di stampa”. “Per come la vedo io -ha aggiunto- un giornalista non dice in televisione quel che pensa la moglie”. E ne risponde personalmente, non familiarmente, protetto anche lui -aggiungerei dall’articolo 21 della Costituzione. Che riconosce a “tutti”, proprio tutti, anche al convivente di una premier, di “manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.

         Siano purtroppo ridotti così male, anche noi giornalisti, da meritarci di dovercelo fare praticamente ricordare in conferenza stampa, come dicevo, da un, anzi una presidente del Consiglio. Me ne vergogno un po’, lo ammetto.

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Meno male che c’è ancora Mario Draghi, in Europa e non solo in Italia

         Nel lasciare la direzione del Giornale dopo più di due anni restituendone il timone ad Alessandro Sallusti “con quel monumento che è Vittorio Feltri” -ha voluto annunciare accomiatandosene- il mio amico Augusto Minzolini ha iscritto d’ufficio Mario Draghi al partito di Giorgia Meloni definendolo su tutta la prima pagina “fratello d’Italia”. Ciò vedendo, come ha fatto anche con minore rilievo, sempre  in prima pagina, La Verità di Maurizio Belpietro, “un assist” al governo di centrodestra, o di destra-centro l’appello di Draghi all’Unione Europea, lanciato attraverso il britannico Economist, a non tornare al vecchio patto di stabilità, e relativi vincoli, sospeso a suo tempo per l’emergenza creata o costituita dalla pandemia del Covid.

         L’Europa -ha avvertito Draghi con l’esperienza e il prestigio accumulati alla guida della Banca centrale europea prima che diventasse presidente del Consiglio precedendo e un po’ anche accompagnando l’arrivo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi- ha bisogno di “sovranità più condivisa”, ma anche di più condivisa e larga solidarietà. Resta invece “forte -ha osservato a livello comunitario l’ex premier- l’opposizione dell’opinione pubblica alla possibilità che i Paesi più forti sostengano i più deboli” con nuove regole, parametri e quant’altro.  Più intelligenti, direbbe forse Romano Prodi, che da presidente della Commissione Europea a Bruxelles definì già a suo tempo “stupidi” certi vincoli che pure egli doveva fare rispettare.

         Iscrivere, sia pure figurativamente, Draghi ai fratelli e sorelle d’Italia e definirne la sortita “un assist” al governo Meloni -che certamente di aiuti avrebbe bisogno, per carità, sia per la complessità dei problemi sul tappeto sia per le fibrillazioni all’interno della maggioranza anche nella prospettiva delle elezioni europee dell’anno prossimo- lo trovo ingiustamente riduttivo. Direi anzi, pericolosamente riduttivo, essendo ormai l’ex presidente della Banca centrale di Francoforte e del Consiglio, per non parlare dei suoi incarichi precedenti, una risorsa dell’Italia e, più in generale, dell’Europa. E pazienza se non sarà d’accordo il solito Marco Travaglio del Fatto Quotidiano, che lo ha scambiato per un incompetente, o quasi, fatta eccezione per gli affari bancari, e soprattutto per un usurpatore avendo a suo tempo sostituito a Palazzo Chigi quella specie di Camillo Benso di Cavour reincarnato in Giuseppe Conte: l’avvocato di ritorno “del popolo” che contende alla segretaria del Pd Elly Schlein, fra un incontro e l’altro nelle piazze e feste d’Italia, la guida dell’opposizione e della sinistra.

         Una risorsa come quella di Draghi va tutelata non immergendola, usandola, anzi immiserendola nel solito, piccolo cabotaggio, più o meno familiare, della politica interna.

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Il Centro (d’Arabia) inseguito dall’infaticabile Matteo Renzi in Italia

         In assenza di reazioni mentre scrivo, di buon’ora come al solito, non so come l’avrà presa o la prenderà Matteo Renzi vedendosi nella vignetta di giornata del Corriere della Sera in groppa ad un cammello d’Arabia nella corsa appena annunciata al Parlamento europeo, ma in Italia non in Arabia, per rappresentare il Centro, senza l’apostrofo usato a doppio senso da Emilio Giannelli. Non so se avrà riso o riderà fingendo a se stesso o avrà pensato, o penserà ad un complotto, questa volta tutto mediatico, senza contributi giudiziari, contro il progetto politico nato  litigando  con l’ormai ex socio Carlo Calenda del cosiddetto terzo polo improvvisato nelle elezioni politiche dell’anno scorso.

         Certo, uno vede la vignetta di Giannelli, legge il richiamo in prima pagina di un’intervista del vice presidente forzista del Senato Maurizio Gasparri all’Identità di Tommaso Cerno in cui si dice che “Renzi prende più soldi in Arabia che voti qui”, da noi, e gli viene francamente da ridere concordando. Sono note le difficoltà dell’ex presidente del Consiglio nelle campagne elettorali da quando perse, nel 2016, il referendum sulla riforma costituzionale, affrontò da semplice segretario del Pd il rinnovo ordinario delle Camere  nel 2018,  superato sia dal centrodestra a trazione leghista sia dai grillini, e se ne andò dal Nazareno dopo avere salvato a favore delle 5 Stelle la legislatura a rischio di fine anticipata per le papeiate di Matteo Salvini.

         Ora, pur di aiutarlo a sopravvivere nella corsa al centro pescando nelle acque elettorali del Pd e anche in quelle forziste prive del trascinamento berlusconiano, contese in verità anche dai suoi fratelli e sorelle d’Italia, Giorgia Meloni da Palazzo Chigi sarebbe disposta a regalare a Renzi una riformetta di corsa per abbassare dal 4 al 3 per cento la soglia di accesso al Parlamento europeo che dovrà essere rinnovato l’anno prossimo. Ma uno stop è già arrivato alla presidente del Consiglio per canali non tanto riservati dalla Lega e da Forza Italia, indisponibili al sacrificio dei tacchini, peraltro fuori stagione, dovendosi votare in primavera e non durante le feste di fine anno. Ma sotto sotto poca voglia di favorire Renzi c’è anche nel partito -come dicevo- della Meloni, dove l’ultimo arrivato da quella che fu la Dc, Gianfranco Rotondi, va sostenendo e spiegando che il Centro, con la maiuscola, può ben essere considerata la destra ex estremista e ora conservatrice della premier cresciuta di cicoria e politica alla Garbatella, per usare un’immagine rutelliana.

         Il guaio, l’errore, la disgrazia di Renzi  è di avere deliberatamente rinunciato quando ne ebbe l’occasione al ruolo del riformista di sinistra capace di riprendere il disegno di Bettino Craxi, che lui liquidò invece come un leader “diseducativo” per le sue vicende giudiziarie, preferendogli la memoria e quindi l’eredità di Enrico Berlinguer. Fu la sua occasione perduta, senza neppure evitare i labirinti giudiziari del leader socialista.  

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Tre missili in uno: quelli di Ustica, di Amato e di Repubblica

Sarà per i nostri vecchi rapporti di amicizia, pur affievolitisi col tempo, sarà per la diffidenza che spesso mi procurano più i giornali che i politici di cui si occupano, sarà per l’età avanzata dell’interessato, che rende improbabili ambizioni a cariche superiori a quelle che ha già ricoperto nelle istituzioni, da sottosegretario a presidente del Consiglio e infine della Corte Costituzionale, ho pensato sin dal primo momento che sabato scorso Giuliano Amato fosse incorso in un missile metaforico di Repubblica parlando di quello di Ustica. Che secondo lui, in una intervista a quel giornale, potrebbe avere abbattuto per errore il 27 giugno 1980 l’aereo dell’Itavia che trasportava 81 persone, fra passeggeri ed equipaggio, da Bologna a Palermo. Un errore, sempre secondo Amato, attribuibile all’aviazione militare francese alla caccia, in coincidenza con esercitazioni della Nato nel Mediterraneo, di un mig libico dove avrebbe dovuto viaggiare Gheddafi in persona, salvato da una soffiata italiana prima che vi si potesse imbarcare.

         Il sospetto di una imboscata giornalistica, magari mossa da semplice ossessione scuppettistica, da scoop, non necessariamente legata a chissà quali trame di politica interna o internazionale, mi venne per il fatto che Repubblica non avesse ritenuto di riportare in prima pagina la dichiarata mancanza di prove da parte di Amato. E ciò né nel titolo virgolettato e perentorio – “Ecco la verità su Ustica. Macron chieda scusa”-  né nel pur lungo sommario sistemato sotto la foto dei rottami dell’areo ricomposti dopo il recupero.

         Il Dc 9 -diceva quel sommario senza virgolette ma anche senza alcuna formula dubitativa- fu colpito da un missile francese che doveva uccidere Cheddafi. Il leader libico sfuggì alla trappola della Nato perché avvisato da Craxi. L’ex premier svela chi e perché occultò le responsabilità nella strage. “Dopo 40 anni – concludeva il sommario, questa volta con le virgolette- L’Eliseo è chiamato a togliere l’onta che pesa su Parigi”.

         Già alimentato dalla semplice visione e lettura di quei titolo e relativo sommario, diciamo pure, al plurale, di quei titoli, il sospetto di una forzatura quanto meno diffusiva dell’intervista aumentò due giorni dopo leggendo sulla Verità di Maurizio Belpietro, sempre in prima pagina, la risposta scritta di Amato alle domande di quel giornale in cui si precisava, come in una ovvietà: “Dei titoli con cui un articolo o un’intervista vengono presentati -Lei lo sa quanto me- non risponde l’autore”, preoccupatosi -diversamente dal titolista di Repubblica– di esporre le sue riflessioni, intuizioni e quant’alto precisando di non avere prove. Una precisazione, questa, dovuta da un uomo delle responsabilità politiche e istituzionali come le sue, diverse da un intellettuale come la buonanima di Pier Paolo Pasolini, ricordato anche da Tiziano Maiolo sul Dubbio, cui fu permesso dal Corriere della Sera di scrivere dei responsabili di altre nefandezze pur mancando dichiaratamente di prove. Per quelle sue abitudini Pasolini neppure pensò mai di fare il magistrato o il politico, neppure a livello localissimo.

         Grande pertanto è stato il mio stupore, a meno di improbabili censure subite dall’interessato, quando ho letto su Repubblica un secondo intervento di Giuliano Amato sull’affare Ustica, chiamiamolo così, questa volta sotto forma di articolo, in cui non ho trovato alcuna traccia del dissenso, sorpresa e quant’altro avvertito nelle sue risposte alla Verità rispetto ai titoli dedicati alla sua intervista dal giornale fondato da Eugenio Scalfari e ora diretto da Maurizio Molinari. Che ho scoperto, avendolo appreso dallo stesso Amato leggendone l’articolo, avere avuto un ruolo nello strappargli il consenso all’intervista propostagli e raccolta da Simonetta Fiori. Della quale Tiziana Maiolo, sempre sul Dubbio, ha scritto come di “una penna colta, di autrice di libri, non una complottista di professione”. Anch’essa, quindi, probabilmente sorpresa, tradita e quant’altro dalla titolazione apposta a quello che è alla fine diventato l’ennesimo giallo di un’estate declinante e già affollata di misteri o controversie politiche.

         Ciò che ho trovato davvero un po’ esagerato nel processo più o meno sommario condotto a un pur imprudente -forse- Giuliano Amato, stretto fra le sue abitudini alla riservatezza e l’occasione di parlare una volta tanto da dottore ancora più Sottile, sino ad apparire “Perfido” agli occhi della Maiolo, ancora sul Dubbio, è ciò che gli ha mandato a dire l’ex compagno di partito Rino Formica. Col quale per un certo tempo Amato condivise la fiducia di Bettino Craxi, negli anni d’oro del leader socialista alla guida del governo.

         Intervistato da Domani, il giornale di Carlo De Benedetti, pur essendo stato nel 1980 come ministro dei Trasporti il primo a parlare di un missile nei cieli di Ustica, Fornica ha addirittura invitato a “inquadrare” l’intervista di Amato in un “clima” nel quale “si vuole chiudere la stagione della Repubblica antifascista. Si vuole spingere il paese- ha detto- a prendere atto che un assetto si è definitivamente concluso e che se ne deve aprire un altro”, nel quale verrebbe cancellato non solo l’antifascismo della Costituzione repubblicana del 1947 ma anche quello che lo aveva preceduto nel 1943 con l’armistizio dell’8 settembre, la rinascita dei partiti democratici, la fuga del Re e infine il referendum costituzionale del 1946. Davvero un po’ esagerato, ripeto, attribuire ad Amato una secchiata su tutto questo col missile di Ustica, presunto o vero che sia.

Pubblicato sul Dubbio

Giuliano Amato torna imprudentemente sul luogo del delitto riscrivendo di Ustica

Uno legge sulla prima pagina di Repubblica il richiamo di un articolo di Giuliano Amato sulla tragedia di Ustica del 1980 da lui stesso evocata sabato scorso, sullo stesso giornale, in una lunga intervista seguita da molte polemiche e pensa di trovare nel testo la spiegazione -magari- delle distanze appena prese, sempre da lui, dal titolo di quello scoop scrivendone ad una polemicissima Verità. O pensa di trovare conferma e spiegazione delle “retromarce” attribuitegli sia nella versione “rocambolesca” gridata dall’Unità sia nella versione ironica amichevolmente scelta dal Foglio.      

         Sulla prima pagina di quest’ultimo giornale il vignettista Makkox si è divertito, in particolare, ad attribuire ad Amato il dubbio di avere scambiato un croiassant  per il missile francese che avrebbe abbattuto 43 anni fa per errore, inseguendo un big libico dove si presumeva che viaggiasse Gheddafi in persona, un disgraziatissimo aereo civile italiano con 81 persone a bordo. Un croissant -ha commentato perfidamente Makkox- “di sicuro è più comodo da rimangiarsi”.

         Ebbene, Amato nel suo intervento di ritorno su Repubblica non ne ha contestato né il titolo di sabato né l’evidenza, mostrando quindi di non avere nulla da dire o ridire sull’uno e sull’altra. E forse guadagnandosi chissà quale altro ritorno, a sua volta, della Verità di Maurizio Belpietro. Che già oggi, d’altronde, prima ancora di rileggerlo su Repubblica, è tornato ad attaccarlo su un altro tasto o fronte da lui trattato quando era al governo: “la storia di Mps”, che significa Monte dei Paschi di Siena. Che si incrociò con la vita privata di Amato per un contributo al suo circolo di tennis, ad Orbetello.

         Amato è tornato sulla sua intervista a Repubblica per precisare solo di avere voluto raccogliere con l’intervista propostagli anche dal direttore in persona del quotidiano fondato da Eugenio  Scalfari “una straordinaria opportunità per rinsaldare” – non per disturbare, come ha sospettato qualcuno, fra i quali il suo ex compagno di partito e amico Rino Formica in una intervista a Domani in cui si lamenta del “torbido” il rapporto” fra l’Italia e la Francia: l’una ricevendo le scuse dall’altra per la verità su Ustica nascosta per lunghi, lunghissimi 43 anni. “Il ministro degli Esteri francese -ha scritto e interpretato Amato- l’ha raccolta manifestando una volontà di collaborazione, peraltro senza mai domandarsi: perché ora?”, come altri invece hanno fatto con l’intervista di sabato prestatasi a tante polemiche. “Un passo in avanti -ha insistito Amato-  a chi in Italia continua ostinatamente a voltarsi indietro. Con l’intervista ho voluto lanciare una sfida per arrivare alla verità su Ustica. Ora tocca a chi ne è in grado raccoglierla, sotto la spinta di una stampa non prigioniera del piccolo cabotaggio”. Che pure sembrava dovesse coinvolgere la stessa Repubblica con quelle distanze -ripeto- prese per iscritto dal suo titolo a caratteri di scatola scrivendone al giornale di Maurizio Belpietro.

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Amato si dissocia dal missile di Repubblica su Ustica e dintorni

Interpellato a voce e per iscritto dalla “Verità” sull’intervista concessa a Repubblica, e pubblicata sabato scorso con un titolo a caratteri di scatola che gridava “Ecco la verità su Ustica. Macron chieda scusa”, anche se l’interessato aveva solo due anni e mezzo ai tempi della tragedia, Giuliano Amato ha risposto rifiutando la responsabilità di quel titolo. Che, in effetti, mancava dell’avvertimento, contenuto nel testo delle dichiarazioni del presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex presidente del Consiglio, che le sue erano solo riflessioni, deduzioni, intuizioni, prive di prove.

  “Io -ha spiegato Amato- non ho raccontato nulla di novo. Non era nelle mie possibilità, non era nelle mie intenzioni. Volevo riportare il tema all’attenzione, sollecitare chi potrebbe convalidare quell’ipotesi a parlare”. Sollecitare inutilmente, a quanto pare, visto che nessuno si è mosso in questo senso, a cominciare dai francesi. Al cui governo peraltro quello italiano guidato da Giorgia Meloni non intende sollevare questo problema -come anticipato o chiarito in un titolo del Messaggero- rischiando peraltro di compromettere i rapporti già difficili o altelenanti   fra i due paesi proprio nel momento in cui una loro collaborazione sarebbe preziosa, per gli interessi di entrambi, nel negoziato dietro le quinte in corso per la revisione del cosiddetto e oneroso patto di stabilità europeo, prima che esso torni in vigore dopo la sospensione per il Covid.

         Per quanto Amato con la sua risposta di dissociazione dal titolo sparato da Repubblica come un missile -esso sì- sulla sua intervista avesse concesso alla Verità l’occasione di una polemica col giornale in qualche misura concorrente, il direttore Maurizio Belpietro ha preferito attaccare, anzi insultare il politico che d’altronde non ha mai goduto della sua simpatia, a dir poco. “Il dottor Sottile fa scarica barile”, si è titolato da solo Belpietro in prima pagina, infierendo all’interno con “la brusca retromarcia del dottor Sottile indegna di un servitore dello Stato”.

         E’ inutile farsi illusioni al di qua del bancone delle notizie, voci, retroscena, commenti e polemiche finalizzate più ad alimentare la lotta politica che ad informare i lettori. E’ sempre più difficile e imbarazzante capire chi giochi con maggiore disinvoltura col pubblico: noi giornalisti o “loro”, i politici. E con questo archiviamo, almeno per quanto mi riguarda personalmente, anche questa brutta pagina, insieme, di giornalismo e di politica, appunto. Una pagina nella quale noi giornalisti abbiamo saputo fare peggio -temo- di una certa magistratura abituata a dettare l’agenda del governo e del Parlamento di turno.    

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Ciò che Macron non ha (ancora) detto ad Amato su Ustica e dintorni

         Macron è dunque disposto a “collaborare”- ha fatto sapere da Parigi- a ulteriori ricerche della verità sulla tragedia di Ustica del 1980 ma non ad attribuire sin d’ora alla Francia la responsabilità, attribuitale da Giuliano Amato, del missile che colpì o comunque fece esplodere l’aereo dell’Itavia che da Bologna trasportava a Palermo 81 persone fra passeggeri ed equipaggio.

         Per fortuna -debbo aggiungere- il presidente francese si è limitato a questa reazione non facendo l’offeso, né annunciando o minacciando ritorsioni sui rapporti con l’Italia mentre insieme -una volta tanto- i due governi cercano nell’Unione di modificare il vecchio e oneroso patto di stabilità europea sospeso a causa del Covid. Una circostanza, questa, che forse ha creato dubbi o perplessità anche al Quirinale apprendendo dell’intervista del presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex presidente del Consiglio, invitato peraltro da Giorgia Meloni a riferire quello che ritiene di sapere alla magistratura. Ma anche a considerare che non ci sono atti coperti dal segreto di Stato per quella tragedia che sarebbe avvenuta al coperto di esercitazioni della Nato in Mediterraneo.

         Che cosa abbia indotto Amato, nella sua intervista a Repubblica, a non contestualizzare quei fatti con quelli di oggi, che sconsigliano obiettivamente un’altra fase di tensione nei rapporti con la Francia, pur garantiti da un patto di collaborazione addirittura rafforzata, non è dato sapere. E’ condivisibile il dilemma posto da Tommaso Cerno sull’Identità, accanto al titolo “Ustica…voli”, fra “la verità di una riserva della Repubblica in crisi di coscienza o la sparata che scompiglia ancora di più il clima rovente fra Italia e Francia”, che in verità -ripeto- sembrava spento.

         Va inoltre detto con onestà e franchezza che lo stesso Amato ha minato la credibilità delle sue riflessioni con giudizi non esaltanti su un personaggio chiamato da lui in causa: Francesco Cossiga. Che guidava il governo nel momento della tragedia, sollecitò poi dal Quirinale come presidente della Repubblica, nel 1986, l’intervento di Bettino Craxi e del suo sottosegretario Amato, appunto, per svelare i misteri che si erano addensati sull’affare e infine, nel 2008, da capo dello Stato emerito, cioè ex, attribuì la responsabilità della tragedia alla Francia parlando ad una commissione parlamentare d’inchiesta.

         Di Cossiga, pur riconoscendogli “un grande contributo al raggiungimento della verità” con quella deposizione, Amato ha detto testualmente: “Aveva disturbi bipolari. Era un uomo di forti sofferenze e grandi intuizioni. Sono stato a lungo testimone e riequilibratore delle sue intemperanze: cercando di proteggerlo da se stesso ho anche visto le sue bizzarrie”. Macron, che non  ha neppure conosciuto Cossiga, si sarà probabilmente chiesto se la Francia ha davvero da temere un caso così clamorosamemte riproposto richiamandosi a  un testimone e quant’altro così descritto non a Parigi ma a Roma. E morto e sepolto da 13 anni.

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Ustica: il segreto peggio custodito della Repubblica, forse più di Moro

            Bel colpo di sicuro per la Repubblica-  ma solo quella di carta, non quella vera uscita delle urne referendarie del 1946, e tradita a questo punto da una miriade di generali e politici- l’intervista nella quale il presidente emerito della Corte Costituzionale Giuliano Amato, già presidente del Consiglio e ancor prima sottosegretario di Bettino Craxi a Palazzo Chigi con la delega delicatissima dei servizi segreti, ha accreditato con informazioni, intuizioni, deduzioni e quant’altro, dichiaratamente “senza prove”, i peggiori sospetti sulla tragedia di Ustica. Nelle cui acque sprofondarono il 27 giugno 1980 i rottami e le ottanta vittime dell’areo dell’Itavia diretto a Palermo da Bologna. Che secondo Amato non esplose per un ordigno all’interno ma abbattuto da un missile francese destinato ad un mig libico nel quale avrebbe dovuto volare Gheddafi, non salito a bordo all’ultimo momento perché avvertito dall’Italia. 

         Non so francamente se definire questo segreto come il meglio o il peggio custodito nella storia della Repubblica, sempre quella vera: meglio o peggio anche di quelli perduranti sul sequestro di Aldo Moro, due anni prima, e sul suo tragico epilogo con l’assassinio del rapito, 55 giorni dopo lo sterminio della sua scorta. Uno scempio che si vorrebbe ancora attribuire all’abilità delle brigate rosse, e non anche alla mano, manina, manona di qualcuno indegnamente rappresentante a quell’epoca, non so a quale livello, dello Stato.

         Giuliano Amato, occupatosi come sottosegretario  nel 1986  dell’affare Ustica, in pendenza delle indagini giudiziarie,  su incarico di Craxi ma su pressione quirinalizia  di Francesco Cossiga, che aveva guidato il governo all’epoca della tragedia, ha sfidato -più che invitato- il giovane presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron a dare anche il suo contributo, stavolta decisivo, alla ricerca della verità desecretando l’azione di guerra svoltasi a Usitca al coperto di esercitazioni della Nato e scusandosi dell’accaduto nascosto da tutti i suoi predecessori.

         Non so, almeno mentre scrivo, se Macron vorrà, saprà o potrà rispondere alle attese di Amato. So però che il credito accordato dal presidente emerito della Corte Costituzionale alle voci, impressioni, sensazioni, rivelazioni -chiamatele come volte- diffusesi subito dopo la tragedia, con particolare chiarezza ad opera dall’allora ministro socialista dei Trasporti Rino Formica- lascia letteralmente sgomenti. Com’è stato possibile nei piani alti e altissimi della Repubblica, a livello istituzionale, politico e giudiziario, tenersi dentro -diciamo così- una vicenda del genere? Imbarazzante, a dir poco, per tutti: forse anche per chi ha aspettato tanto per parlarne così clamorosamente, diffusamente, dettagliatamente.

Da Caivano a Brandizzo, dal Sud al Nord, andata e ritorno….

         La premier Giorgia Meloni, 46 anni compiuti a gennaio, giustamente protetta a dovere da uno Stato pur “fallito” sul posto per sua stessa ammissione, con l’impegno di farvelo tornare, è dunque sopravvissuta alla sua missione, visita e quant’altro alla degradata Caivano. Dove invece qualcuno aveva immaginato, minacciato, sperato e quant’altro -anche qui- di farle pagare caro l’intervento del governo sul cosiddetto reddito di cittadinanza. Che fu adottato dai grillini quando arrivarono a Palazzo Chigi sventolando dal balcone la bandiera della vittoria sulla povertà, cioè scambiando lucciole per lanterne e contribuendo a loro modo ad aggravare la situazione con attese tanto costose quanto  illusorie.

         Giuseppe Aversa, di 49 anni, Kevin Laganà di 22, Giuseppe Lombardo di 53, Giuseppe Servillo di 43 e Michael Zanera di 34 non ce l’hanno  fatta invece a sopravvivere alla loro notte di lavoro sui binari ferroviari di Brandizzo, inghiottiti da un treno che non si aspettavano, in una sciagura, anzi una strage che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, corso sul posto senza essere accompagnato dal pur onnipresente ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini perché impegnato con la fidanzata a godersi a Venezia il festival del Cinema, ha giustamente definito “un oltraggio alla convivenza civile”.

         I due fatti, uno al Sud e l’altro al Nord, parlano così tanto da soli, nei tratti essenziali che ho indicati, da un avere bisogno di commento alcuno.

Vi dico qualcosa del vicerè operoso di Palazzo Chigi

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e segretario dello stesso Consiglio, che lo nomina nella sua prima seduta, è sempre contato più di un ministro e di un vice presidente del Consiglio per il rapporto fiduciario che lo lega al capo del governo. E per il filtro che esercita, anzi costituisce su ogni documento che arriva ed esce come provvedimento da Palazzo Chigi, o arrivava ed usciva dal Viminale quando era quella la sede anche del governo, oltre che del Ministero dell’Interno.

         Storiche sono rimaste le figure dei sottosegretari, alcuni dei quali destinati poi a scalare la politica, Paolo Cappa e Giulio Andreotti con Alcide Gasperi, Mariano Rumor e Umberto delle Fave con Amintore Fanfani, Oscar Luigi Scalfaro con Mario Scelba, Angelo Salizzoni con Aldo Moro, Antonio Bisaglia e Adolfo Sarti con Rumor, Franco Evangelisti con Andreotti, Giuliano Amato con Bettino Craxi, Gianni Letta con Silvio Berlusconi. Che, senza farselo imporre da Scalfaro, come racconta invece una leggenda, si scelse di sua spontanea volontà nel 1994 l’ex direttore del Tempo poi entrato nella sua scuderia, confermandolo negli altri passaggi a Palazzo Chigi e considerandolo con pubbliche dichiarazioni un capo dello Stato ideale: persino migliore di lui stesso, che vi aspirava.

         “Indipendente” è la qualifica politica di Gianni Letta nell’elenco dei sottosegretari avvicendatisi a Palazzo Chigi. Egli infatti, se mai è stato iscritto alla Dc secondo un’altra leggenda, non lo è mai stato a Forza Italia e ai partiti o sigle che ne hanno accompagnato la storia. Indipendente è indicato anche Alfredo Mantovano, per quanto egli sia stato collega di partito di Giorgia Meloni nelle varie formazioni di destra avvicendatesi prima degli attuali Fratelli d’Italia, o sorelle come più o meno ironicamente si scrive sui giornali dopo i gradi guadagnatisi della sorella maggiore della premier, Arianna.

         Se “Sorelle d’Italia” è diventato per scherzo il nome del partito della Meloni, “vicerè” di Palazzo Chigi viene spiritosamente chiamato Mantovano per il peso crescente nell’entourage della presidente del Consiglio. Che se ne fida ciecamente e gli affida le missioni più delicate, conoscendone la serietà, la competenza giuridica, le relazioni  al di qua e al di là del Tevere.

         Diversamente dai non indipendenti, cioè dai militanti di partito che lavorano con la Meloni a Palazzo Chigi e dintorni, Mantovano non ha bisogno di ostentare la sua forza o peso con dichiarazioni, interviste e tanto meno, o tanto più, con sortite estemporanee. Egli lavora in silenzio, con una discrezione che l’accompagna dall’esperienza di magistrato, nell’esercizio delle cui funzioni fu severo come altri colleghi negli anni di Tangentopoli senza tuttavia cercare la ribalta dei Di Pietro e dei Davigo.  Il mio compianto amico Pino Leccisi, della Democrazia Cristiana, che divideva le sue simpatie fra Silvio Berlusconi e Arnaldo Forlani dopo una lunga militanza nella sinistra sociale di Carlo Donat-Cattin, piangendo una volta con me per la severità di trattamento ricevuto sul piano giudiziario mi parlò appunto di Mantovano senza che io ne conoscessi neppure il nome, tanto era stata la sua doverosa riservatezza nell’espletamento del proprio lavoro. 

         Più è cresciuto accanto alla Meloni, più è stato da lei coinvolto negli affari riservati e non riservati del governo, con delega peraltro ai servizi segreti concessagli dal primo momento, più Mantovano ha finito per procurarsi, suo malgrado,  una certa insofferenza di altri sottosegretari, ministri e vice presidenti del Consiglio: quello leghista, Matteo Salvini, di sicuro non riuscendo il capo del Carroccio a dissimulare i suoi umori camminando e parlando di fretta con le solite frotte di giornalisti al seguito.

         Ogni tanto i giornali scrivono e titolano di “caso” Salvini, appunto, o Tajani, o Giorgetti, o Valditara, o Lollobrigida, o Sangiuliano e via spulciando nella composizione del governo, ma forse il caso più avvertito fra i ministri che si sentono di volta in volta scavalcati, maltrattati, spiazzati, incompresi è proprio quello che porta il nome di Mantovano, salito peraltro così in alto senza avere mai dovuto fare il ministro. Al massimo, il vice ministro dell’Interno, e prima ancora il sottosegretario allo stesso dicastero nei governi Berlusconi, con deleghe e competenze delicatissime, anche allora, come il trattamento dei pentiti.

         Anche quando il suo impegno politico gli impose di rinunciare un po’ ai suoi modi felpati per procurarsi i voti necessari alla sua elezione a deputato o senatore Mantovano riuscì a sorprendere e a preoccupare avversari al cui solo nome, per notorietà e peso, avrebbe dovuto preoccuparsi lui: per esempio, Massimo D’Alema. Che andò particolarmente fiero della propria elezione alla Camera nel collegio collegio uninominale di Gallipoli per avere battuto Mantovano. E volete che ora lui si preoccupi dei malumori di qualche ministro insofferente della sua pur involontaria vigilanza? Il “vicerè” è tranquillissimo. Sessantacinque anni compiuti a gennaio scorso, lavora, prega e dorme fra i due classici guanciali.

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