Il secondo comandamento un pò disatteso dalla Meloni cristiana

In nessuna delle pur numerose e promozionali anticipazioni del libro-intervista a Giorgia Meloni di Alessandro Sallusti, che si è procurato oggi la sfottente definizione di “direttore del Giorgiale” da parte di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, avevo trovato la formula “Dio, Patria e Famiglia”. Che è invece rilanciata oggi, o comunque attribuita con titoli, vignette e quant’altro alla premier italiana dopo l’incontro a Budapest col presidente ungherese Viktor Orban.  Una formula, virgolettata in prima pagina dalla Stampa, che ci riporta con la memoria anche al famoso grido in piazza della Meloni, con le vene gonfiate sul collo, durante la corsa a Palazzo Chigi: “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana”.

         Cristiana, ripeto. Che pure dovrebbe rispettare i dieci comandamenti, il secondo dei quali dice, anzi grida anch’esso: “Non nominare il nome di Dio invano”. E lasciate che lo ricordi, senza spingersi a segnalarlo al Papa perché prima di perdonarla generosamente la inviti per telefono a non rasentare la bestemmia, uno che non credo sospettabile, almeno da chi è abituato a leggerlo, di pregiudizio contro la Meloni. Non la considero una fascista né in erba né cresciuta, né un’intrusa come sotto sotto, senza più dirlo neppure agli amici per timore di rischiare l’emarginazione, pensa ancora qualcuno persino nel centrodestra rimpiangendo i tempi della coalizione a trazione forzista o leghista.

         Non scomodiamo per favore in politica Domineddio, tanto meno per convincere il mio amico Marco Follini a non ripetere ciò che ha scritto ieri sulla Stampa per esprimere la certezza, da ex dirigente e storico dello scudo crociato, che mai la Meloni potrà essere o assomigliare a una democristiana. Come invece crede che sia miracolosamente già avvenuto un altro ex o post-dc quale Gianfranco Rotondi, già ministro berlusconiano.

         Pur nel timore di esagerare nelle citazioni del Fatto e del suo direttore, ne condivido “la cattiveria” di giornata. Che attribuisce al “Padreterno” questa reazione a “Giorgia d’Ungheria”, come la sfotte oggi anche Il Foglio: “Dai nemici mi guardi Dio che dai nemici mi guardo io. Ma Dio sono io: qui tocca fare tutto a me”.

         La mia protesta, diciamo, finisce qui. E non si avventura sulla strada di Mattia Feltri, sempre sulla Stampa, che contesta alla Meloni l’impegno contro le denatalità, che l’ha peraltro portata a Budapest, perché si è limitata, almeno per ora, a una sola figlia nella famiglia -altra parola magica del suo trittico politico- messa su col convivente, quasi marito Andrea Giambruno. Ma vedrete che prima o dopo i due si sposeranno, non appena la Meloni ne avrà il tempo fra un viaggio e l’altro, un Consiglio dei Ministri e l’altro, un libro e l’altro, un’arrabbiatura e l’altra, una telefonata e l’altra. E sarà sicuramente festa a vantaggio anche del suo gradimento da premier appena registrato in discesa da Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera, a dispetto della tenuta del suo partito.

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La spiazzante designazione di Gratteri alla Procura di Napoli con i voti del centrodestra

         Nicola Gratteri ce l’ha dunque fatta a conquistare dalla sua Calabria la Procura di Napoli, la più popolosa d’Italia, pur avendo dovuto subire sulle prime pagine dei giornali, almeno di quei pochi che ve lo hanno messo, il sorpasso di Mario Draghi. Che senza cambiare mestiere, per carità, si è conquistata la fiducia della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, come consulente per la competitività dell’Unione. Vasto programma, avrebbe detto la buonanima di Charles De Gaulle senza scomporre però l’interessato, che di missioni difficili ne ha collezionate abbastanza nel suo Paese e altrove, facendo una brutta figura solo agli occhi di Marco Travaglio. Che lo liquidò da presidente del Consiglio come un “incompetente di tutto, fuorchè di banche”.

         I numerosi giornali che hanno ignorato Gratteri in prima pagina -da Repubblica alla Stampa, dal Messaggero al Giornale, da Libero al Foglio, dal Secolo XIX ad Avvenire, da Domani al Riformista, il cui direttore editoriale Matteo Renzi aveva pur cercato di portarselo al governo come ministro della Giustizia, bloccato però dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano- lo hanno fatto un po’ per imbarazzo e un po’ per il carattere ormai scontato dell’esito della corsa alla Procura partenopea. Dove Grattwri è arrivato col voto di 19 consiglieri superiori della magistratura contro i 13 per la quasi reggente Rosa Volpe e i 5 per Giuseppe Amato, figlio del compianto Nicolò. Consiglio Superiore “spaccato”, hanno titolato o scritto alcuni, ma spaccato fino ad un certo punto.

         L’imbarazzo -dicevo-  è stato quello dei giornali sorpresi o infastiditi dal colore assunto dalla maggioranza che ha promosso Gratteri: decisamente di centrodestra, declassata sul Dubbio da Tiziana Majolo come prodotta da “correnti e palazzi”. Quella che invece Gratteri avrebbe meritato secondo il suo personale estimatore Travaglio -sì, sempre lui, il direttore del Fatto Quotidiano- sarebbe stata di sinistra, esclusiva e maggioritaria. “La fu sinistra”, ha commentato e titolato col suo editoriale l’ammiratore del procuratore, soddisfatto solo di non essere stato tradito dai grillini, unitisi alla destra nella votazione.

         “E’ probabile -si è inoltre consolato Travaglio- che le destre che hanno votato se ne pentiranno presto, non appena Gratteri si insedierà a Napoli, farà lavorare i suoi pm a pieno ritmo, come ha fatto a Catanzano, e riprenderà a dire la sua sulle intercettazioni, o delitti contro la pubblica amministrazione, la separazione delle carriere, bavagli a pm e ai cronisti”. Lavorare, ripeto. a pieno ritmo:  mica come quei fannulloni e svogliati colleghi lamentati da Gratteri rimediando proteste e invocazioni al “rispetto”, peggio di quanto non avessero fatto a suo tempo i sindacalisti delle toghe criticati dall’attuale guardasigilli Carlo Nordio quando faceva il procuratore a Venezia fra un editoriale e l’altro per i giornali che si onoravano della sua collaborazione.  

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Se il Pd di Elly Schlein si becca dello stolto da Luca Ricolfi

Permettetemi di ringraziare da quest’angolo del Dubbio Luca Ricolfi per il godimento che mi ha procurato la lettura sulla Ragione -e dove sennò ?, viene spontaneo chiedersi per il valore che dovrebbero ancora avere le parole- un suo saggio tanto breve quanto esauriente sulla stoltezza. Che è un po’ un ossimoro per il contrasto che suggeriscono la natura dell’articolo -un saggio, appunto- e l’oggetto della sua analisi, da non confondersi per favore, come ha avvertito lo stesso autore, con la stupidità per l’impossibilità di assegnare ad entrambe lo stesso, unico opposto.    

         “Il contrario di stupido -ha spiegato Ricolfi- è intelligente mentre il contrario di stolto è saggio”. E intelligente e saggio non è la stessa cosa. Lo sa, o dovrebbe averlo imparato da sé Matteo Renzi -non citato, per carità, da Ricolfi- che con la riforma della Costituzione avviata nel 2014 in sintonia col pur oppositore Silvio Berlusconi fece una cosa intelligente, almeno per me che poi la votai condividendola, ma prima rompendo col Cavaliere e poi trasformando il referendum cosiddetto confermativo in un plebiscito sulla sua persona -o leadership come si preferisce- non fu per niente saggio. E infatti lo perse per poi perdere altre partite ancora, il cui elenco non è forse finito, anche se ogni tanto gli è riuscito di fare qualche efficace operazione di palazzo. Quella, per esempio, condotta contro il secondo governo di Giuseppe Conte, da lui stesso voluto o permesso, e sfociata nell’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Draghi, per niente stanco -come credeva l’avvocato grillino- della lunga  alla Banca Centrale Europea.

“Lo stolto è chi agisce senza vedere le conseguenze del proprio agire, che potranno essere negative per lui stesso”, ha scritto Ricolfi rammaricandosi che la stoltezza “sia scomparsa dal nostro vocabolario”, specie quello politico, per non essendo scomparsa dal nostro mondo. E lui, con l’autorità quasi scientifica che si è guadagnato scrivendo e insegnando, ha voluto riportarla nel dizionario, e nel commento politico, per applicarla al modo in cui Elly Schlein sta guidando o comunque maneggiando il Pd. Dal quale lascia che escano fior di dirigenti ed eletti, votati magari con le preferenze dove esse sono miracolosamente rimaste, dicendo che avevano sbagliato ad entrarvi a suo tempo perché non era quello l’indirizzo giusto per loro. Insomma avevano sbagliato casa, o cinema, o set cinematografico per girare un film che avrebbe poi potuto portare alla segreteria del partito una come lei. Alla quale Ricolfi ha solo risparmiato l’altra, la prima sua felice perfidia risalente al 2008: la denuncia -con tanto di libro dal meritato successo, scritto prima e aggiornato dopo la sconfitta elettorale conseguente alla all’infelice epilogo anche del secondo e breve governo di Romano Prodi, come l’altro di dieci anni prima- di una sinistra diventata antipatica, suo malgrado o, peggio ancora, consapevolmente.  Una denuncia analizzata in prima persona al plurale: una specie di autoconfessione, avendo anche lui probabilmente votato per il partito fondato e diretto in prima battuta da Walter Veltroni

         Ne sono passati di anni dal 2008- quindici- e la Schlein, oltre a spingere praticamente fuori i dissidenti senza neppure cercare di trattenerli, contesta disinvoltamente alla Meloni l’aumento degli sbarchi dei migranti che il Pd -le ha ricordato impietosamente Ricolfi- reclama di accogliere ancora più numerosi e facilmente.

         Incoraggiato da tanta dissertazione sulla stoltezza, mi sono messo a leggere per curiosità un lungo racconto della periferia del Pd fatto da Carmelo Caruso nello stesso giorno sul Foglio,  ormai uscito dall’area e aria del centrodestra in cui fu fondato da Giuliano Ferrara dopo aver fatto il ministro dei rapporti col Parlamento nel primo governo di Silvio Berlusconi.  Ebbene, al netto della brillantezza del racconto, fra tanti nomi, cognomi, soprannomi e simil-correnti, ho faticato ad arrivare sino alla fine e mi sono ritrovato col mal di testa. Eppure ho una certa esperienza, essendomi guadagnato a suo tempo da un direttore esigente come la buonanima di Indro Montanelli la qualifica di “eurologo”: da Eur, dove la Dc aveva la sua sede e riuniva il Consiglio Nazionale, riservando a Piazza del Gesù, in centro, solo gli uffici di rappresentanza e le sedute della direzione. E proprio alla situazione interna della Dc fu dedicato il mio articolo di apertura del primo numero del Giornale in cui aiutavo Amintore Fanfani, diciamo così,  a contare “amici e nemici” dopo la sconfitta referendaria sul divorzio.

         Le mie mappe democristiane finirono addirittura per far bisticciare il buon Valentino Parlato -come mi raccontò lui stesso al bar di fronte alla sede del manifesto- con i compagni che ne diffidavano per il peso mai abbastanza adeguato, secondo loro, che attribuivo alla sinistra interna allo scudocrociato, anche dopo l’elezione di Ciriaco De Mita nel 1982 a segretario del partito. Parlato invece se ne fidava e avvertiva i compagni che “ci azzeccavo”. Infatti anche De Mita, come Fanfani nel 1959 dopo essersi avventurato nel doppio incarico di segretario del partito e presidente del Consiglio, fu costretto ad arrendersi, sdegnato, al corpaccione moderato di quella che Giampaolo Pansa avrebbe poi chiamato con imponenza “la balena bianca”.

Pubblicato sul Dubbio

Il fuoco congiunto contro la Meloni per familismo e vittimismo

  A più di 20 anni dalla morte e 63 dal successo di “Tutti a casa”, il film di Luigi Comencini in cui lui da ufficiale nella seconda guerra mondiale comunicava al Comando che gli americani e i tedeschi si erano alleati sparando insieme contro gli italiani, Alberto Sordi è tornato nella mia immaginazione per informarmi che il Corriere della Sera e Il Fatto Quotidiano hanno sparato insieme contro Giorgia Meloni per il suo familismo e insieme vittimismo. Familismo per i congiunti che la circondano anche fuori casa, occupando incarichi importanti nel partito e nel governo, e vittimismo per avere appena reagito agli attacchi, in un’assemblea dei “fratelli d’Italia”  protestando contro il “fango” che riceve per questo dagli avversari.

         Sotto la testata del Corriere, e il titolo “Il filo di Arianna” scelto per la rubrica del suo caffè quotidiano, Massimo Gramellini ha indicato nel vittimismo “l’autentica religione nazionale di cui Giorgia Meloni è abile sacerdotessa”, convinta a torto o a ragione che questo sia “il modo migliore per rimanere a galla”.

         Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, come Beppe Grillo da altre postazioni, ha moltiplicato Giorgia Meloni nel fotomontaggio di giornata, le ha assegnato lo slogan “Io, Patria e Famiglia”, ha avviato un’indagine delle sue, da pubblico ministero onorario, sulle “decine di famigliari” che la destra al governo sta sistemando dove capita ed ha impartito nel suo editoriale una severa lezione di vita alla presidente del Consiglio.

         “Capita -ha scritto il direttore del Fatto– che i nuovi partiti sorgano su cerchie familiari e amicali: quando c’è da faticare per pochi voti e posti, alla porta bussano in pochi. Nulla di strano se chi ha costruito il partito dal nulla viene poi eletto e premiato. Ma c’è un limite a tutto e sta alla leader fissarlo, con senso della misura e dell’opportunità politica”. Che naturalmente starebbero mancando, anzi sono largamente mancati alla Meloni.

         Non sono mancate polemiche in passato per un certo familismo a o di sinistra, con fratelli, mogli, compagne impegnati nella stessa causa con gradi parlamentari e di partito. Sotto questo profilo l’unica famiglia fortunata fu ai suoi lontani tempi quella dei Lombardi, sparsasi tra esperienze politiche opposte: Riccardo, per esempio, leader della sinistra socialista, e Gabrio, ultracattolico che negli anni Settanta promosse imprudentemente il referendum contro il divorzio, destinato a procurare alla Dc una sconfitta clamorosa, dagli effetti prolungati sino alla morte. Il compianto Attilio Piccioni, il democristiano che avrebbe potuto raccogliere l’eredità di Alcide De Gasperi se non fosse stato danneggiato dall’ingiusto coinvolgimento del figlio Piero nella morte di Wilma Montesi, disse una volta dei Lombardi, scartando una delle sue solite caramelle sui divani di Montecitorio: “Perché dei due a noi è toccato quello sbagliato?”.

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Vita, miracoli, sorprese ed altro -fra Roma e Bruxelles- di Gentilino Gentiloni

         Ammonta a 18 miliardi e mezzo di euro la terza rata del piano di ripresa appena sbloccata a Bruxelles per l’Italia con tre mesi di ritardo, dei quali a questo punto è inutile lamentarsi.  Non lo farebbe neppure Makkox che oggi sul Foglio grida amichevolmente al commissario europeo, ed ex presidente del Consiglio dei Ministri in Italia, Paolo Gentiloni: “A’ commissà facce Tarzan! Dacce li sordi”.

         Diciotto miliardi e mezzo di euro -ricorda Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera per fare capire la grandezza dei numeri- sono di poco inferiori, sia fa per dire, ai 25 miliardi che occorrerebbero “per fare quadrare i conti del 2024”.

         Lo sblocco della terza rata del piano di ripresa è arrivato nonostante -o forse a causa, chissà?- delle polemiche, dello scontro o del “gelo”, come preferisce chiamarlo sul Corriere Monica Guerzoni, fra la premier in persona Giorgia Meloni e Gentiloni, sedutole alle spalle nel G20 dei giorni scorsi in India,  per lo scarso impegno ch’egli metterebbe nella Commissione europea per sostenere gli interessi della pur sua Italia. Il solito Salvini gli aveva già tolto la maglia azzurra.  

         Del resto, a dispetto del cognome che porta, ereditato peraltro da una nobile famiglia, Gentiloni non sarebbe lui se non deludesse quelli che di volta in volta lo sostengono e si aspettano di essere in qualche modo ricambiati. Ne sa qualcosa persino quel furbacchione che spavaldamente ritiene di essere     Matteo Renzi. Il quale ora si lamenta della irriconoscenza e inaffidabilità di Carlo Calenda, ma nel 2017, in fondo soltanto sei anni fa, dovette ricredersi proprio su Gentiloni. Dal quale si era fatto sostituire a Palazzo Chigi dopo avere perduto il referendum sulla riforma costituzionale imprudentemente trasformato in un referendum su di sé. Quel che rimaneva del segretario del Pd si aspettava dal successore alla guida del governo una mano nella corsa alle elezioni anticipate, ingaggiata pensando che il 40 per cento raccolto nel referendum gli aveva sì procurato la bocciatura della riforma costituzionale e le dimissioni da presidente del Consiglio ma avrebbe potuto bastargli e avanzare per un vantaggioso rinnovo anzitempo delle Camere. Invece Gentiloni si adeguò immediatamente alla linea del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che, per quanto mandato praticamente al Quirinale dallo stesso Renzi due anni prima, non volle neppure sentir parlare di elezioni anticipate. E le fece svolgere alla scadenza ordinaria, l’anno dopo, quando Renzi aveva perso anche un pezzo del partito -Bersani, D’Alema, Speranza, in ordine alfabetico, ed altri- e si era quindi prenotato ad una seconda e ancor più grave sconfitta.

         Forse anche per questo il buon Tommaso Cerno sull’Identità, che ormai supera spesso il manifesto nella gara quotidiana al titolo più brillante, oggi chiama  Gentiloni “l’eurosola”, a caratteri di scatola.

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La Rai “irriformabile” della Gruber come l’Urss di Gorbaciov secondo Carli

A sua insaputa -credo- Lilli Gruber in una intervista al Corriere della Sera promozionale del suo ritorno stagionale nel salotto televisivo de la 7, dove pare che la segua con una certa, insolita soggezione il comune editore Ubaldo Cairo, ha liquidato la Rai come il compianto Guido Carli l’Unione Sovietica dopo una missione di fiducia, e molto personale, affidatagli quand’era ministro del Tesoro dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti, giunto al suo settimo e ultimo governo.

“Irriformabile” disse Carli ad Andreotti dell’ancora Urss dopo avere esaminato sul posto effetti e prospettive della perestrojka, glasnost e altro ancora di Mikhail Gorbaciov. Su cui il predecessore di Andreotti a Palazzo Chigi e ancora segretario della Dc Ciriaco De Mita aveva scommesso tanto, dopo un viaggio a Mosca anche con la famiglia, da proporsi la rimozione di Sergio Romano da ambasciatore al Cremlino per averne ricevuto inviti ad una certa diffidenza, o solo prudenza, nell’approccio col Cremlino e dintorni.

         “Irriformabile” ha detto la Gruber dell’azienda pubblica radiotelevisiva protetta dal cavallo morente di Francesco Messina ad Aldo Cazzullo che le aveva chiesto, anche per avervi lavorato in tanti degli anni passati: “In Rai la destra ha fatto né più né meno quel che faceva la sinistra? O ha fatto peggio?”. Irriformabile la Rai e “insaziabile la politica” che ne dispone, ancora più sfacciatamente e unilateralmente di prima da quando Matteo Renzi -ha ricordato Lilli, Dietilde per l’anagrafe- profittò del suo passaggio a Palazzo Chigi per restituirne il controllo al governo, dal Parlamento al quale i suoi predecessori avevano cercato di affidarla.

         Quasi per rafforzare il suo giudizio di irriformabilità, cioè per aggravarlo, la Gruber si è doluta di aver dovuto apprendere, leggendo i giornali che hanno la fortuna di informarla, che “Giorgia Meloni avrebbe stretto un patto con Marina Berlusconi per tutelare le aziende di famiglia”, concorrenti della Rai sotto il segno del biscione. “I cittadini che pagano il canone meriterebbero uno spettacolo più decoroso. E finalmente una legge sul conflitto di interessi”, ha osservato la conduttrice di Otto e mezza con tono un po’ -mi perdoni la irriverenza- di “comiziante”, come lei stessa ha voluto dire di Giorgia Meloni parlandone di prima e dopo l’arrivo alla guida del governo, per la prima volta al femminile e di destra dichiarata, anzi dichiaratissima. E anche un po’ troppo familistica per i gusti della mia autorevolissima e bella collega.

         Incalzata amichevolmente da un Cazzullo spintosi a ricordarle che “anche di Lei dicono che sia un po’ troppo di sinistra, o comunque anti-governativa”, persino forse -sospetto- nella conduzione a volte sbrigativa della sua trasmissione o nella scelta dei colleghi più frequentemente invitati, la Gruber ha detto, testuale: “Più che l’etichetta di destra o sinistra, di un giornalista credo che vada evidenziato se fa o no tutte le domande, si attiene ai fatti o cerca di manipolare il racconto, se fa da grancassa alla propaganda o se cerca di smontarla. Questo conta alla fine, se parliamo di giornalismo”. Vero, anzi verissimo, per carità.

         A questo punto, tuttavia, cedo alla tentazione di chiedermi -senza volere osare chiederlo a lei direttamente in una intervista che non le ho chiesto, e che probabilmente neppure merito- se quel “patto” della Meloni con Marina Berlusconi “per tutelare le aziende” di quest’ultima non sia catalocabile come manipolazione di un racconto da parte dei giornali ai quali ha alluso la Gruber parlando delle sue letture, e in qualche modo accreditandole.

Potrei spingermi a chiedere, a proposito di racconti manipolati e manipolabili, stavolta riferendomi non tanto alla Gruber quanto ai giornali che di solito la informano, di destra o di sinistra che siano, se non è manipolato anche il sospetto che ho letto o avvertito da qualche parte che sia riconducibile alla strategia di difesa delle televisioni del Biscione ai danni della Rai la campagna d’acquisti che ha portato, per esempio, la figlia di Enrico Berlinguer con la sua “Carta Bianca” a Rete 4 e dintorni. Dove l’interessata ha potuto appena scoprire e testimoniare, in una intervista sempre all’ospitalissimo Corriere della Sera, che i partiti non contano, neppure quello che vive delle fideiussioni di Berlusconi ereditate dai figli.

D’altronde, Bianca Berlusconi non è la prima ad avere scoperto e provato il biscione come una riedizione -fatte le debite proporzioni, naturalmente- dell’ombrello della Nato sotto il quale suo padre a metà degli anni Settanta dichiarò di sentirsi più protetto, più sicuro nella sua ricerca di autonomia del comunismo italiano da quello sovietico. Anche al buon Michele Santoro capitò di lavorare bene, se non meglio, sotto quell’ombrello lasciando la Rai. Corsi e ricorsi.

Pubblicato sul Dubbio

Gli studenti tornano a scuola e il Pd di Elly Schlein in piazza

         Sette milioni di studenti tornano a scuola, o almeno ci provano, pur trovando un insegnante supplente su quattro. Il Pd invece si appresta a tornare in piazza -parola della segretaria Elli Schlein a Ravenna chiudendo la festa della vecchia Unità- per non lasciare soli Maurizio Landini e Giuseppe Conte a scaldare l’autunno in arrivo.  E facendo scoprire pure al buon Federico Geremicca sulla Stampa che “l’universo dem ha cambiato faccia” ormai: tanto fare uscire in un solo giorno in direzione di Carlo Calenda 31 eletti nella sola Liguria fra la soddisfazione della segretaria. Che li ha accusati di avere a suo tempo sbagliato ad entrarvi o rimanervi in attesa di vedere e capire cosa lei fosse capace di fare.

         Il presidente del partito Stefano Bonaccini, sconfitto nella corsa alla segreteria per il voto degli “esterni”, soprattutto grillini, ha contestato alla “superiora” in camicetta quasi violacea, da mezza Quaresima, di essere in piazza -parola di Osho sul Tempo– più di un arotino. Che in effetti in piazza, o per strada, ormai non si vede e non si sente più, tanto sono diventati a perdere anche i coltelli.

         Meno ironicamente di Bonaccini e Osho, ma con più sollievo da parte della Gorgia Meloni in via di ritorno dall’India, Il Foglio dichiaratamente simpatizzante del Pd di Enrico Letta nelle elezioni politiche dell’anno scorso e un po’ altalenante poi col Pd a guida femminile, ha impietosamente rimproverato alla Schlein di “cercare un modello tra le sinistre perdenti” in Europa: dall’Inghilterra della Brexit alla Francia, dalla Germania alla Spagna, dove Pedro Sanchez cerca ancora di sopravvivere alla sconfitta infertagli recentemente dai popolari. Ma a che prezzo? Gliel’ha spiegato il direttore del quotidiano con la ciliegia fra i denti ricordandole che il premier socialista è appeso al “partito guidato da Carles Puigdemont, ancora inseguito da un mandato di cattura emesso dalla magistratura spagnola a causa del referendum separatista promosso anni fa in Catalogna.

         “Può la leader di un partito che ha trasformato la battaglia contro l’autonomia differenziata in un suo elemento distintivo sostenere un governo che nascerebbe grazie ai voti di un partito cento volte più nazionalista della Lega?”, ha chiesto Cerasa alla Schlein inchiodandola alla croce, per fortuna, solo metaforica della incoerenza e della disinvoltura. La sventurata, diversamente dalla monaca manzoniana di Monza, non risponderà naturalmente, essendo Cerasa -credo- un dannato eterologo, direbbe orgogliosamente il generale Roberto Vannacci in attesa di altro incarico nell’Esercito dopo l’incontro col ministro della Difesa Guido Crosetto, a sua volta reduce mediaticamente dalle effusioni al mare con sua moglie, meno imponente ma più bella di lui.  

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Monti non partecipa alla festa per la debolezza sondaggistica del governo

Pur con l’orrore negli occhi -spero- dell’apocalisse marocchina, fra le macerie del terremoto e i volti disperato dei sopravvissuti, il direttore in persona di Repubblica, Maurizio Molinari, ha voluto festeggiare in Italia “il momento della debolezza” del governo di Giorgia Meloni, arrivato “con la prima vera flessione registrata nei sondaggi” come quello pubblicato ieri dal concorrente Corriere della Sera. Una flessione che si aggiunge o completa “le poche risorse economiche per sostenere la crescita, un numero di migranti in costante aumento e le resistenze ideologiche dello zoccolo duro del partito” della premier distratta dai solitamente gratificanti ma forse innocui impegni internazionali.  

         Per fortuna della Meloni e del suo governo un uomo -credo- di maggiori competenze e prestigio di Maurizio Molinari, l’economista e senatore a vita Mario Monti, ex presidente del Consiglio, solitamente parco di riconoscimenti, ancora convinto qualche giorno fa che un accordo fra Roma e Parigi non riuscirà a smuovere la Germania dalla sostanziale indisponibilità ad allentare il patto di stabilità europeo sospeso ancora per poco a causa del Covid, ha rinnovato la sua sostanziale o mezza fiducia -come preferite-nel governo alle prese con “un passaggio difficile per l’economia italiana”. In particolare, in un editoriale del Corriere della Sera egli ha fornito un assist alla “ premier, impegnata in politica già a vent’anni, cresciuta alla Garbatella, piena di ardimento” e al “ministro dell’Economia, varesino laureato alla Bocconi, uomo pragmatico e prudente”. “E’ nelle loro mani, nelle loro capacità complementari, nella loro intesa la possibilità -ha scritto- di trasformare quel passaggio difficile in una grande opportunità”.

         Quale sia questa opportunità Monti lo ha spiegato avvertendo che “se parleranno chiaro e diranno la verità”, come hanno mostrato di voler fare dissipando “le illusioni monetari e finanziarie così come le illusioni populistiche e sovraniste che anch’essi hanno contribuito ad alimentare” in passato, “il buon senso tornerà nelle menti degli italiani e nelle aule parlamentari: la più importante -ha detto- delle riforme” possibili o auspicabili. Compresa -credo- quella del cosiddetto premierato su cui si sprecano speranze e terribili previsioni, addirittura “eversive” secondo il pur mite costituzionalista Enzo Cheli.

         A scommettere naturalmente che le cose vadano al contrario di quanto auspichi Monti è, fra gli altri, la segretaria del Pd Elly Schlein, sempre più decisa a inseguire il grillino Giuseppe Conte sul fronte populista piuttosto che a trattenere i riformisti finalmente -secondo lei- in uscita dal Nazareno, il posto sbagliato dove avevano deciso di restare dopo la sua irruzione al vertice. Lei non se ne sente adesso abbandonata, ma liberata, come la propone sul Secolo XIX Stefano Rolli.

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La Meloni ride in India anche dei sondaggi che la danno in calo personale in Italia

         Non credo che Giorgia Meloni, in India per il G20, abbia smesso di ridere apprendendo del calo dei consensi al governo e a lei personalmente attribuitogli in Italia dall’Ipsos in un sondaggio condotto per il Corriere della Sera. E analizzato da Nando Pagnoncelli con una certa enfasi scrivendo di “crollo” nella sintesi pubblicata in prima pagina. In particolare, il gradimento per il governo risulta sceso al 42 per cento e il non gradimento salito al 47. E “per la prima volta” dal suo arrivo a Palazzo Chigi, l’anno scorso, la premier si è visto assegnare uno sgradimento personale superiore al gradimento: 52 per cento contro il 49 di luglio.

         Non credo neppure che la Meloni sia rimasta male più di tanto leggendo nella rassegna stampa mandatale da Roma il “populismo da zeru titoli”, in rosso, dedicatole dal Foglio con questa spiegazione sommaria del direttore Claudio Cerasa: “Prima la guerra agli extraprofitti (e alle multinazionali). Poi contro la Bce (e Gentiloni). Quindi la deriva securitaria. Perché la politica dello scalpo di Meloni & Co. è un segno non di forza ma di impotenza. Indizi su una deriva”. Un po’ più a destra, sotto il titolo “I ragazzi della 3° C”, Il Foglio fa oggi le pulci ai parlamentari della maggioranza per le loro distrazioni e assenze, pur da “euforia” più che da svogliatezza o dissemso, che farebbero “preoccupare” una Meloni un po’ pentita, in particolare, di avere portato il cognato Francesco Lollobrigida al governo sostituendolo come capogruppo del suo partito alla Camera con Tommaso Foti. Che, imponente nella sua andatura e nell’eloquio, non si nega a nessun telegiornale per raccontare le buone cose fatte dal governo e le cattive dette e fatte dalle opposizioni. Evidentemente parla troppo e vigila poco le sue truppe.  

         La mia sensazione che la Meloni in India non sia rimasta turbata si basa soprattutto sulla “visione di legislatura” propostasi dalla premier dal suo insediamento, quando avvertì che non avrebbe inseguito i voti immediati, dei sondaggi e delle elezioni locali o parziali, mirando a quelli finali, appunto, della legislatura destinata a durare -viste anche le condizioni delle opposizioni- sino all’epilogo ordinario del 2027. E poi, è vero anche in politica, come avverte oggi in prima pagina Mattia Feltri sulla Stampa scrivendo dell’Atlanta e dei rapporti fra dirigenti e tifosi con questa citazione dell’ex direttore sportivo Pier Paolo Marino: “Chi governa non può appoggiarsi sul consenso.  Altrimenti significa che sta governando male”.

         Ma soprattutto penso che la Meloni, preferita a Macron in Francia addirittura da Le Monde, si sarà compiaciuta del 30,2 per cento delle intenzioni di voto attribuito dal sondaggio di Ipsos al suo partito, dell’8,1 alla Lega, del 6,6 a Forza Italia, i suoi alleati, contro il 19,5 del Pd, il 16,4 dei grillini, il 3,5 dell’Azione di Carlo Calenda e il 3,3 di Matteo Renzi: entrambi, questi ultimi, sotto la soglia di accesso al Parlamento europeo da rinnovare l’anno prossimo.

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L’autorete di Renzi sparando troppo su Tajani nella corsa al Centro

Il Centro, doverosamente al maiuscolo, dove Matteo Renzi si è collocato nella sua quarta o quinta “vita politica” -lui stesso a 48 anni compiuti ne ha perso il conto in una intervista ad Avvenire- per ora è solo una postazione mobile d’artiglieria. più ricca però di ambizioni, o di obbettivi da colpire, che di munizioni. E gli obbiettivi vanno dall’Europa in Italia e viceversa, anche se la maggiore e insieme più vicina scadenza elettorale è quella europea fra un anno. Durante il quale chissà quante cose potranno accadere e sorprendere anche Renzi, che pure si mostra sicuro del fatto suo, cioè della sua forza o delle debolezze degli altri, tanto sprovveduti da non temerlo, o addirittura da deriderlo, a cominciare naturalmente da quell’ingrato -il più ingrato di tutti- che sarebbe l’ex ministro e socio fondatore del cosiddetto terzo Polo Carlo Calenda. Uno -ha detto Renzi, sempre ad Avvenire- che lascerebbe sempre “le cose a metà”. Ma cui, nonostante questo, egli sarebbe disposto a riaprire le porte se ci ripensasse sulla praticabilità e sulle presunte, grandi prospettive del nuovo progetto politico propostosi dall’ex presidente del Consiglio.

         Come già gli è accaduto in passato, in particolare quando ripetette l’errore dei democristiani Amintore Fanfani e Ciriaco De Mita di rivestire il doppio ruolo di segretario di un partito composito come la Dc e presidente del Consiglio, temo -per lui- che Renzi anche stavolta stia cedendo alla tentazione di giocare una partita a scacchi da solo, facendo a meno dell’avversario e sostituendolo nelle mosse. O addirittura fornendogli, cioè  fornendosi da solo l’occasione dello scacco matto, come quando personalizzò a tal punto il referendum cosiddetto confermativo della sua pur pregevole riforma costituzionale, che personalmente votai, da appendervisi al pari di un cappio, cioè preannunciando addirittura la sua rinuncia alla politica se fosse stato sconfitto. Poi, a sconfitta puntualmente rimediata, rinunciò solo alla guida del governo conservando quella del Pd nel frattempo spaccatosi, e quindi perdendo poi anche quella.

         Anche se continua a parlare di voti e forse anche di qualche parlamentare da sottrarre al suo ex partito grazie al rischio che esso starebbe correndo con Elly Schlein al Nazareno di diventare la sesta stella del movimento grillino, Renzi punta soprattutto non dico a destra, dove sa che Giorgia Meloni è molto meno debole di quanto lui cerchi di far credere, ma all’elettorato di Forza Italia ormai irreparabilmente orfana di Silvio Berlusconi, per quanto ancora finanziata dai suoi eredi.

Appena si distrae dalla concentrazione della partita solitaria e gli scappa di dire o far capire, direttamente o attraverso il mezzo comunicativo a disposizione, quello che veramente pensa e insegue, Renzi tuttavia fa la classica frittata.

         Sul “suo” Riformista, messogli a disposizione dall’editore ora anche dell’Unità Alfredo Romeo, non più tardi di giovedì scorso 7 settembre a un tale misterioso Phil impegnato a rappresentare come peggio non si poteva il governo e la maggioranza è scappato di scrivere del “famelico” leghista Matteo Salvini e di “uno alla canna del gas come Antonio Tajani”, vice presidente del Consiglio anche lui, ministro degli Esteri e segretario di transizione congressuale di Forza Italia. Uno che, per carità, non avrà i mezzi e il magnetismo pur calante, negli ultimi tempi, del compianto Berlusconi; uno che la premier non ha sicuramente rafforzato parlandone di recente come di una persona da tenere prudentemente all’oscuro della decisione di tassare i superprofitti bancari, ma che è pur sempre il successore del Cavaliere contro il quale nessuno è ancora riuscito ad organizzare o solo a proporre un’alternativa dentro il partito: né l’insofferente Giorgio Mulè né il compassato Renato Schifani.

         Un Tajani liquidato così grossolanamente da Renzi, per giunta dopo essere stato corteggiato, contattato, sondato e quant’altro dietro le quinte sull’ipotesi di una lista comune alle elezioni europee per mettersi entrambi al riparo dalla soglia del 4 per cento per l’accesso al Parlamento europeo da rinnovare l’anno prossimo; un Tajani non così sprovveduto da cadere nella trappola di mettersi un altro generale in casa, secondo dichiarazioni attribuitegli e non smentite, potrebbe riuscire nel miracolo, o comunque nell’imprevisto di fare scattare in Forza Italia l’orgoglio indentitario, e non solo l’istinto della conservazione.

         Fatte le debite proporzioni, naturalmente, al netto del paradosso addirittura tragico che potrebbe sembrare, Renzi rischia di compiere con Tajani l’errore di Putin con Zelensky. Che grazie alla guerra scatenatagli addosso è stato promosso da un comico prestato alla politica come un Beppe Grillo ucraino ad un campione della sovranità del suo paese, a un leader mondiale, ad un patriota dell’Occidente. E Tajani forse ad un teatro non c’è mai più andato da quando, giovanissimo, ne frequentò uno di dimensioni assai modeste come sede di un circolo monarchico.  

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 10 settembre

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