Morto quasi centenario dopo giorni di agonia in un’ora -alle 19,45- scomodissima per i giornali, costretti a rifare le prime pagine e a sostituirne alcune all’interno per fare posto a quelle pur confezionate nei giorni scorsi, quando si apprese che le condizioni del presidente emerito della Repubblica si erano aggravate, Giorgio Napolitano si sarebbe scusato del “disturbo” se avesse potuto farlo.
Il rimpianto politico e mediatico per la sua morte è quasi generale, e giustificato per le qualità di un uomo che, salito sino al vertice della Repubblica, prima ancora di essere rieletto per un secondo mandato si era guadagnato l’amichevole soprannome di Re. Diventato spregiativo, purtroppo, solo per pochi, ostinati a criticarlo e demonizzarlo anche dopo la sua scomparsa.
Proprio all’”ultimo Re” gridato nel titolo di prima pagina, perché non vi fossero fraintendimenti circa una conversione o comunque il riconoscimento di avere, per esempio, sostenuto in occasione della rielezione che Napolitano avesse tramato al Quirinale per ottenerla,, Il Fatto Quotidiano ha aggiunto la più perfida -credo- delle sue pur abituali “cattiverie” di prima pagina. “Sarà cremato come le sue intercettazioni”, vi si legge alludendo al ricorso dell’allora Capo dello Stato alla Corte Costituzionale che impedì praticamente alla Procura della Repubblica di Palermo di coinvolgerlo nel cervellotico processo sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi. Cervellotico, non per una mia capricciosa opinione ma per le conclusioni cui sarebbe giunta la stessa magistratura.
Fa il paio, purtroppo, con la “cattiveria” del Fatto Quotidiano il pesante giudizio espresso dal Giornale che fu di Indro Montanelli nell’editoriale dell’appena tornato direttore Alessandro Sallusti. Che ancora attribuisce la caduta dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi, e in qualche modo anche la sua successiva condanna per frode fiscale e decadenza da senatore, non a sfortunate congiunture internazionali e, certamente, alla durezza della lotta politica condotta dagli avversari ma personalmente anche, o soprattutto, alla partigianeria di Napolitano. Che pure aveva impedito nel 2010 la caduta di Berlusconi per mano dell’allora presidente della Camera e leader della destra Gianfranco Fini.“E’ morto un comunista -ha scritto Sallusti- che ha saputo farsi camaleonte e usare la democrazia a suo piacimento per fini politici di parte. Dopo Oscar Luigi Scalfaro (se non alla pari), penso che Napolitano sia stato il peggior presidente della Repubblica. Ci inchiniamo di fronte alla sua morte, non di fronte alla sua vita”.
Una delle sfortune del compianto Silvio Berlusconi, offertosi a suo tempo addirittura a controfirmare il decreto di nomina di Mario Monti a senatore a vita, propedeutico alla sua successione a Palazzo Chigi, è stata quella di avere avuto sostenitori come Alessandro Sallusti.Non scrivo altro.
Se Massimo D’Alema è stato il primo e sinora unico dirigente proveniente dal Pci e salito alla guida di un governo in Italia, presiedendone addirittura due in un solo anno e mezzo, Giorgio Napolitano è stato il primo e unico a salire ancora più in alto, al Quirinale. Ma già prima era stato ministro dell’Interno al Viminale: un’altra postazione che sembrava impossibile per un politico della sua provenienza.
Al Quirinale da presidente della Repubblica egli si guadagnò in breve tempo, per l’energia messa nell’esercizio delle sue funzioni, il soprannome più cordiale che critico di “Re Giorgio”. E vi rimase non per sette anni, quanto dura il mandato del capo dello Stato, ma nove, essendo stato confermato quasi plebiscitariamente alla scadenza, nel 2013, con 738 voti su 1007 fra senatori, deputati e delegati regionali. La prima volta i voti favorevoli erano stati 543.
Il presidente rieletto sarebbe rimasto per tutto il secondo mandato, sino al 2020, se volontariamente non vi avesse rinunciato dopo due anni per stanchezza fisica dichiarata ma francamente dubbia. Ho sempre avuto il sospetto che egli avesse lasciato per un misto di delusione e preoccupazione procuratogli dai metodi un po’ spicci, diciamo così, con i quali Matteo Renzi, da lui nominato presidente del Consiglio nel 2014, guidava il governo e insieme il Pd, dove erano confluiti i resti del Pci, della sinistra democristiana e cespugli ambientalisti e liberali. Proprio per quei metodi spicci, ostentati presentandosi al Senato con le mani in tasca e l’annuncio che quella che stava chiedendo sarebbe stata l’ultima fiducia di quell’assemblea ad un governo, la riforma costituzionale cui tanto teneva anche il capo dello Stato sarebbe stata bocciata in un referendum improvvidamente trasformato dal presidente del Consiglio in un plebiscito su se stesso. Ma a quel punto, per stanchezza -ripeto- dichiarata ma dubbia, Napolitano aveva già lasciato il Quirinale, sostituito da Sergio Mattarella.
Nei nove anni di Presidenza della Repubblica Napolitano non era mai riuscito a raggiungere la popolarità del socialista Sandro Pertini, l’uomo più a sinistra che lo avesse preceduto al vertice dello Stato. Lui, del resto, nell’esercizio delle sue funzioni non aveva mai puntato sulla popolarità, anche a costo di strappi come quelli compiuti da Pertini sostituendosi al governo nella composizione di una vertenza dei controllori di volo che minacciava di paralizzare il traffico aereo, quanto sull’ordine nei rapporti fra le istituzioni, anche a costo di procurare grosse delusioni a chi magari aveva fatto qualche affidamento su di lui non dico per sovvertire quell’ordine ma per ricavarne un vantaggio nella eterna lotta politica.
Nell’autunno del 2010, per esempio, l’allora presidente della Camera Gianfranco Fini ruppe clamorosamente la maggioranza di centrodestra che lo aveva peraltro portato al vertice di Montecitorio in cambio del ritorno di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Una mozione di sfiducia contro il governo promossa dai finiani, e preparata sin nell’ufficio dello stesso Fini, venne praticamente bloccata da Napolitano intimando di fatto alle Camere di sgomberare prima il campo dall’adempimento dell’obbligo di approvare entro la fine dell’anno il bilancio dello Stato. E quando la mozione fu finalmente messa ai voti perse Fini e vinse Berlusconi, che nel frattempo aveva voluto e saputo serrare le file del centrodestra.
La crisi sopraggiunse dopo un anno, con l’arrivo di Mario Monti a Palazzo Chigi, previa la sua nomina a senatore di a vita con la voglia peraltro di Berlusconi di controfirmane la nomina, ma non per questo la situazione politica svoltò a favore di Fini. Che nelle elezioni anticipate del 2013, pur ricandidandosi alla Camera in uno schieramento allestito a sorpresa da Monti, non riuscì a tornarvi.
Non meno forte -credo- fu la delusione procurata da Napolitano all’amico ed ex compagno di partito Pier Luigi Bersani nel 2013, quando gli tolse l’incarico affidatogli di presidente del Consiglio, declassandolo a pre-incarico, per impedirgli di formare un governo poco ortodosso, diciamo così, per la nostra Costituzione: un governo dallo stesso Bersani definito con una certa imprudenza “di minoranza e combattimento”. Esso avrebbe dovuto guadagnarsi strada facendo la fiducia e non so cos’altro dei grillini arrivati in Parlamento per aprirlo come una scatola di tonno o sardine.
Di militanza comunista, avendo visto nella forte organizzazione del Pci una condizione decisiva per la lotta al fascismo, ma di formazione culturalmente liberale, come per certi versi il più anziano Giorgio Amendola, non fu certamente per caso che Napolitano si trovò spesso al Quirinale a ispirarsi all’azione e alle prediche per niente inutili di Luigi Einaudi. Al quale si richiamò, per esempio, motivando il clamoroso ricorso alla Corte Costituzionale contro il sostanziale tentativo della Procura di Palermo di coinvolgerlo nelle indagini e nel processo, intercettandone il telefono, sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia negli anni delle stragi. Di Einaudi, in particolare, Napolitano ricordò il monito ai successori a trasmettere intatti i poteri del presidente della Repubblica, da chiunque minacciati: anche da una magistratura il cui Consiglio Superiore peraltro è costituzionalmente presieduto dallo stesso Capo dello Stato.
Quel ricorso di Napolitano alla Corte Costituzionale è generalmente indicato fra gli atti più significativi della sua Presidenza con riferimento ai rapporti fra politica e giustizia, o fra politica e magistratura. Senza volergli togliere nulla, per carità, e liberandolo dall’aspetto personale sostanzialmente rimproveratogli da un critico come il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky, che immaginò i giudici della Corte quasi intimiditi dall’iniziativa di Napolitano che ne aveva nominati alcuni, considero ancora più significative, sul piano politico e istituzionale, le distanze dalla magistratura prese da Napolitano commentando la vicenda giudiziaria di Bettino Craxi.
Ciò avvenne in una lettera pubblica alla vedova scritta nel decimo anniversario della morte del leader socialista. In essa il presidente della Repubblica e -ripeto- presidente del Consiglio Superiore della Magistratura lamentò due cose delle quali non so francamente quale possa e debba tuttora considerarsi più grave: il “brusco cambiamento” intervenuto nei rapporti fra giustizia e politica, e quindi nell’equilibrio fra i poteri, con la gestione delle indagini sul finanziamento tanto illegale quanto diffuso dei partiti e la “severità senza pari” -testuale anch’essa- adottata contro Craxi. Del quale peraltro Napolitano anche nel Pci, da dirigente di minoranza, aveva preso le difese politicamente in anni ben precedenti alle cosiddette “Mani pulite”: per esempio, all’epoca della cosiddetta “solidarietà nazionale”, contestando la discriminazione contro i socialisti accettata o -peggio ancora- chiesta da Enrico Berlinguer per appoggiare dall’esterno, tra astensione e regolare voto di fiducia, un governo monocolore democristiano: del quale non facessero parte i comunisti ma neppure i socialisti, appunto.
Diffuso dal Dubbio on line venerdì sera 22 settembre 2023 e pubblicato sabato 23 settembre
A un anno dalle elezioni vinte dal centrodestra a sua trazione personale e politicaGiorgia Meloni può ben sentirsi ed essere soddisfatta. E ciò a dispetto dell’annuncio un po’ troppo prematuro della fine della ”luna di miele” fatto recentemente dal Corriere della Sera per un calo del gradimento personale, “per la prima volta” sotto il 50 per cento, rilevato da un sondaggio Ipsos raccontato e analizzato da Nando Pagnoncelli.
Anche se si volesse preferire, come ha fatto ieri La Stampa, il sondaggio meno generoso della Euromedia di Alessandra Ghisleri, che attribuisce ai fratelli e sorelle d’Italia il 27,6 per cento delle intenzioni di voto, contro il 30 e più dell’Ipsos, la premier potrebbe vantarsi di aver fatto guadagnare al suo partito più di un altro punto e mezzo. E di avere portato il centrodestra. o destra-centro, dal 43,8 al 45,7 per cento.
In sofferenza nella coalizione di maggioranza – più che comprensibilmente dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi- è solo Forza Italia, scesa dall’8,1 al 7 per cento attribuitole da Euromedia fra la sorpresa, la delusione e quant’altro -credo- del Riformista di Matteo Renzi. Che proprio ieri, sbandierando un altro rilevamento, attribuiva meno del 6 per cento ai forzisti e dava quindi ad Antonio Tajani dell’”insufficiente. Il sogno di Renzi e del suo nuovo “Centro” è di fagocitare appunto Forza Italia, strappando alla buonanima del Cavaliere ciò che in vita gli aveva sempre negato, anche quando a perorarne la causa, con tanto di libro e di articoli sul Foglio, era un comune amico come Giuliano Ferrara: la sua adozione come “royal baby”.
A un tale riconoscimento non è oggi disponibile neppure l’ex ministra forzista Letizia Moratti, che ha annunciato al Giornale il suo rientro nel centrodestra per “rafforzarne -ha detto- quella componente” moderata senza la quale “la coalizione oggi al governo potrebbe slittare fatalmente ancora più a destra, accentuando uno spostamento all’estrema già in corso con conseguente disagio di una parte non trascurabile dell’elettorato”. Un disagio che Ferrara smentisce titolando, sempre sul Foglio: “Meloni una di noi, chi l’avrebbe detto”.
In una situazione di espansione e non di arretramento della maggioranza, per non parlare dello sbandamento delle opposizioni divise fra di loro, appare quanto meno paradossale il rimprovero mosso alla Meloni da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di avere fatto peggio di Benito Mussolini col suo primo governo, rinchiudendosi “in una sorta di ridotto della Valtellina” identitario o, se si preferisce evitare infelici memorie, in una sorta di quadrato di Villafranca, costituito da compagni quasi di scuola, da fedelissimi della prim’ora, da vecchi militanti amici, da congiunti e parenti stretti, che tutti quindi le debbono tutto”. Al professore, in un’auto con tanto di cambio ancora a mano, è un po’ scivolato il piede sulla frizione.
Di “ottuso e cieco” non c’è solo il rigore temuto, denunciato e quant’altro dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, affiancato in Sicilia dal suo omologo tedesco, accennando al patto europeo di stabilità che rischia di essere ripristinato dopo la sospensione dovuta al Covid. Di ottuso e cieco c’è anche, anzi ancor di più,a livello planetario il comportamento dell’Onu confermato nell’assemblea generale alla quale hanno appena inutilmente parlato il presidente ucraino Gustavo Zelensky, vittima col suo popolo dell’aggressione russa, e la premier italiana Giorgia Meloni. Che ha lanciato un appello a “una guerra globale e senza sconto ai trafficanti di essere umani”, ormai diventati con la loro rivoltante attività nelle acque del ;editerraneo, evocativa della schiavitù e a spese soprattutto dell’Italia, “la mafia più ricca del mondo”.
“L’Italia resta sola”, ha titolato Repubblica non per dolersene -temo- ma per compiacersene, trattandosi della corazzata di carta della flotta antigovernativa. Non una parola, un aggettivo, un avverbio contro questo costoso rottame che è ormai diventato, a 78 anni dalla sua ottimistica fondazione negli Stati Uniti, un organismo cui l’Italia contribuisce ogni anno versandogli la bellezza di 357 milioni e rotti di dollari. O addirittura 700, secondo i calcoli del vice presidente del Consiglio, ministro delle Infrastrutture, leader della Lega e non so cos’altro Matteo Salvini, forse includendovi le spese sostenute direttamente dal governo italiano per finanziare la partecipazione dei nostri militari alle missioni internazionali di pace e sorveglianza.
Quello dell’Onu è un rottame che a dispetto del suo peso vola nel cielo trascinandosi appresso, nella vignetta di Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera, la premier Meloni. E non solo Zelensky. Che, se non fosse stato difeso dagli americani e dagli alleati della Nato, Italia compresa, sarebbe stato appeso dai russi ad una forca nella sua Kiev entro tre giorni, secondo i piani di Putin, dall’’inizio dell’invasione. O dalla sua ripresa, se vogliamo conteggiare la precedente annessione della Crimea purtroppo festeggiata anche dal compianto Silvio Berlusconi, accorso sul posto ad onorare l’amico.
Davide Giacalone ha scritto oggi sulla sua Ragione che “la Russia di Putin è divenuta la nemica di questo splendido monumento all’imperfezione perché, avviando una guerra imperialistica e sedendo nel Consiglio di Sicurezza Onu”, dove dispone del diritto di veto, “mina le basi dell’equilibrio”. E dove mettiamo, caro Davide, l’aiuto sistematico dei paesi che, anziché ritirarsene di corsa, partecipano ad uno spettacolo di sostanziale viltà o ipocrisia?
Spiace davvero dover pensare e scrivere queste cose dell’Onu nel momento in cui ne è segretario generale un amico dell’Italia come il portoghese Antonio Guterres, riparato a Roma durante la dittatura nel suo paese e assunto dal Partito Socialista.
Ci sta lasciando -temo- il pur quasi centenario Giorgio Napolitano, l’ultimo presidente emerito della Repubblica all’anagrafe, diciamo così, del Senato dopo le scomparse dei predecessori Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi, nell’ordine in cui lo precedettero al Quirinale. Va scomparendo con lui un provatissismo uomo politico che mescolava verso noi giornalisti -penso di non rivelare nessun fatto clamoroso, e tanto meno oscenità- un misto di rispetto, a volte persino ammirazione ma anche diffidenza, al pari di un altro passato prima di lui al Quirinale e altrettanto provato nella sua lunga militanza politica: Sandro Pertini. Che una volta disse pur affettuosamente a mia moglie, in una cena, che dei giornalisti non ci si poteva mai fidare perché incapaci di tenersi un segreto. Vero o presunto che fosse, diceva Napolitano dal canto suo concludendo spesso la lettura di un articolo che lo sorprendeva con questa domanda:: “Sarà vero?”, appunto.
Alle prese con la sua ultima e naturalissima lotta, non più aiutato nella respirazione ma col cuore ancora battente, Napolitano ha potuto risparmiarsi di sentire dalla moglie, che spesso usava leggergli i giornali da quando la vista del marito era peggiorata, un retroscena offertoci oggi dal Corriere della Sera su Paolo Gentiloni, già ministro degli Esteri, già presidente del Consiglio, ora commissario europeo per gli affari economici a Bruxelles per conto dell’Unione, per carità, ma anche dell’Italia che a suo tempo lo designò senza per questo togliergli il passaporto.
Sotto il titolo “Il Pd, Gentiloni e il ruolo futuro” il più diffuso giornale italiano informa che, per quanto lui dica di essere impegnato come commissario europeo “fino a novembre 2024”, quando potrebbe cambiare la giostra a Bruxelles sotto l’egida di un Parlamento rinnovato, Gentiloni “è l’idea per il dopo Schlein” al vertice del Pd. Che -sia detto per inciso- persino l’ex segretario Nicola Zingaretti ritiene destinato a non uscire dalle urne l’anno prossimo, nel voto europeo, sopra il 17 per cento. Rischiando quindi di essere sorpassato dai grillini di quel Conte indicato dallo stesso Zingaretti ancora al Nazareno come il maggiore, fortissimo e ancora altro “punto di riferimento dei progressisti” in Italia, sopra e sotto la sua Volturara Appula.
Se quindi la Meloni è “a Caporetto”, come oggi la descrive sull’Unità Piero Sansonetti, la Schlein sarebbe messa ancora peggio e Gentiloni potrebbe diventare -parole sempre del Corriere della Sera- “il mastice per incollare tutti i pezzi”, persino della sinistra. Vasto programma. E pensare che solo qualche giorno fa lo stesso Gentiloni, accusato da Meloni, Salvini ed altri del governo e della maggioranza di non occuparsi abbastanza anche della sua Italia, come altri commissari d’altronde fanno per i loro rispettivi Paesi, si mostrava offeso. Se ne occupa forse anche fin troppo, ma per tutt’altri versi, interessato più all’opposizione che al governo.
Se quelli per mare e per terra, per i migranti che muoiono in acqua e per chi è ucciso per strada, magari attraversandola a piedi doverosamente sulle strisce pedonali, non fossero problemi tragici verrebbe voglia di scherzare sulla coincidenza voluta dal governo fra la linea dura, la stretta e quant’altro, secondo i titoli dei vari giornali, adottata per mare e per terra, appunto. Mi chiedo se abbia un senso rendere la vita di un automobilista quasi più dura di quella di uno scafista che qualche mese fa la presidente del Consiglio promise -mettendoci la solita faccia- di andare a cercare quasi di persona per “tutto il globo terraqueo”.
Mi sembrano una follia quei 1.700 euro di multa, contravvenzione e quant’altro allo sprovveduto che, omettendo il pulsante del “viva voce”, o sprovvisto del congegno elettronico che collega il suo telefonino alle strumentazioni dell’auto, si fa cogliere in flagranza di conversazione col cellulare in mano. Non parliamo poi dei 2.588 euro e altro ancora in caso di recidiva. Ma i governanti che su proposta del vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini hanno approvato questa cosiddetta riforma del codice della strada hanno cognizione del valore dell’euro? Sanno che i quasi cinquemila euro netti di indennità parlamentare mensile sventolati recentemente in aula alla Camera da Piero Fassino col cedolino vantandone quasi la modestia, l’italiano medio li vede col binocolo, se può permettersi di comperarsene uno per togliersi il gusto di usarlo?
Questo Salvini impegnato su tanti fronti, forse pronto a chiudere almeno le strade in attesa di potere ritentare la chiusura dei porti rischiando altri processi, dovrebbe pur cercare di darsi una regolata, come si dice a Roma. Non so francamente a Pontida, dove non mi sono mai neppure affacciato da quando, dirigendo Il Giorno e avendone criticato a distanza il primo o uno dei primi raduni leghisti al pari di altri quattro colleghi nel giro di una settimana, mi vidi denunciato da Umberto Bossi in persona per associazione a delinquere.
Non mi sono trattenuto da queste ironiche ma insieme amare riflessioni sulla stretta stradale neppure dopo avere letto l’entusiastico commento di Alessandro Sallusti tornato alla direzione del Giornale ed entusiasta del ritorno, a sua volta, della “disciplina” nei rapporti sociali, almeno sulla carta intestata del Consiglio dei Ministri e dintorni. Ho accettato il rischio, per quanto modesto, di finire associato al “solito coro progressista” abituato a “indicare queste misure come illiberali, dimenticando -ha scritto Sallusti- che libertà e disciplina vanno di pari passo e che, diceva il filoso fondatore del pensiero moderno Immanuel Kant, “la mancanza di disciplina è peggio della mancanza di cultura”. Che spreco di citazioni. Personalmente preferisco quell’” adelante Pedro cum juicio” di Antonio Ferrer, il grancancelliere a Milano durante la peste raccontata da Alessandro Manzoni nei “Promessi sposi”.
Tracce persino prevalenti di campagna elettorale per il pur lontano rinnovo del Parlamento europeo, in programma a giugno dell’anno prossimo, si trovano indubbiamente sia nell’invito di Giorgia Meloni alla presidente della Commissione dell’Unione Ursula von der Leyen, accorsa a Lampedusa con un piano di dieci punti per non fare apparire la premier italiana isolata e abbandonata nell’emergenza immigratoria, sia nell’invito del vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini all’amica, ed alleata in Europa, Marine Le Pen. Che, avvolta in un abito nero corto abbastanza per lasciarle scoperte le gambe sopra il ginocchio, è arrivata al raduno di Pontida per accreditare la Lega nell’inseguimento dell’elettorato corso a destra dopo l’exploit delle europee del 2019, quando l’allora vice premier ma anche ministro dell’Interno portò il Carroccio al 34 per cento: ben sopra, quindi, il 30 attribuito ora dai sondaggi al partito della Meloni e quel modesto 8 per cento attorno a cui risulta navigare la Lega.
Con l’aria di volere rispondere solo ad un lettore nell’apposito spazio epistolare, ma con l’accortezza di aprire sulla risposta una vistosa finestra in prima pagina, il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana ha trovato “incredibile” che la campagna elettorale per le europee sia cominciata con nove mesi di anticipo, come se non le appartenessero anche o almeno i due precedenti, da quando -per esempio- Antonio Tajani e Salvini, sempre lui, hanno cominciato a prendersi per i capelli e le parole sui confini della destra nella maggioranza da costruire nella prossima edizione del Parlamento di Strasburgo. E ciò magari per confermare alla presidenza della Commissione l’uscente Ursula -chiamiamola pure confidenzialmente per nome- o addirittura per sostituirla.
Non è il caso di “fermare la giostra” e di pensare più ai problemi “veri” del paese e dell’Unione che a quelli dei partiti? , ha chiesto Fontana rivolgendosi anche alla varie parti dell’ opposizione in Italia, prese pure loro dalla gara a chi prenderà più voti per conquistare la “supremazia” nello schieramento antigovernativo: la Schlein, per esempio, piuttosto che l’ex presidente grillino del Consiglio Giuseppe Conte, sempre che la prima riesca a far valere il suo mandato quadriennale, da poco ricordato ai critici o avversari interni, in caso di altre sconfitte locali prima delle europee.
Meno o per niente preoccupato rispetto al direttore del Corriere della Sera, almeno ai fini della stabilità e della tenuta della maggioranza di centrodestra, di fronte alla troppo lunga campagna elettorale per le europee si è mostrato su Libero il direttore editoriale Daniele Capezzone. Che ha ridotto la conflittualità all’interno della coalizione di governo alla Meloni e a Salvini apprezzando di entrambi un “intelligente autocontrollo” mostrato l’una a Lampedusa e l’altro a Pontida: la prima recuperando per tutto il Paese lo spazio che sembrava essersi improvvisamente ridotto nella gestione esterna e comunitaria dell’immigrazione e il secondo apprezzando, o tornando ad apprezzare la premier dopo essersi lasciato andare a considerazioni liquidatorie sulla solidarietà nell’Unione, e persino sulle iniziative assunte con la Tunisia.
Anche se non è arrivato a scriverlo esplicitamente, limitandosi a sottolineare “il successo chiarissimo” della Meloni nel rapporto sia con Ursula von der Leyen sia con l’assente, a Lampedusa, Emmanuel Macron per la disponibilità strappata alla Francia a collaborare fattivamente al controllo delle acque sinora sorvegliate meglio dagli scafisti che dalle marine europee, Capezzone ha dato l’impressione di scommettere, o quanto meno sperare, su nuovi equilibri nell’Unione dopo le elezioni dell’anno prossimo.
Eppure nel prossimo Parlamento europeo non basterà alla destra, comunque configurata o configurabile, compresa quella francese, come vorrebbe Salvini, o senza di essa, come vorrebbe il successore di Berlusconi al vertice di Forza Italia, portare a casa più voti e seggi. Sullo stesso Libero il nuovo direttore responsabile Marcio Sechi, peraltro reduce dall’esperienza di capo ufficio stampa di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, ha evocato nel suo editoriale “le parole di un uomo che passeggiava nel centro di Milano e incarnava il potere nel silenzio, Enrico Cuccia”. Che diceva, a proposito delle azioni nelle società industriali e finanziarie: “Si pesano, non si contano”. “Anche i voti”, ha chiuso e ammonito Sechi pensando non a torto, o per niente ereticamente, alla politica. L’Unione Europea è un po’ più complessa di un singolo Stato, non è ancora una federazione, e chissà se mai lo diventerà. E comunque non è una bocciofila.
Il direttore Luciano Fontana ha chiesto a se stesso e ai lettori del Corriere della Sera, affacciandosi ad una vistosa finestra in prima pagina, se “possiamo permetterci 9 mesi di campagna elettorale”, quanti ne mancano al rinnovo del Parlamento europeo. Al quale un po’ tutti i partiti guardano con più interesse che ai rinnovi di alcune amministrazioni regionali e comunali che pure precederanno quell’appuntamento ma, certo, non varranno come le altre a misurare la loro consistenza nazionale e, soprattutto, i loro rapporti di forza.
Nove mesi, in effetti, sono tanti, al netto peraltro degli altri due o tre già trascorsi ma ugualmente ascrivibili -per gli atteggiamenti assunti dai partiti sui tantiproblemi che ci assillano- alla campagna elettorale per il Parlamento europeo. Ma sono in fondo -vorrei ricordare al direttore del maggiore giornale italiano- i tempi di una gravidanza umana. Quelli invece previsti o prescritti dalle nostre leggi per il rinnovo del Parlamento nazionale sono due, come la durata della gravidanza di una gatta. Ma sono tempi scritti sulla carta, perché in realtà anche le campagne elettorali per il rinnovo delle Camere, ordinario e persino anticipato che sia, durano tantissimo, cominciando ben prima degli atti ufficiali di avvio.
Appartiene alla campagna elettorale per le europee, con riflessi interni sugli sviluppi dell’esperienza di governo e i rapporti tra i partiti della maggioranza di centrodestra o di destra-centro, anche quello che Libero ha chiamato “il gioco delle coppie” sopra le fotografie dei due eventi svoltisi ieri: l’incontro fra la premier Giorgia Meloni e la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, nella Lampedusa allo stremo per i migranti che vi sbarcano, e il raduno leghista a Pontida. Dove Matteo Salvini ha esibito e raffozato la sua alleanza e amicizia con la leader della destra francese Marine Le Pen in abito rigorosamente nero, e meno rigorosamente ma avvenentemente tendente al corto.
Domani, il giornale di Carlo De Benedetti da più di un anno in versione o tendenza dichiaratamente e orgogliosamente “radicale”, anche nell’opposizione al governo in carica, ha definito “soccorso” quello che la tedesca Ursula ha voluto prestare alla romana garbatelliana Meloni accettando di corsa il suo invito a Lampedusa per accreditarne, persino con un piano comunitario in dieci punti sul tema migratorio, la versione di un’Italia per niente isolata in Europa: né nell’affrontare le dimensioni quasi bibliche degli sbarchi sulle coste che sono anche i confini meridionali europei, né nell’aspirazione a contare di più nell’Unione dopo il rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Dove alla presidente uscente della Commissione cosiddetta esecutiva piacerebbe essere confermata al suo posto con l’appoggio anche della famiglia dei conservatori e riformisti europei presieduta proprio dalla Meloni. Che la combina, diciamo così, con quella davvero parentale, e non solo politica, dei fratelli d’Italia.
Con l’arrivo, gli abbracci, il discorso e tutto il resto programmato da Matteo Salvini in onore di Marine Le Pen, l’amica e alleata d’oltr’Alpe, si potrà ben dire che sui prati di Pontida se ne sono viste, sentite e dette di tutti i colori: come più in generale, del resto, per la storia della Lega.
Dalla Pontida di Umberto Bossi giovane e in piena salute, che faceva il gesto dell’ombrello contro la ministra socialista “bonazza” Margherita Boniver per niente preoccupata degli albanesi che sbarcavano a Bari da navi in cui si erano stipati come sardine siamo passati alla Pontida dove gli albanesi sono rimpianti per numero e per altro ancora rispetto a quelli che sbarcano dall’Africa e altrove sulle coste siciliane e calabresi.
Dalla Pontida dove Bossi prometteva, annunciava, minacciava -come preferite- di andare a cercare “uno per uno” gli elettori di destra liquidati come “fascisti” per bastonarli peggio di quanto i fascisti veri non avessero fatto ai loro tempi con gli avversari siamo passati alla Pontida di Salvini. Dove l’ospite francese è stata invitata anche -se non soprattutto- per accreditare il vice presidente del Consiglio nella ricerca degli elettori di destra da corteggiare per toglierli a Giorgia Meloni e farli salire sul Carroccio, sceso dal 34 per cento del 2019 all’8 e anche meno.
Il vignettista Stefano Rolli ieri sul Secolo XIX si è divertito a immaginare e proporre la Meloni come “underdog da guardia” su un molo di approdo di migranti. Gli è mancata purtroppo l’immaginazione equanime di proporcela oggi sui prati di Pontida per fare da guardia agli elettori del proprio partito insidiati da Salvini. In compenso Emilio Giannelli sul Corriere della Sera ce l’ha proposta sfottente verso un Salvini che “si crede un gallo ma è solo un pollo padano con Le Pen”.
Intanto da un sondaggio appena condotto dall’Ipsos, sempre per il Corriere della Sera, risulta che solo 39 italiani su cento “hanno fiducia” nell’Unione Europea che la Meloni cerca di rivitalizzare con Ursula von ver Leyen nellla “polveriera” di Lampedusa”, come titola Repubblica, In 48 “non hanno fiducia” e 13 non saprebbero che dire o solo pensare. Eppure alla fine il cosiddetto “indice di fiducia” dello stesso rilevamento sale chissà perché dal 39 al 45, che è pur sempre sotto la maggioranza ma memo rovinosamente. E pensare che per i sondaggi c’è gente che perde la testa da quando la buonanima di Silvio Berlusconi se ne fece convincere per “scendere in politica”, come dsse, e per rimanervi sino alla morte guadagnandosi i funerali di Stato nel Duomo di Milano: altro che la galera -non i modesti e brevi servizi sociali a Cesano Boscone- sognata per lui dagli avversari, laici o togati che fossero.
Per quanto da loro invitate, rispettivamente a Lampedusa e a Pontida, al Sud e al Nord dell’Italia, non credo che Ursula sia in grado si soccorrere davvero Giorgia o Marine il barbuto e “truce” Matteo, come sono tornati a chiamarlo al Foglio. E scusatemi se li ho elencati tutti per nome, con intimità abusiva.
Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione Europea, è ormai troppo in uscita, per quanto ambisca alla conferma l’anno prossimo, per poter concedere alla premier italiana più di quello che non le abbia già dato, cioè poco, più parole che fatti, più gesti che altro, sul terreno dell’accoglienza comunitaria, e non solo italiana, ai migranti che sbarcano in Italia, quando ci riescono, non sempre per fermarvisi ma più spesso per raggiungere poi altri paesi europei. Le cui frontiere terrestri sono però meno aggirabili o superabili di quelle marittime che l’Italia ha ereditato dalla natura non so, francamente, se più per fortuna o per disgrazia, visto l’uso che se n’è fatto in tutti i sensi.
Specie se il suo obiettivo, come m’è parso di capire sinora, è quello di rimanere nella sua postazione di Bruxelles non capovolgendo -o ribaltando, come preferiamo dire in Italia dai tempi del compianto Silvio Berlusconi- ma allargando la maggioranza, cioè aggiungendo i conservatori ai popolari e ai socialisti, la presidente della Commissione potrà concedere alla premier italiana solo qualche altra parola o gesto, sorriso e abbraccio: non di più. E la Meloni, giocoforza, dovrà accontentarsi sperando in tempi migliori, come le ha da poco suggerito il senatore a vita Mario Monti in una intervista a Repubblica, convinto per esperienza vissuta a Bruxelles come commissario e a Roma come presidente del Consiglio, che nell’Unione occorra armarsi sempre più di pazienza e astuzia per trattare, mai farsi vincere dalla tentazione di rompere. Che sarebbe la prospettiva peggiore nelle condizioni finanziarie in cui si trova l’Italia col suo debito pubblico.
Ma passiamo all’altra coppia. Marine Le Pen potrà concedere ben poco a Matteo Salvini come vice presidente del Consiglio a livello europeo, dove è fuori gioco. Non parliamo poi del livello francese, dove la signora non può unirsi ma solo adombrarsi ad ogni segnale, vero o falso che sia, di apertura di Macron alle esigenze o richieste italiane.
Una mano Marine potrebbe darla al suo amico Matteo solo nella politica interna italiana aiutandolo ad accreditarsi a destra nell’inseguimento del vecchio elettorato della Meloni perplesso, a dir poco, per l’evoluzione atlantica ed europea della premier: un elettorato che Massimo Cacciari, tornando recentemente a scontrarsi nel salotto televisivo di Lilli Gruber con Marco Travaglio, che ne parlava secondo lui da visionario, ha calcolato attorno al 4 per cento, non di più. Che, sottratto al 30 per cento dei voti ancora attribuitogli, non comprometterebbe al partito della Meloni la posizione di partito di maggioranza relativa, specie col Pd guidato da Elly Schlein.