Giuliano Ferrara si monumentalizza ricordando Giorgio Napolitano sul Foglio

         Ah, che scivolata quella del mio amico Giuliano Ferrara nel pur bellissimo articolo dedicato sul Foglio a Giorgio Napolitano e alle sue “virtù” di “realismo e senso delle istituzioni”: altro che il “camaleonte” datogli dal Giornale dove anche a lui, Giulianone, è capitato di scrivere.

         Una volta tanto Ferrara si è fatto prendere dalla vanità e si è vantato -giustamente, per carità- di avere “suggerito” a Silvio Berlusconi “l’irrituale stretta di mano” nell’aula di Montecitorio a Napolitano che aveva appena smesso di parlare a nome del suo partito e gruppo parlamentare post-comunista contro la fiducia al primo governo formato dal fondatore del centrodestra.  Ciò che invece non è stato giusto è di essersi attribuito questo merito in qualità di “primo ex comunista in un governo repubblicano dal 1947”, quando si consumò la storica  rottura fra Alcide Gasperi e Palmiro Togliatti.

         Ferrara, ex comunista, “cresciuto sulle ginocchia di Togliatti”, come amava dire di lui amichevolmente Bettino Craxi, era in effetti nel 1994 il ministro dei rapporti col Parlamento del primo governo Berlusconi. E sicuramente seppe convincere il premier a quel passo di rispetto verso l’avversario principale in Parlamento. Ma egli non era il primo ex comunista al governo dopo il 1947. Altri lo avevano preceduto per qualche giorno o ora entrando e uscendo  l’anno prima dal governo di Carlo Azeglio Ciampi che aveva appena giurato. Il segretario del Pds-ex Pci Achille Occhetto ne aveva ordinato le dimissioni per dissenso dai democristiani che non avevano votato a favore delle autorizzazioni a procedere chieste dalla magistratura contro il leader socialista per la cosiddetta Tangentopoli.

         Ma prima ancora di quel fuggevole ritorno di ormai post-comunisti, era stato ministro del bilancio nei governi di centrosinistra di Aldo Moro, di Mariano Rumor e di Emilio Colombo l’ex comunista Antonio Giolitti, uscito dal Pci dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956: un’uscita che gli sarebbe costata la bocciatura di candidato al Quirinale proposta da Craxi nel 1978, prima che si realizzasse la convergenza degli ancora comunisti su un altro socialista: Sandro Pertini.  Cosa gli ha fatto il povero, compianto Antonio Giolitti -con quel nome, poi- per essere uscito così radicalmente anche dalla memoria di Giuliano?  A saperlo.

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Le sorprese nella camera ardente di Giorgio Napolitano al Senato

         Note a margine, diciamo così, delle visite a Giorgio Napolitano nella camera ardente allestita al Senato per ospitarne il feretro in vista dei funerali laici di Stato, che si svolgeranno domani nell’aula di Montecitorio. Dove egli visse gran parte della sua esperienza politica da deputato, capogruppo del Pci e presidente dell’assemblea per partecipare poi al primo governo di Romano Prodi come ministro dell’Interno, salire al Quirinale nel 2006 rimanendovi non sette ma nove anni, con la prima rielezione nella storia della Repubblica, e infine tornare di diritto come ex capo dello Stato al Senato, mandatovi già nel 2005 da Carlo Azeglio Ciampi per alti meriti.

         “Il Papa a sorpresa dall’amico presidente”, ha titolato la Repubblica di carta. Ma a sorpresa perché, dopo che Francesco  aveva pubblicamente pregato per lui e invitato i fedeli in Piazza San Pietro a partecipare alla sua apprensione per l’imminente fine del presidente emerito e “servitore della Patria” ? Più specifica e motivata la sorpresa del Giornale. Che, dopo avere definito Napolitano “il peggiore” dei presidenti succedutisi al Quirinale, ha accusato il Papa di non avere accompagnato la sua preghiera davanti al feretro col segno della croce “per non urtare i compagni” del morto.

         La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, criticata la sera stessa della morte di Napolitano per un comunicato “stitico” di ricordo e omaggio dello scomparso, è arrivata nella camera ardente di Palazzo Madama scortata dal presidente del Senato Ignazio La Russa. Ma più della scorta di La Russa, non deve essere piaciuta  ai critici e agli avversari della premier la sua posa, poco o per niente contrita, nei tre passaggi per la camera ardente: alla firma del registro, davanti al ritratto del presidente, nella sosta davanti al feretro -neppure lei facendosi il segno della croce, pur dichiaratamente cristiana- e infine stringendo le mani alla vedova. Caspita, neppure una lacrima è riuscita la Meloni a spremere da quei suoi occhioni.

         Molto particolare, come al solito, la partecipazione del Fatto Quotidiano al lutto nazionale con le sue “cattiverie” di prima pagina. Oggi l’associazione fra la morte di Napolitano e quella del capomafia Matteo Messina Denaro perché “forse Dio vuol sentire entrambe le versioni” delle famose trattative nel cui processo si cercò a suo tempo di coinvolgere il presidente della Repubblica intercettandolo al telefono con Nicola Mancino, poi assolto. Nella “cattiveria” di ieri l’associazione era stata fatta per raccomandare a Messina Denaro di allungare l’agonia “sennò Dell’Utri e Cuffaro non saprebbero a quale funerale partecipare”.

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