Vita, miracoli, sorprese ed altro -fra Roma e Bruxelles- di Gentilino Gentiloni

         Ammonta a 18 miliardi e mezzo di euro la terza rata del piano di ripresa appena sbloccata a Bruxelles per l’Italia con tre mesi di ritardo, dei quali a questo punto è inutile lamentarsi.  Non lo farebbe neppure Makkox che oggi sul Foglio grida amichevolmente al commissario europeo, ed ex presidente del Consiglio dei Ministri in Italia, Paolo Gentiloni: “A’ commissà facce Tarzan! Dacce li sordi”.

         Diciotto miliardi e mezzo di euro -ricorda Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera per fare capire la grandezza dei numeri- sono di poco inferiori, sia fa per dire, ai 25 miliardi che occorrerebbero “per fare quadrare i conti del 2024”.

         Lo sblocco della terza rata del piano di ripresa è arrivato nonostante -o forse a causa, chissà?- delle polemiche, dello scontro o del “gelo”, come preferisce chiamarlo sul Corriere Monica Guerzoni, fra la premier in persona Giorgia Meloni e Gentiloni, sedutole alle spalle nel G20 dei giorni scorsi in India,  per lo scarso impegno ch’egli metterebbe nella Commissione europea per sostenere gli interessi della pur sua Italia. Il solito Salvini gli aveva già tolto la maglia azzurra.  

         Del resto, a dispetto del cognome che porta, ereditato peraltro da una nobile famiglia, Gentiloni non sarebbe lui se non deludesse quelli che di volta in volta lo sostengono e si aspettano di essere in qualche modo ricambiati. Ne sa qualcosa persino quel furbacchione che spavaldamente ritiene di essere     Matteo Renzi. Il quale ora si lamenta della irriconoscenza e inaffidabilità di Carlo Calenda, ma nel 2017, in fondo soltanto sei anni fa, dovette ricredersi proprio su Gentiloni. Dal quale si era fatto sostituire a Palazzo Chigi dopo avere perduto il referendum sulla riforma costituzionale imprudentemente trasformato in un referendum su di sé. Quel che rimaneva del segretario del Pd si aspettava dal successore alla guida del governo una mano nella corsa alle elezioni anticipate, ingaggiata pensando che il 40 per cento raccolto nel referendum gli aveva sì procurato la bocciatura della riforma costituzionale e le dimissioni da presidente del Consiglio ma avrebbe potuto bastargli e avanzare per un vantaggioso rinnovo anzitempo delle Camere. Invece Gentiloni si adeguò immediatamente alla linea del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che, per quanto mandato praticamente al Quirinale dallo stesso Renzi due anni prima, non volle neppure sentir parlare di elezioni anticipate. E le fece svolgere alla scadenza ordinaria, l’anno dopo, quando Renzi aveva perso anche un pezzo del partito -Bersani, D’Alema, Speranza, in ordine alfabetico, ed altri- e si era quindi prenotato ad una seconda e ancor più grave sconfitta.

         Forse anche per questo il buon Tommaso Cerno sull’Identità, che ormai supera spesso il manifesto nella gara quotidiana al titolo più brillante, oggi chiama  Gentiloni “l’eurosola”, a caratteri di scatola.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

La Rai “irriformabile” della Gruber come l’Urss di Gorbaciov secondo Carli

A sua insaputa -credo- Lilli Gruber in una intervista al Corriere della Sera promozionale del suo ritorno stagionale nel salotto televisivo de la 7, dove pare che la segua con una certa, insolita soggezione il comune editore Ubaldo Cairo, ha liquidato la Rai come il compianto Guido Carli l’Unione Sovietica dopo una missione di fiducia, e molto personale, affidatagli quand’era ministro del Tesoro dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti, giunto al suo settimo e ultimo governo.

“Irriformabile” disse Carli ad Andreotti dell’ancora Urss dopo avere esaminato sul posto effetti e prospettive della perestrojka, glasnost e altro ancora di Mikhail Gorbaciov. Su cui il predecessore di Andreotti a Palazzo Chigi e ancora segretario della Dc Ciriaco De Mita aveva scommesso tanto, dopo un viaggio a Mosca anche con la famiglia, da proporsi la rimozione di Sergio Romano da ambasciatore al Cremlino per averne ricevuto inviti ad una certa diffidenza, o solo prudenza, nell’approccio col Cremlino e dintorni.

         “Irriformabile” ha detto la Gruber dell’azienda pubblica radiotelevisiva protetta dal cavallo morente di Francesco Messina ad Aldo Cazzullo che le aveva chiesto, anche per avervi lavorato in tanti degli anni passati: “In Rai la destra ha fatto né più né meno quel che faceva la sinistra? O ha fatto peggio?”. Irriformabile la Rai e “insaziabile la politica” che ne dispone, ancora più sfacciatamente e unilateralmente di prima da quando Matteo Renzi -ha ricordato Lilli, Dietilde per l’anagrafe- profittò del suo passaggio a Palazzo Chigi per restituirne il controllo al governo, dal Parlamento al quale i suoi predecessori avevano cercato di affidarla.

         Quasi per rafforzare il suo giudizio di irriformabilità, cioè per aggravarlo, la Gruber si è doluta di aver dovuto apprendere, leggendo i giornali che hanno la fortuna di informarla, che “Giorgia Meloni avrebbe stretto un patto con Marina Berlusconi per tutelare le aziende di famiglia”, concorrenti della Rai sotto il segno del biscione. “I cittadini che pagano il canone meriterebbero uno spettacolo più decoroso. E finalmente una legge sul conflitto di interessi”, ha osservato la conduttrice di Otto e mezza con tono un po’ -mi perdoni la irriverenza- di “comiziante”, come lei stessa ha voluto dire di Giorgia Meloni parlandone di prima e dopo l’arrivo alla guida del governo, per la prima volta al femminile e di destra dichiarata, anzi dichiaratissima. E anche un po’ troppo familistica per i gusti della mia autorevolissima e bella collega.

         Incalzata amichevolmente da un Cazzullo spintosi a ricordarle che “anche di Lei dicono che sia un po’ troppo di sinistra, o comunque anti-governativa”, persino forse -sospetto- nella conduzione a volte sbrigativa della sua trasmissione o nella scelta dei colleghi più frequentemente invitati, la Gruber ha detto, testuale: “Più che l’etichetta di destra o sinistra, di un giornalista credo che vada evidenziato se fa o no tutte le domande, si attiene ai fatti o cerca di manipolare il racconto, se fa da grancassa alla propaganda o se cerca di smontarla. Questo conta alla fine, se parliamo di giornalismo”. Vero, anzi verissimo, per carità.

         A questo punto, tuttavia, cedo alla tentazione di chiedermi -senza volere osare chiederlo a lei direttamente in una intervista che non le ho chiesto, e che probabilmente neppure merito- se quel “patto” della Meloni con Marina Berlusconi “per tutelare le aziende” di quest’ultima non sia catalocabile come manipolazione di un racconto da parte dei giornali ai quali ha alluso la Gruber parlando delle sue letture, e in qualche modo accreditandole.

Potrei spingermi a chiedere, a proposito di racconti manipolati e manipolabili, stavolta riferendomi non tanto alla Gruber quanto ai giornali che di solito la informano, di destra o di sinistra che siano, se non è manipolato anche il sospetto che ho letto o avvertito da qualche parte che sia riconducibile alla strategia di difesa delle televisioni del Biscione ai danni della Rai la campagna d’acquisti che ha portato, per esempio, la figlia di Enrico Berlinguer con la sua “Carta Bianca” a Rete 4 e dintorni. Dove l’interessata ha potuto appena scoprire e testimoniare, in una intervista sempre all’ospitalissimo Corriere della Sera, che i partiti non contano, neppure quello che vive delle fideiussioni di Berlusconi ereditate dai figli.

D’altronde, Bianca Berlusconi non è la prima ad avere scoperto e provato il biscione come una riedizione -fatte le debite proporzioni, naturalmente- dell’ombrello della Nato sotto il quale suo padre a metà degli anni Settanta dichiarò di sentirsi più protetto, più sicuro nella sua ricerca di autonomia del comunismo italiano da quello sovietico. Anche al buon Michele Santoro capitò di lavorare bene, se non meglio, sotto quell’ombrello lasciando la Rai. Corsi e ricorsi.

Pubblicato sul Dubbio

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