Berlusconi racconta in versione Tacito dall’ospedale la sua discesa in campo

“Chiesi ai mei sondaggisti se si poteva evitare la vittoria dei comunisti. Mi dissero di sì. “Ma solo se scende in campo lei”. Lo feci”. Così Silvio Berlusconi, un pò tacitaniamente,  ha voluto ricordare dal letto dell’ospedale le origini della sua avventura politica in una  telefonata ricevuta e raccontata da Augusto Minzolini. Che è il direttore, anzi “direttorissimo”, come lo chiama con  meritata simpatia l’ex presidente del Consiglio, del Giornale ancora di famiglia ma in via di acquisto da parte degli Angelucci, editori già di Libero e del Tempo. 

Anche io penso, come lo stesso Berlusconi ha detto sempre a Minzolini, e i suoi familiari e amici ai giornalisti dopo essere andati a trovarlo, che anche questa volta “il leone” o “la roccia”, secondo le definizioni, rispettivamente, di un figlio e del fratello, ce la farà alla faccia di chi lo sta celebrando come se fosse già morto. Ma mi ha colpito lo scrupolo autobiografico col quale egli ha voluto precisare come e perché una trentina d’anni fa smise ad un certo punto di sollecitare gli altri a organizzarsi meglio per affrontare le elezioni che sI avvicinavano, e la famosa e “gioiosa macchina da guerra” allestita dall’ultimo segretario del Pci e primo del Pds Achille Occhetto. E ne allestì una sua, di macchina, destinata a sorprendere tutti e a vincere, sino a portarlo direttamente a Palazzo Chigi, senza le tappe intermedie e tradizionali dei leader succedutisi nella cosiddetta prima Repubblica: deputato, o senatore, relatore di qualche legge importante, sottosegretario, ministro, magari capogruppo, segretario del partito e infine capo del governo sullo sfondo di un Quirinale da scalare a tempo debito, e col permesso più della fortuna che della bravura, astuzia e quant’altro. 

A convincerlo furono quindi i sondaggisti, più che la sua ambizione, o la paura attribuitagli dalla buonanima di Enzo Biagi, ma anche da altri ancora in vita, di affrontare da semplice imprenditore gli scenari politici destinati a sostituire quelli dominati  ultimamente dal cosiddetto Caf: l’acronimo dell’alleanza o combinazione fra Craxi, Andreotti e Forlani. Che certamente non gli erano stati ostili sulla strada degli affari edili e editoriali. 

Di quei sondaggisti ricordo ciò che una volta mi volle raccontare tra battute ironiche, delle quali era uno specialista raffinato, e forti preoccupazioni l’allora e ultimo segretario della Dc Mino Martinazzoli, reduce da un incontro avuto con lui, credo, nella sua Brescia, facilmente raggiungibile da Arcore. “Quelli -mi disse parlando appunto dei sondaggisti- gli hanno fatto perdere la testa. Lo fanno andare in giro con una montagna di grafici e prospetti secondo i quali senza di lui saremmo tutti finiti, e magari verrebbe ripristinato anche il comunismo finito tra le macerie del muro di Berlino”. E mi pregò, -sapendo dei nostri rapporti di amicizia e di lavoro, ma sopravvalutandoli un pò troppo- di persuaderlo ad una visione “più realistica”- disse- della situazione politica, certamente non semplice, e delle prospettive da costruire “non giocando al pallottoliere”. Non ne ebbi l’occasione. O la ebbi troppo tardi, quando già il Cavaliere -o “il dottore” come ancora lo chiamavamo un pò tutti nel gruppo del Biscione- aveva già intessuto i suoi rapporti e preso le sue decisioni, confortato -avrebbe poi raccontato- anche dalla mamma originariamente perplessa, a dir poco, pure lei.

Poi ebbi l’impressione, a torto o a ragione, che i rapporti di Berlusconi con i sondaggisti avessero finito per rovesciarsi, nel senso che non fosse stato più lui a farsene condizionare ma loro ad assecondarlo. Alcuni  di essi infatti scomparvero letteralmente dalla scena e ne subentrarono altri, fra i quali eccelle per notorietà e una certa avvenenza da qualche tempo Alessandra Ghisleri. Che tuttavia è apprezzata anche da giornali non proprio teneri con Berlusconi, pure in questi giorni di ricovero in “terapia intensiva”, sottolineata immediatamente dal quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire. Che tuttavia sa bene, come Repubblica con quella rumorosa titolazione sul traffico “al capezzale” dell’ex presidente del Consiglio, come dagli ospedali si possa uscire ancora vivi, e non per forza morti o impediti.

Pubblicato sul Dubbio

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Un pò troppa la fretta, francamente, di vedere la fine di Silvio Berlusconi

Pur preceduta ieri da Avvenire con quel “Berlusconi finito in terapia intensiva”, Repubblica si è sinistramente imbizzarrita oggi a riferire o immaginare il traffico “attorno al capezzale” di un uomo, come Berlusconi appunto, della cui morte i più preoccupati, forse persino più dei “famigliari e famigli”, come li chiama Il Fatto Quotidiano, sono però i vignettisti. La cui disperazione all’idea di perdere una fonte così preziosa del loro lavoro è stata ben rappresentata da Nico Pillinini sulla prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno.

Dalle vignette su di lui, d’altronde, Berlusconi non ha per niente la voglia di privarsi, essendo state in fondo una parte della sua fortuna nei quasi trent’anni di attività politica: specie quelle che scherzano sui suoi incontinenti e largamente condivisi desideri sessuali, come proprio oggi sul Foglio. La cui classe, chiamiamola così, derivata del resto dalla simpatia che in quel giornale nato a suo tempo grazie proprio ai suoi soldi continuano a nutrire per lui anche non condividendone più tutte le scelte politiche; la cui classe, dicevo, riscatta anche la becera “cattiveria” quotidiana di Marco Travaglio. Che esprime la stessa idea attribuendo direttamente e sguaiatamente all’illustre e abituale paziente dell’ospedale milanese San Raffaele una incursione quanto meno manesca sul “culo di un’infermiera”. 

Il fatto -non di Travaglio ma più in generale- è che l’uomo si è rivelato sinora attrezzatissimo a fronteggiare difficoltà, crisi e quant’altro quando smettono di essere acute e  diventano croniche: prima i processi e annessi nei tribunali e ora la leucemia diagnosticata, anzi resa pubblica dai medici curanti. 

Tra le fantasie prodottesi attorno al traffico “al capezzale” di Berlusconi, per tornare al titolo del giornale che ha ereditato dal fondatore Eugenio Scalfari un antiberlusconismo ostinato, c’è quella della impossibilità che Forza Italia sopravviva a chi l’ha inventata. A meno che, se proprio Berlusconi non dovesse farcela a vincere anche questa “ultima battaglia”, come l’hanno sciacallescamente chiamata i suoi avversari, la figlia  maggiore non dovesse decidere di prenderne anche il posto politico. “FI senza eredi, tranne Marina”, ha titolato Il Fatto Quotidiano, dove i vignettisti staranno già allenandosi al compito di caricaturarla a dovere. I suoi lineamenti e trucchi un pò si prestano alle forzature. Solo qualche giorno fa, d’altronde, quando Berlusconi era stato appena dimesso dai controlli di routine e non si era scatenata la nuova paura per la sua salute, l’ex leghista e ora forzista Flavio Tosi diceva che proprio Marina sarebbe “il massimo” per un partito appena raddrizzato dal padre sulla strada del governismo. Smettendola cioè di creare problemi a Giorgia Meloni in concorrenza con Matteo Salvini. Il massimo forse anche dopo la femminilizzazione, chiamiamola così, di Palazzo Chigi e del Nazareno.   

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Berlusconi in terapia intensiva e Renzi superattivo sul fronte riformatore e garantista

Silvio Berlusconi, con i suoi 86 anni belli che compiuti, e con un bel pò di governi e processi dietro o ancora sulle spalle, sarà pure “finito in terapia intensiva”, come ha poco felicemente titolato Avvenire, il giornale -ahimè- dei vescovi italiani. Ma il suo ex “royal baby” Matteo Renzi, come lo definì compiaciuto per un pò Giuliano Ferrara, con i suoi 48 anni festeggiati in gennaio e meno governi e processi dietro o ancora sulle spalle,  ne ha già raccolto l’eredità dell’azione di contrasto ad una magistratura un pò troppo politicizzata, francamente, prenotando e annunciando la direzione sia pure soltanto editoriale, non responsabile, e quindi “irresponsabile”, secondo il nuovo quotidiano di Carlo De Benedetti, Domani, di un giornale bandiera del garantismo come Il Riformista. 

“Tutti i lavori tranne il senatore”, ha titolato criticamente il Corriere della Sera. “Le  mille vite di Renzi, il re degli alibi in fuga dalle responsabilità”, ha praticamente protestato anche La Stampa.

Se questa è stata la reazione dei giornaloni, figuratevi quella del militante Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. Che ha sparato contro la dipendenza, adesso, del senatore di Scandicci dal “coimputato del padre” nel processo Consip, il ricco Alfredo Romeo, ed ha storpiato, al solito, il nome del Riformista chiamandolo “Riformatorio” in un editoriale del quale desidero riportare interamente la conclusione. Essa è indicativa di un ceto modo di ragionare e di rapportarsi con gli altri.

“Si potrebbe pensare -ha scritto Travaglio di Renzi e della sua nuova funzione- che lo faccia per sputtanare la politica e il giornalismo italiani, se non fossero entrambi già sputtanati per conto loro, almeno quanto lui. Più probabile che voglia stupire con effetti speciali: tipo spostare la redazione all’autogrill di Fiano con Mancini caporedattore, o affidare la rubrica “Libera stampa e motoseghe” a Bin Salman”. A parte le allusioni per iniziati o addetti ai lavori, chiamiamoli così, penso che sarà una bella gara, fra Travaglio e Renzi, a chi riuscirà a stupirci di più sulla strada del temuto -ripeto- “sputtanamento” della politica e del giornalismo insieme già in crisi di credibilità.

Riconosco molto volentieri all’amico Piero Sansonetti, che sta per riportare nelle edicole con lo stesso editore Romeo la “sua” Unità uscitane -guarda caso- ai tempi di Renzi alla segreteria del Pd, la furbizia o perfidia, chiamatela come volete, di avere anticipato davanti ai fotografi e alle telecamere la staffetta fra lui e l’ex presidente del Consiglio mettendogli fra le mani il numero del Riformista col titolone di giornata sul “colpo di Stato nel !992” compiuto con l’uso spregiudicato, davanti e dietro le quinte, delle indagini note come “mani pulite”. Su cui Renzi non ha ancora scoperto o capito tutto ciò che si doveva o poteva sapere o capire, sino a preferire -come disse una volta- la memoria di Enrico Berlinguer a quella di Bettino Craxi: memoria e tutto il resto, naturalmente.  

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Quelle “mani pulite” ma non troppo che aprirono e poi chiusero a un’uscita politica da Tangentopoli

Per il clamore anche grafico dell’annuncio, su tutta la prima pagina di ieri del Riformista, con quella foto di Francesco Saverio Borrelli, Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro nella Galleria di Milano, il titolo sul “colpo di Stato” nel 1992 e “la trattativa illegale” raccontata fra i magistrati e la classe politica investita dalle loro indagini sul finanziamento illegale della politica, qualcuno sarà stato portato a pensare ad una sortita paradossale e un pò troppo arbitraria dell’amico direttore Piero Sansonetti, che ci ha messo tanto di firma e di faccia. O ad una sua lettura forzata dell’introduzione scritta da Gherardo Colombo al libro postumo di Enzo Carra, il portavoce di Arnaldo Forlani e della Dc esibito nei corridoi del tribunale di Milano con gli schiavettoni ai polsi nel 1993. 

Non c’è invece nulla di paradossale, di arbitrario, esagerato e quant’altro. Se proprio un rilievo può essere mosso a Piero è di avere rappresentato quello di Gherardo Colombo -uno dei magistrati di punta del pool milanese di “Mani pulite”- come “un aspetto finora sconosciuto e sconvolgente di quella stagione” sfociata nella decapitazione, fine e quant’altro della cosiddetta prima Repubblica. Molti erano, anzi eravamo consapevoli che dietro le quinte degli arresti clamorosi, delle file dei pentiti o simili davanti alla Procura di Milano per scoperchiare Tangentopoli, dei cortei inneggianti alle manette si svolgessero non le vere e proprie trattative gridate da Piero evocando la minaccia a corpo politico, come quella poi contestata per i rapporti fra mafia e politica nella stagione stagista, ma qualcosa che molto assomigliava. Si svolgevano addirittura incontri di studio per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli, consistente in una sostanziale confessione degli imputati o imputabili e in un loro impegno al ritiro della politica in cambio della salvezza giudiziaria, o penale, se preferite. 

D’altronde, fu proprio da quel traffico di incontri, consultazioni, progettazioni che nel marzo del 1993 uscì, in un “pacchetto” di misure del governo allora presieduto da Giuliano Amato, il famoso decreto legge che fu intestato al guardasigilli Giovanni Conso. Il quale peraltro ebbe la cortesia di telefonarmi  per chiedermi di non continuare anch’io ad attribuirgli in modo così diretto ed esclusivo quel provvedimento, che depenalizzava il reato di finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica. 

Rileggete qui con me, per favore la sintesi apposta sull’Unità di sabato 6 marzo 1993 ad un articolo di Fabrizio Rondolino sul parto del governo: “La “risposta politica” a Tangentopoli si chiama depenalizzazione (retroattiva) del reato di violazione del finanziamento pubblico. Superando le incertezze dc e le perplessità di Conso, Amato impone la riforma per decreto. Ora tocca al Parlamento convertirlo in legge. E i tempi coincidono con la campagna referendaria. Il futuro del governo è insomma pieno di insidie”. 

La campagna referendaria era quella per l’abolizione della legge sul finanziamento pubblico, appunto, dei partiti. E quella coincidenza fu tra le cause, se non l’unica invocata più esplicitamente dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per rifiutare la firma al decreto per la depenalizzazione del reato di violazione di quella legge: una firma che invece molti, a cominciare da Giuliano Amato, che poi se ne sarebbe pure lamentato pubblicamente in una intervista al Corriere della Sera, davano per scontata. Scontata perché la riunione del Consiglio dei Ministri dedicata al provvedimento era stata ripetutamente interrotta per consultazioni col Quirinale. 

I primi commenti a caldo al decreto legge, a cominciare da quello del fondatore e ancora direttore di Repubblica Eugenio Scalfari, furono comprensivi, nella convinzione che il provvedimento rispondesse anche ai pareri espressi, raccolti e quant’altro nell’ambiente giudiziario più direttamente interessato alle indagini con quel nome altisonante, ripeto, di “Mani pulite”, ma forse non troppo, se non addirittura accompagnate, come qualcuno titolò, alle “coscienze sporche”. Fu proprio per contestare l’impressione di un accordo stipulato dietro le quinte con gli inquirenti, insomma della “trattativa” evocata da Sansonetti usando la prefazione di Gherardo Colombo al libro di Carra, che Borrelli in persona si pronunciò pubblicamente contro il decreto legge approvato dal Consiglio dei Ministri, facendo cambiare idea a quelli che ne avevano dato una lettura sostanzialmente favorevole o accettabile, a cominciare dal capo dello Stato. Che, guarda caso, dopo e non prima della sortita clamorosa del capo della Procura di Milano annunciò il rifiuto di firmarlo cambiando per la seconda volta le abitudini del Quirinale, o la prassi come preferiscono dire gli esperti. 

La volta precedente era stata quella del 1992, quando le consultazioni del capo dello Stato per la formazione del primo governo della legislatura uscita dalle urne delle elezioni ordinarie erano state allargate, a dir poco, dai gruppi parlamentari e rispettivi partiti proprio a Borrelli. Che dovette riferire sulle indagini in corso -sempre quelle di “Mani pulite”- in modo tale che poi Scalfaro non ritenne di poter conferire l’incarico di presidente del Consiglio a Bettino Craxi, che la Dc guidata da Arnaldo Forlani si accingeva a proporgli formalmente. Il capo dello Stato riuscì a convincere il leader socialista, del quale era stato ministro dell’Interno nella prima esperienza di presidente del Consiglio, a rinunciare spontaneamente e a proporre lui stesso il compagno di partito da preferire. Giuliano Amato, Gianni De Michelis e Claudio Martelli, rispose Craxi aggiungendo: “in ordine non solo alfabetico”. Non è più cronaca, ma storia.

Pubblicato sul Dubbio del 6 aprile

Ripreso da http://www.startmag.it l’8 aprile

Fatti e chiacchiere al di là e al di qua dell’Oceano Atlantico

La democrazia o le circostanze, come preferite, offrono agli americani lo spettacolo inedito di un ex presidente, Donald Trump, smanioso di  ricandidarsi per tornare alla Casa Bianca ma ora in “stato di arresto”, pur virtuale, con 34 casi di imputazione addosso. Da quest’altra parte dell’Oceano abbiamo lo spettacolo di una Russia ostinata da più di un anno a fare terra bruciata dell’Ucraina scommettendo ormai più sulle divisioni interne allo schieramento occidentale favorevole agli aggrediti che sulla forza delle proprie truppe e dei propri arsenali. E, per quanto ci riguarda, un’Italia ridotta al Paese delle “chiacchiere”, secondo il titolo impietoso del Foglio, che contribuisce tuttavia a produrle  con giornali più diffusi pensando di condizionare l’atmosfera, chiamiamola così. 

E’ una realtà desolante provata dai titoli dei quotidiani, magari gli stessi, sorteggiati fra quelli delle ultime 24 ore, non di più. Passiamo così da un’Europa sul punto o tentata dal negarci la terza rata di finanziamento del piano di ripresa e di resilienza, per i ritardi accumulati nella sua realizzazione, e invece “aperta” alle esigenze dell’esecutivo italiano, come dice il Corriere della Sera, o alla “più flessibilità” indicata dalla Verità del pur sempre insofferente e scettico Maurizio Belpietro. 

Siamo inoltre passati da un Matteo Salvini deciso a sfidare l’alleata Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, reclamando la rinuncia ad una parte del piano di rilancio per cogliere dai ritardi l’occasione di ridurre le spese a debito, ad un leader leghista arresosi alla stessa Meloni, come titola La Stampa,  e deciso pure lui a “spendere tutto”, secondo il già citato Corriere della Sera. 

Non parliamo della protesta di Mattarella contro il tentativo dell’opposizione, improvvisamente unitaria, di tirargli la giacchetta contro il governo: una protesta scomparsa rapidamente dalle cronache come una chiacchiera. E al chiacchiericcio ha deciso di partecipare più logorroicamente del solito Marco Travaglio ricavando sul Fatto Quotidiano “la lezione” dai risultati elettorali in Friuli-Venezia Giulia. Che hanno dimostrato come “la gente se ne freghi dei discorsi a freddo sulle alleanze ma sia molto interessata ai candidati e alle identità forti”. “Con Fedriga- -si è accorto il nostalgico di Conte a Palazzo Chigi- la destra aveva entrambe le cose. Il Pd e il M5S, sui territori, hanno handicapopposti: il primo ha troppa classe dirigente, quasi sempre detestata; il secondo non ce l’ha più, o non ancora. Schlein deve smantellarla e rinnovarla dalle fondamenta. Conte (con i nuovi referenti regionali) deve inventarla da zero”. Ma “devono farlo -ha ammonito Travaglio- separatamente, per marcare le rispettive identità, ora che l’opposizione non li obbliga ad allearsi”, come invece cercano spesso di fare più meno apertamente, o sotto traccia, come preferite. Chiacchiere pure queste, ripeto. 

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Il lunedì nero delle opposizioni fra le urne in Friuli-Venezia Giulia e il Quirinale.

Alla faccia del “fiasco” maliziosamente attribuito dal manifesto al governo, e più in particolare a Gorgia Meloni, con un titolo dei suoi, tra ironia, satira, goliardia e immaginazione, sovrapposto ad una foto festosa della premier alla mostra dei vini. Non vi è stata giornata più negativa per le opposizioni, e di conseguenza più positiva per il governo, di quella di ieri. In cui esse hanno raccolto insieme una sonora sconfitta elettorale in Friuli-Venezia Giulia, per quanto scontata, e una reprimenda del presidente della Repubblica, per quanto minimizzata o censurata dai “giornaloni” generalmente ostili o diffidenti, a dir poco, verso la maggioranza. 

I risultati elettorali del Friuli-Venezia Giulia -dove il centrodestra guidato dal governatore leghista Massimiliano Fedriga ha letteralmente “travolto”, doppiandolo, come ha dovuto ammettere anche Il Fatto Quotidiano, il presunto centro-sinistra o post-Ulivo sognato e realizzato in quella regione da Pd e grillini insieme- parlano da soli. Non c’è stata partita contro la coalizione di governo, che -sempre per restare al Fatto, che se n’è consolato- neppure per il “sesto”, altro che terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi, superato anche dai no-vax. 

Ma più che per i malmessi Calenda e Renzi, e anche per i grillini, dimezzatisi per voti anche rispetto ai risultati locali delle elezioni politiche dell’anno scorso, lo smacco è stato forte per la nuova segretaria del Pd Elly Schlein. Che ha avuto la sfortuna di esordire nella regione per lei più difficile, e in più con la palla al piede -altro che risorsa sognata da molti che l’hanno aiutata nella corsa al Nazareno- di un’alleanza ripristinata , ripeto, col Movimento 5 Stelle. 

La botta arrivata da Mattarella, in qualche modo più pesante ancora sul piano tanto istituzionale quanto politico della sconfitta elettorale nella regione Friuli-Venezia Giulia, è consistita nella reazione “infastidita” del presidente della Repubblica -come ha titolato Il Foglio– al tentativo più o meno esplicito, o sommerso, come preferite, di rappresentarlo nei giorni scorsi con  una specie di frusta in mano contro il governo per i ritardi sulla strada del piano nazionale di ripresa e resilienza. Il Presidente ha avvertito gli interessati ch’egli non è il capo dell’opposizione: né al singolare, direi, né al plurale. 

Ciò da solo basta e avanza a Giorgia Meloni per andare avanti sulla sua strada, anche deludendo o contrastando a viso aperto i tentativi della Lega di metterle i bastoni fra le ruote nella maggioranza, pure o soprattutto adesso che ha smesso di farlo il partito di Silvio Berlusconi, o ciò che ne resta. Eppure ancora oggi Repubblica è tornata a scommettere sulla “rissa Meloni-Lega”, appunto, sullo sfondo dei ritardi e della necessaria ridefinizione del piano nazionale di ripresa e resilienza con la Commissione Europea. E La Stampa ha titolato sul governo che “sbanda”. 

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Per favore, non fate perdere la testa al presidente del Senato

Sarebbe da demente -come nella sua versione di “radicalità” è appena capitato a Carlo De Benedetti di dire di Giorgia Meloni per come governa l’Italia, rimediandosi tuttavia del “disgustoso” dalla nuora Paola Ferrari – mettersi a difendere il presidente del Senato Ignazio La Russa dopo che lui stesso ha tenuto a scusarsi pubblicamente del modo in cui ha evocato l’eccidio nazifascista di 79 anni fa alle Fosse Ardeatine.  E poco importa a questo punto se le scuse gli sono uscite dal cuore o dalla lingua, o da entrambe, del tutto spontaneamente o su pressione telefonica, come si è scritto da qualche parte, della presidente del Consiglio e collega di partito  reduce da un lungo incontro politico e conviviale al Quirinale col Capo dello Stato Sergio Mattarella. Che alla sua prima elezione alla Presidenza della Repubblica, nell’ormai lontano 2015, scelse proprio le Fosse Ardeatine per la sua prima visita nella funzione appena affidatagli dal Parlamento, senza aspettare la data dell’annuale cerimonia commemorativa di quella pagina nerissima della storia nazionale. 

Pur avendolo fatto in altre recenti circostanze, da quando Ignazio La Russa si è prestato, volente e nolente, ad accese polemiche per il modo col quale continua a vedere il passato recente e remoto dell’Italia e della propria militanza politica, non mi è mai venuta la voglia di spendere una parola a suo favore anche stavolta. Ho trovato anch’io -come del resto, ripeto, lui stesso- un pò troppo disinvolto il suo modo di maneggiare i passaggi più drammatici della storia. Quei “semipensionati” e “musicanti”, più che nazisti, caduti nell’attentato gappista del 24 maro 1944 a Roma e vendicati con 335 “italiani” -com’è stato rimproverato alla Meloni di aver detto, cadendo anche lei in furiosi attacchi- sono apparsi anche a me una troppo semplicistica rappresentazione dell’obiettivo scelto dai partigiani, particolarmente quelli di militanza comunista: i gappisti, appunto. 

Ma francamente nel decidere di starmene questa volta zitto non avrei mai immaginato che a mettermi in imbarazzo sarebbero stato di lì a poco uno dei più dichiaratamente e orgogliosamente documentati contestatori di La Russa: il direttore della Stampa Massimo Giannini. Dai cui paradossi non mi lascerò tuttavia provocare sino a difendere il questa volta indifendibile e pentito presidente del Senato, per quanto assimilato dal suo critico addirittura al compianto Pio XII. Le cui ossa si rivolterebbero nella tomba se raggiunte anch’esse, come per fortuna è impossibile, da certa rilettura della tragica primavera romana del 1944. 

In particolare, il direttore della Stampa, non gradendo il sacrificio di Salvo D’Acquisto opposto dal presidente del Senato all’attentato dei partigiani comunisti in via Rasella per distinguere il bene dal male, ha accusato Ignazio La Russa di avere adottato “lo stesso registro che usò all’epoca l’Osservatore Romano, “addolorato in nome dell’umanità e dei sentimenti cristiani, quelle 32 vittime da una parte, e 320 persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’arresto”. 

“Ecco, per il patriota Ignazio Benito di oggi -ha scritto Giannini come per inchiodarlo alla presunta croce di Pio XII- i tre “soggetti” della mistificazione corrispondono a quelli del quotidiano della Santa Sede del ’44: i tedeschi sono le vittime, i 335 massacrati alle Ardeatine sono le persone sacrificate, i gappisti sono i colpevoli sfuggiti all’arresto”. Ora spero solo che il presidente del Senato non si monti la testa, non si penta delle scuse e non torni a parlare come qualche giorno fa, peraltro lasciandosi trascinare in una intervista da un troppo zelante sostenitore o ammiratore che gli aveva praticamente suggerito l’immagine dei musicanti caduti in via Rasella. A proposito, presidente, si lasci dare il consiglio, per quanto non richiesto, di preferire nelle interviste gli avversari agli amici, dai quali ultimi -si sa per per un vecchio proverbio- non si è mai abbastanza capaci di proteggersi, occorrendo l’aiuto del buon Dio. 

Citazione per citazione, mi permetto di  aggiungere a quella dell’Osservatore Romano del 1944 da parte del direttore della Stampa un’altra di  Norberto Bobbio, che del giornale tornese fu autorevolissimo collaboratore, proprio a proposito della primavere del 1944 a Roma dopo che anche Marco Pannella aveva avuto qualcosa da ridire sulla rappresentazione più gradita alla sinistra. “Ci sarà lecito almeno dire senza il timore di essere accusati di essere fascisti o amici dei fascisti, che quei 32 soldati tedeschi -scrisse Bobbio, appunto, negli anni Ottanta- erano soggettivamente innocenti?”. Pio XII era già morto da parecchio e non poteva in alcun modo ringraziarlo per il pur tardivo riconoscimento al suo Osservatore Romano. 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 9 aprile

Il fascino per niente discreto del catastrofismo quando il governo non è gradito

A dispetto di tutti i segnali di apertura  e di ottimismo giunti da Bruxelles -non solo dal commissario all’Economia Paolo Gentiloni, italiano e quindi forse sospettabile di una certa partigianeria, per quanto appartenente al Pd notoriamente all’opposizione, ma anche dalla presidente tedesca della Commissione, Ursula von der Leyen, e persino da qualche “frugale” nordico recentemente incontrato da Giorgia Meloni- la stampa di cosiddetta opinione gioca al ribasso e rappresenta una situazione quasi disperata per il governo. Che Emilio Giannelli, il vignettista del Corriere della Sera, ha imbarcato sulla solita carretta del mare zeppa di migranti disperati e chiamata PNRR, l’acronimo del piano nazionale di ripresa e resilienza, lasciandola alla speranza, espressa a riva da due osservatori, di un soccorso della Guardia Costiera. Di navi del volontariato privato e internazionale manco a parlarne, naturalmente, perché non è carne gradita a quegli armatori ed equipaggi. 

Così forse, con quella barchetta disegnata da Giannelli, l’editore del Corriere della Sera Urbano Cairo riuscirà a farsi perdonare una certa attenzione riguardosa mostrata negli ultimi tempi verso il governo e la sua maggioranza di centrodestra, o di destra-centro, sino a tentare addirittura di strappare alla famiglia Angelucci l’acquisto del Giornale. Che è diventato troppo costoso per la famiglia pur non indigente dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, socio politico della Meloni ora meno sospettoso e insofferente dei mesi scorsi. 

Se il Corriere si è spinto a questo, figuriamoci i giornali da più tempo e più ostinatamente contrari al governo o diffidenti. La Repubblica, per esempio, ha titolato sulla “corsa contro il tempo” nella quale sarebbe impegnata la Meloni anche dopo il soccorso chiesto e ottenuto da un pur “allarmato” presidente della Repubblica.  Che peraltro -si è appena appreso- ha consultato, prima di pranzare con la Meloni, l’inquilino precedente di Palazzo Chigi da lui stimatissimo: Mario Draghi. 

Ancora più critico o desolato è apparso sulla Stampa il direttore Massimo Giannini. Che ha scritto letteralmente nel suo editoriale: “L’Italia pare davvero la Nave dei Folli. Ci stiamo giocando i fondi europei. Stiamo mandando in fumo almeno metà dei 191,5 miliardi che l’Europa ci ha messo a disposizione di qui al 2026. In un impeto di dissennato autolesionismo, sembriamo quasi sollevati nel riconoscere che “non c’è niente da fare”. Sembra quasi di cogliere un senso di liberazione, nel mondo politico e imprenditoriale che alza le mani e dice “non possiamo farcela…”. 

Uno legge queste parole e pensa a Marco Travaglio, che va scrivendo e dicendo da due anni che l’Italia non meritava un presidente del Consiglio così astuto come Giuseppe Conte, riuscito a suo tempo a strappare all’Europa circa duecento miliardi di euro, sia pure in grandissima parte a debito. Manca da certe parti solo l’invocazione al suo ritorno a Palazzo Chigi per un miracolo…astrologico. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Processo all’informazione: dalla salute del Papa a quella del governo

Di fronte alla consolante notizia del ritorno del Papa in Vaticano per essere “oggi in piazza per le Palme”, come ha titolato Avvenire, nella redazione del Corriere della Sera, il più diffuso giornale italiano, dove era stato annunciato un “Conclave ombra” per prepararne la successione, hanno pensato di cavarsela con l’ironia di una vignetta di Emilio Giannelli. I “fratelli cardinali”, come li chiama Francesco non so se più generosamente o sarcasticamente, sono passati dagli applausi alla notizia delle “dimissioni” del Papa alla mestizia per la precisazione delle dimissioni sì, ma “dall’ospedale”. 

Una volta tanto si può ridere o sorridere, come preferite, senza imbarazzo e tanto meno scandalo per la “cattiveria” di giornata del Fatto Quotidiano. Che riferendo delle parole del Pontefice sul ricovero subìto “senza avere avuto paura” gliene attribuisce invece per “il rientro in Vaticano”. Dove svolazzano “i corvi”, per dirla col Giornale. 

Ironia o sarcasmo a parte, fra testi, titoli e vignette, è forse il caso di partecipare alla settimana santa o di passione facendo non le bucce ma un processo vero e proprio all’informazione, che francamente contende alla politica, che pure essa mette in croce con sermoni e attacchi, la corsa quotidiana all’approssimazione, alla forzatura, all’esasperazione, alle trame e quant’altro. 

Per uscire dalle mura del Vaticano e dintorni, oggi si legge sulle prime pagine di un pò tutti i giornali delle “aperture” a Bruxelles alle richieste o attese del governo italiano di aggiornare, modificare e quant’altro, senza penalizzazioni, il piano di ripresa e resilienza per i ritardi accumulati nell’esecuzione e le complicazioni intervenute con l’inflazione e l’aumento dei costi, oltre che per le vecchie, sclerotiche deficienze della pubblica amministrazione, centrale e ancor più locale. Eppure solo l’altro ieri non si sapeva a quale giornale credere di più fra quanti dipingevano una Meloni corsa al Colle, a pranzo con Mattarella, per chiedergli e ottenere soccorso, visti i suoi buoni rapporti personali a livello europeo, e quanti dipingevano invece un Mattarella non so se più “allarmato”, secondo Repubblica, o “preoccupato”, secondo la Stampa, o smanioso di sculacciare letteralmente la premier, secondo la fantasia vignettistica del Fatto. 

Uno legge sui giornali del nuovo, furiosamente “radicale” Carlo De Benedetti che, confrontandosi a Modena con la segretaria del Pd Elly Schelin, dà della “demente” a Giorgia Meloni e giustamente corre a leggere il suo nuovo quotidiano, Domani, per saperne di più. Ma non trova conferma, forse per una censura autoimpostosi dall’editore o applicatagli d’ufficio dalla redazione consapevole della eccessiva “radicalità” vantata dall’interessato in un libro di recentissima pubblicazione. Il massimo al quale Domani ha consentito a De Benedetti di spingersi è la denuncia di “un governo incompetente e ignorante”: il meno, direi, da attendersi da una forza o da un uomo di inedita opposizione. 

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Due ore di pranzo, e di fantasie, al Quirinale fra Mattarella e Meloni

Per quanto si fossero appena incontrati in Piazza del Popolo per festeggiare i 100 anni dell’Aeronautica, magari concordando proprio in quell’occasione di confrontarsi più a lungo in un pranzo svoltosi ieri al Quirinale, le due ore di pur “cordiale e collaborativo” incontro fra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni -secondo le versioni ufficiali di entrambe le parti- si sono prestate a doppie letture, come accade di frequente in politica. 

Per Repubblica la premier è salita sul Colle per raccogliere “l’allarme” o “i timori”, secondo La Stampa, del capo dello Stato ormai arrivato -si potrebbe pensare- al limite della sopportazione di fronte all’aumento e all’accavallarsi degli “ostacoli” che sarebbero stati ammessi anche dalla Meloni, pur nella sicurezza di superarli tutti: dall’immigrazione ai tempi di realizzazione del piano di ripresa e resilienza, dalla partita delle nomine al nuovo codice degli appalti intestatosi dal leader leghista e vice presidente del Consiglio Matteo Salvini e contestato, almeno a caldo, dal presidente dell’autorità di controllo e garanzia chiamata Anac. 

Spintisi, come al solito, ben oltre le peggiori rappresentazioni, al Fatto Quotidiano contemplativo delle cinque stelle di Giuseppe Conte hanno attribuito a Mattarella, rovesciando le parti, l’abituale annuncio meloniano della “pacchia finita” e hanno persino rappresentato nella vignetta di giornata la premier come una bambina sculacciata, pancia in giù, dal padrone di casa. Uno spettacolo che debbono avere immaginato anche al Riformista di Piero Sansonetti con quel titolo bianco su nero che fa dire all’”allarmato” Capo dello Stato. “Ehi, Giorgia, che combini?”. 

Secondo Il Messaggero, il giornale più vicino al Quirinale almeno in linea d’aria, quasi sottostante con la sua sede, la Meloni è  salita sul Colle per riceverne una “spinta” non certo verso il baratro inesistente di una crisi, dati i numeri parlamentari della maggioranza e le condizioni delle opposizioni anche dopo il cambio della guardia avvenuto al Nazareno con l’arrivo di Elly Schlein. Persino Repubblica, d’altronde, in un “retroscena” che un pò contraddice il titolo di apertura sull’”allarme” di Mattarella riferisce di una premier alla ricerca di “una sponda” che non risulta francamente negata con quella versione ufficiale -ripeto, da entrambe le parti- di un incontro “cordiale e collaborativo”.

Fra “le grane di Giorgia”, come le chiama  Il Foglio, ma non so se entrata anch’essa nel menù degli argomenti al pranzo fra Mattarella e Meloni, potremmo annoverare anche l’incendio acceso nel dibattito politico dal presidente del Senato Ignazio La Russa, liquidato dal manifesto come “Repubblichino di Stato”, non aprendo -in verità- ma riaprendo un’antica polemica, che in passato ha diviso anche la sinistra, sull’attentato in via Rasella nel 1944, che provocò la feroce reazione dei nazisti con la strage delle Fosse Ardeatine. Ma ne sentiremo e vedremo ancora altre sino alla festa della Liberazione, il 25 aprile. 

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