Il distacco di Rocco Casalino da Giuseppe Conte in versione Eraclito

Nato 53 anni fa in Germania ma di origini pugliesi come Giuseppe Conte, di cui è stato non so francamente se più il portavoce o il consigliere, Rocco Casalino è stato appena lanciato nello stesso giorno, fra le colonne del Corriere della Sera e il salotto televisivo di Lilli Gruber su la 7, in una nuova avventura di comunicazione, diciamo così. Di più, o di più preciso, essendo peraltro abbastanza ampi i confini della comunicazione, l’interessato non ha voluto dire, né rispettosamente hanno voluto sapere i suoi intervistatori.

         Il primo a fargli gli auguri, e forse anche ad aiutarlo, forse è stato lo stesso Conte per come Casalino ha continuato a parlarne, scommettendo ancora sul suo futuro politico a capo di un movimento che resta pur sempre, come ha ricordato, “il terzo partito italiano”, nonostante abbia perso fra elezioni e sondaggi a livello nazionale oltre metà dei voti, e ancora di più a livello locale. Ma non dev’essere così grande, così sicuro, così affascinante questo futuro se Casalino ha voluto separarsene, penso con la solita malizia di memoria andreottiana, che abbina peccato e indovinamento.

         Potrebbe addirittura nascondersi nel futuro di Casalino, per come si sono messe le cose sotto le cinque stelle, un sorpasso sull’ex premier, ambiziosi come sono entrambi. L’intervista dell’ormai ex portavoce di Conte al Corriere della Sera, raccolta da Emanuele Buzzi, si apriva ieri autobiograficamente addirittura così: “Eravamo in una sala riservata a Buckingham Palace io, la regina Elisabetta, Trump, Macron e Conte. Ho pensato alla mia storia di origini umili e mi sono chiesto: “che ci faccio qui?”. 

         Non so cosa e come si fosse risposto Casalino in quella occasione. Solo lui però poteva così sinceramente e spropositatamente mettersi al primo posto nella lista dei presenti in quella sala del palazzo reale inglese, prima della ormai compianta Elisabetta, di Trump alla sua prima presidenza americana, del presidente francese Macron prima di ridursi allo stato critico attuale e di Conte, non so se già col nome raddoppiatogli da Trump o ancora al singolare Giuseppe.

         Quell’io di Casalino a Londra è analogo anche a quell’io che Conte continua ad avvertire e praticare nella politica italiana anche nella sua qualifica di “progressista indipendente”, persino da se stesso. E con quei continui piazzamenti e spiazzamenti che ne fanno nel cosiddetto campo largo dell’alternativa una copia vivente della statua di Eraclito che troneggia a Barletta, città rigorosamente pugliese come Casalino e Conte, o viceversa. Di Conte in versione Eraclito, come ha raccontato sul Foglio Carmelo Caruso, si parla anche tra i pentastellati per la fama di pensatore tra i più oscuri, se non il più oscuro di tutti dai tempi dell’antica Grecia. Oscuro ma proprio per questo capace di comporre i contrari nell’immaginario collettivo. Ma immaginario, appunto.   

La “truffa”, secondo Bruti Liberati, del riequilibrio dei poteri

Edmondo Bruti Liberati, 81 anni compiuti il mese scorso, figura storica di Magistratura democratica, la corrente di sinistra dell’associazione nazionale dei magistrati di cui egli è stato anche presidente, ha appena definito, parlandone alla Stampa, “truffa terminologica” la riforma della giustizia, o dell’ordinamento giudiziario, approvata dalle Camere e in attesa di conferma referendaria.        Che l’alto magistrato ormai in pensione, già capo della Procura della Repubblica di Milano, si augura naturalmente di vedere bocciata anche col suo contributo alla campagna allestita dai sostenitori del no. Un contributo di concetti ma anche di insulti, essendo la truffa un reato nel codice penale, anche con l’aggettivo applicatole da Bruti Liberati.

         Il Parlamento ancor più del governo, peraltro accusato di avere fatto approvare con i dovuti quattro passaggi la riforma nel testo perfettamente proposto, senza un minimo di modifica, neppure nella punteggiatura, potrebbe o dovrebbe sentirsi vilipeso per la truffa attribuitagli. Come a qualche giornalista è accaduto di essere stato denunciato per avere troppo attaccato la magistratura. Ma naturalmente non accadrà a Bruti Liberati, non foss’altro perché un’azione del genere ricadrebbe nell’attuale disciplina completamente domestica che la riforma ha il torto, fra gli altri, forse il più grave, di volere modificare con la cosiddetta alta corte di disciplina.

         La truffa, pur terminologica, denunciata dal magistrato emerito consiste nel non avere messo neppure nel titolo della legge la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri con cui pure è arrivata mediaticamente al pubblico. Una truffa, quindi, alla quale potremmo avere partecipato anche noi “pennivendoli” di memoria lamalfiana.

         Oltre a nascondere nel titolo della riforma la separazione delle carriere, come anche la divisione in due del Consiglio Superiore della Magistratura, l’adozione del sorteggio per la composizione e la già ricordata corte disciplinare, Governo, Parlamento e giornali compiacenti avrebbero avuto il torto di nascondere, secondo Bruti Liberati, il vero, ultimo, decisivo obiettivo della riforma. Che sarebbe quello di “modificare il rapporto tra i poteri”, a vantaggio evidentemente  della politica e a svantaggio della magistratura.

         Almeno per quanto mi riguarda personalmente, per quello che scrivo su Libero, spero senza mettere in imbarazzo direttore, editore e colleghi, condivido perfettamente la necessità di un cambiamento del “rapporto tra i poteri”, come lo chiama Bruti Liberati. E invoco a mia difesa la buonanima di Giorgio Napolitano, che da presidente della Repubblica, e del Consiglio Superiore della Magistratura, nel ricordo anche degli anni in cui era stato presidente della Camera e poi ministro dell’Interno, scrisse una lettera pubblica il 18 gennaio del 2010 alla “cara signora” Anna Craxi, nel decimo anniversario della morte del marito, che ancora lo “turbava” per il pesante trattamento subìto in vita. “In quel vuoto politico – scrisse Napolitano dal Quirinale- trovò sempre più spazio, sostegno mediatico e consenso l’azione giudiziaria, con un conseguente brusco spostamento degli equilibri nel rapporto tra politica e giustizia”.

         Il “vuoto politico”, con un sottinteso anche autocritico avendovi Napolitano contribuito personalmente e come dirigente del Pds-ex Pci, fu quello dei partiti che avrebbero potuto e dovuto prevenire e poi gestire, una volta scoppiato lo scandalo, il fenomeno generalizzato del finanziamento illegale della politica.

         Dopo quel “brusco cambiamento”, ripeto con le parole di Napolitano, il ripristino degli equilibri sta arrivando, come teme paradossalmente Bruti Liberati, con 15 anni di ritardo rispetto all’allarme dell’allora capo dello Stato e una trentina d’anni dei fatti. Se vi sembrano pochi….considerando anche che lo stesso Bruti Liberati ha riconosciuto, parlando degli anni delle cosiddette mani pulite, che ci furono “errori, eccessi”. Che tuttavia non giustificherebbero il proposito di “rimettere in discussione” la realtà che ne è derivata.

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La Banca d’Italia con vista sul campo largo dell’alternativa al governo

Fabio Panetta, il governo di Bankitalia, come la chiamo per ingraziarmi il titolista che preferisce risparmi di parole e battute, è approdato inconsapevolmente nel campo largo dell’alternativa al centrodestra. Un po’ come alla buonanima di Cristoforo Colombo, cui gli è ancora grato alla Casa Bianca il presidente Donald Trump, capitò di approdare e scoprire l’America anziché le Indie alle quali pensava di arrivare.

         Con le osservazioni, chiamiamole così, della Banca d’Italia al bilancio dello Stato e all’annessa manovra finanziaria predisposta dal governo Panetta si è trovato più a sinistra che a destra. Dove invece Giorgia Meloni tre anni fa pensava di poterselo portare, interrompendone la carriera bancaria come ministro dell’Economia del suo primo e perdurante governo, dalla stabilità che vedo singolarmente apprezzata più all’estero che in Italia. Più all’estero, ripeto, dove toccava accertarsi ad ogni vertice internazionale se nel frattempo non fosse cambiato il rappresentante italiano, al singolare ma anche al plurale, che da noi, abituati fra prima e seconda Repubblica, per fermarci a due sole edizioni, che in realtà sono ancora di più, a raccogliere figurine di presidenti del Consiglio e di ministri come quelle Panini. Che proprio in questi giorni sono state evocate, celebrate e quant’altro fra le meraviglie della nostra editoria, più dei giornali che sopravvivono alle edicole dove spesso neppure arrivano.  

         Mancava, o mancherebbe se qualcuno ci stesse davvero già pensando riesumando quell’ossimoro scandaloso che Ugo La Malfa considerava “il partito della Banca d’Italia” evocato ai suoi tempi, la figura di un finanziere, anzi del finanziere di Stato per eccellenza, nella cabala di carta stampata dei leader, federatori e via fantasticando del campo largo dell’alternativa al centrodestra. Che la segretaria del Pd Elly Schlein insegue con orgogliosa, rivendicata “testardaggine unitaria” scoprendo tuttavia che a contenderle la guida cominciano ad essere in tanti nel suo stesso partito, tra convegni correntizi e simili, e non solo fuori. Dove il più insidioso concorrente per lei rimane, a meno di un sorpasso inconsapevole del Panetta dei titoli di prima pagina di questi giorni, l’ex premier ancora a 5 stelle Giuseppe Conte per quell’abilità camaleontica che gli riconoscono un po’ tutti, alcuni in misura anche esagerata, ai limiti della disinvoltura o del trasformismo.

         Nella storia della Repubblica italiana si contano del resto solo con le dita di una mano figure, peraltro di grandissimo prestigio, che potrebbero giustamente inorgoglire nelle sue eventuali aspirazioni il governatore in carica, salite ai vertici politici e istituzionali del paese dai loro uffici o dintorni di via Nazionale, a Roma. Penso, per esempio, a Luigi Einaudi e a Carlo Azeglio Ciampi, asceso ancor vivo al Quirinale dopo un passaggio a Palazzo Chigi. A Lamberto Dini, anche lui proveniente dalla scuderia della Banca d’Italia, o Bankitalia, è toccato invece fermarsi a Palazzo Chigi e poi scendere come ministro degli Esteri alla Farnesina. Oltre ormai è impossibile con quei 94 anni compiuti a marzo scorso. Auguri anticipati per i 95, caro presidente e senatore emerito.

Pubblicato sul Dubbio

Prodi reclama da Trump più di mille tonnellate d’oro italiano

Se non ci fosse, con i suoi 86 anni ben portati, con le sue sorprese, i suoi spiazzamenti, le sue contraddizioni, i suoi buonumori e malumori, che possono portarlo a gesti anche sgradevoli come quelle mani finite tra i capelli di una cronista troppo curiosa o irreverente, Romano Prodi dovremmo inventarcelo per non rendere monotone le nostre cronache politiche. E persino le analisi, quando ci avventuriamo a farne per capire, per esempio, come possa essere capitato proprio a Prodi di vincere due volte le elezioni contro Silvio Berlusconi, come ricordano nei salotti televisivi che lo ospitano, ma di non essere mai durato all’incirca più di un anno mezzo, sui cinque di una legislatura, quando gli è toccato di governare da Palazzo Chigi, una volta trascinandosi appresso nella caduta le Camere.  Peggio di una seduta spiritica, di cui pure egli fu partecipe ai tempi del sequestro di Aldo Moro scampando all’arresto, cui chiunque sarebbe incorso al suo posto raccontando di avere appreso dallo spirito di La Pira il nome di una località chiave – Gradoli- di quella drammatica vicenda cominciata con il sequestro dell’allora presidente della Dc, fra il sangue della sua scorta, e conclusa dopo 55 giorni col suo assassinio.

         L’ultima, o penultima, dell’ex premier fondatore prima dell’Ulivo e poi dell’Unione, è una specie di sfida lanciata a Gorgia Meloni a riscattarsi dalla figura da lui stesso assegnatagli di obbediente al presidente americano Donald Trump con la decisione di chiedere, quanto meno, la restituzione all’Italia di quelle mille tonnellate e più d’oro custodite da troppo tempo nel forziere statunitense di Fort Knox.

         Quella di riprendersi l’oro italiano custodito in America non è neppure un’idea originale, a dire il vero, essendo stata sostenuta dalle opposizioni di turno, anche dalla Meloni prima di arrivare alla guida del governo, come  ha tenuto a ricordare il Corriere della Sera in una cronaca della sortita di Prodi. Ma è un inedito, nel caso dell’ex premier di centrosinistra, con la motivazione un po’ sovranista, o nazionalista, di una prova di autonomia, di affrancamento da un alleato diventato troppo oneroso o inaffidabile. Anche a costo di non avere nei forzieri della Banca d’Italia lo spazio per sistemare i lingotti soprapponendoli o accostandoli alle mille tonnellate e cento già presenti. Per farne poi cosa?, verrebbe da chiedere a Prodi nella sua veste di economista, e non solo di polemista di turno. O di ex contrariato anche dal silenzio in cui cadono i suoi consigli e lamenti, pur giustificati, nel partito di cui la segretaria attuale voleva occupare sedi e sezioni per vendicare proprio lui, trafitto in una corsa al Quirinale dai soliti, immancabili “franchi tiratori” nominalmente amici. Consigli o lamenti, o moniti, per la mancanza, per esempio, di un minimo di programma che renda visibile e realistico un progetto di alternativa al centrodestra.

         Prodi “esagera”, si è lasciato scappare di recente il più paziente o sornione Pier Luigi Bersani, che peraltro da segretario del Pd  fu il regista e gestore della sua improvvisa e sfortunata candidatura alla Presidenza della Repubblica nel 2013, alla scadenza del primo mandato di Giorgio Napolitano, e dopo il fallimento della prima candidatura del Pd alla successione: quella del presidente dello stesso Pd Franco Marini, condivisa anche da buona parte, se non tutto il centrodestra. Che ne ricordava e apprezzava la passata militanza democristiana, fra le correnti di Carlo Donat-Cattin e  di Giulio Andreotti, dopo la morte del leader della sinistra sociale dello scudo crociato.

         Non vorrei che a fare la guardia all’oro ricomposto della Banca d’Italia finisse, tra scherzo e realtà, uno come il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, impegnato con i suoi scioperi generali di venerdì a preparare una “festosa” rivoluzione sociale, direbbe forse Achille Occhetto con l’esperienza fallita della sua “gioiosa macchina da guerra” allestita nel 1994 contro quell’imprevisto guastafeste di Silvio Berlusconi.

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Il telefono rovente del governatore di Banca d’Italia Panetta, anche con Giorgetti

         Mi risulta che il governatore Fabio Panetta, che peraltro Giorgia Meloni tre anni fa avrebbe voluto sottrarre alla  prestigiosa carriera nella Banca d’Italia per farne il ministro dell’Economia del suo primo governo, abba fatto diventare rovente in questi giorni il suo telefono. Ma più in uscita che in entrata, più per cercare di chiarire, precisare e quant’altro, non so sino a che punto riuscendovi, che per ribadire le osservazioni critiche dei suoi uffici al bilancio dello Stato. E, più in generale, alla politica economica del governo sino a trovarsi allineato, e persino offrire argomenti alle opposizioni tornate -se mai avevano smesso- a reclamare misure di lacrime e sangue per i “ricchi”. Con tutte le virgolette che meritano i detentori di stipendi persino di duemila euro al mese.

         Le telefonate hanno raggiunto anche qualche direttore di giornale: a uno, in particolare, del quale non posso fare il nome per ragioni di riservatezza personale e professionale pur non di moda in questi tempi, cui il governatore ha promesso approfondimenti, se non ripensamenti o addirittura scuse, mostrandosi alla fine della conversazione meno sicuro, diciamo così, dei suoi rilievi.  

         Il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, il cui ciuffo frontale di capelli bianchi mi sembra cresciuto col governo Meloni sino a ricordarmi il compianto Aldo Moro, ha fatto seguire alla telefonata ricevuta da Panetta dichiarazioni alquanto polemiche come uomo di governo “massacrato” da “chi può farlo”, ha detto alludendo per primo -credo- proprio al governatore della Banca d’Italia per l’importanza o persino sacralità della sua carica.

 La buonanima di Ugo La Malfa considerava gli uomini- tutti uomini- che si succedevano in via Nazionale al vertice della banca centrale inviolabili e inattaccabili. E fece un cazziatone dei suoi – memorabili a noi giornalisti che ne ricevevamo spesso, sino a sentirci dare dei “pennivendoli”- al figlio Giorgio quando ne lesse parole poco riverenti, secondo lui, per la Banca d’Italia. E’ stato lo stesso Giorgio a rivelarlo di recente in una intervista evocatrice del padre e della Repubblica -quella vera, non di carta- della quale era riuscito ad essere fra i protagonisti pur disponendo di un partito quasi di qualche decimale di voti. Che con la buonanima di Giovanni Spadolini precedette il Psi di Bettino Craxi nella scalata laica a Palazzo Chigi.

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Quel “mai” della Meloni che è persino un assist alla segretaria del Pd

         E’ stata ed è manna per la segretaria del Pd Elly Schlein il “mai” opposto dalla premier Giorgia Meloni alla proposta della tassa patrimoniale proposta dal Nazareno inseguendo la Cgil di Maurizio Landini. Una tassa non condivisa, nel cosiddetto campo largo della pur improbabile alternativa al centrodestra, dall’ex premier Giuseppe Conte in una sorprendente, a dir poco, sintonia con Matteo Renzi e altri attendati -da tenda- del cosiddetto centrosinistra, con o senza il trattino delle polemiche del secolo scorso.

         L’aiuto ricevuta dalla Meloni sta nel ruolo di antagonista principale assegnata alla segretaria del Pd dalla premier nel momento in cui questa, poco importa se a caso o apposta, ha accantonato o rallentato l’inseguimento di Conte. Che è la cosa sempre più contestatale dai riformisti e affini del Pd, sino a metterne in discussione pubblicamente una leadership anche di governo.

         Un campo largo ristretto o indebolito dalla rottura della coppia Schlein-Conte serve alla premier, dietro la facciata di uno scontro più duro e diretto fra lei e la segretaria del Pd, per rendere più evanescente il progetto dell’alternativa, considerando la consistenza elettorale e sondaggistica dei partiti che vi ambiscono. Questa è scuola politica, dalla quale proviene la pur giovane Meloni e che ne spiega la capacità di tenuta a più della metà legislatura. Il cultore Sabino Cassese ha recentemente scomodato persino il fantasma pur opposto di Palmiro Togliatti per apprezzare il pragmatismo e l’astuzia della premier in carica.      

Torna la strategia della tensione per ora solo sociale, gestita dalla Cgil di Landini

Il venerdì dello sciopero generale del 12 dicembre prossimo non ha solo l’inconveniente, chiamiamolo così, lamentato dalla premier Giorgia Meloni, fra le proteste del segretario generale della Cgil Marcello Landini, di precedere il sabato e di allungare così il ponte di fine settimana. Un inconveniente diventato abituale, al quale Landini si illude di potere credibilmente rispondere facendo l’offeso a nome di chi sciopera perdendo la paga di giornata. Che è certamente un sacrificio, per carità,  ma evidentemente sempre più sofferto e difficile da ottenere se occorre incentivarlo in quel modo, o facendo cadere lo sciopero di lunedì, sempre con l’effetto di allungare il ponte di turno. E ciò senza che nessuno ne contesti mai i conti e i costi per non sentirsi accusato di fascismo ed eversione per la tutela costituzionale del diritto di sciopero. Condizionato tuttavia al rispetto di una legge ordinaria prevista dalla stessa Costituzione ma che il segretario generale della Cgil ha recentemente rivendicato il diritto di non rispettare. O ha contestato chi ne pretendeva l’applicazione nell’esercizio delle funzioni di garanzia affidatagli.

         Il venerdì, ripeto, dello sciopero del 12 dicembre prossimo ha anche l’inconveniente di cadere nel 56.mo anniversario di un altro venerdi. E’ quello in cui nacque o esplose, come preferite, la cosiddetta strategia della tensione con una bomba nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, qui a Milano, in cui persero la vita 17 persone e rimasero ferite 88.

Fu una strategia della tensione perseguita col terrorismo, prima nero e poi rosso, finalizzato a destabilizzare il Paese e i suoi governi di turno: da quello presieduto nel 1969 dal democristiano Mariano Rumor a quelli che lo seguirono. Compresi i due governi monocolori democristiani di Giulio Andreotti appoggiati esternamente dal partito comunista di Enrico Berlinguer con una maggioranza denominata di “solidarietà nazionale”. Il cui regista, regolo o come altro vogliamo o possiamo ancora definirlo, fu il presidente della stessa Dc Aldo Moro, sequestrato quasi sotto casa nel 1978 fra il sangue della scorta e ucciso pure lui dopo 55 giorni di prigionia in un covo gestito, fra gli altri, da una donna spentasi in libertà proprio in questi giorni. Vengono i brividi solo a scriverne.

         Ora viviamo, con gli scioperi di venerdì generosamente ricordati solo per questo dalla premier, una stagione di tensione sociale. Sociale da sindacato, per fortuna non unitario perché Landini è riuscito con la sua Cgil ad assumerne guida e gestione sostanzialmente esclusive. Ma mi chiedo con la malizia un po’ connaturata alla professione giornalistica, e con l’esperienza purtroppo accumulata assistendo e raccontando eventi come quelli del 12 dicembre 1969, preceduto peraltro anch’esso da uno sciopero generale, e mesi ed anni successivi, se e sino a quando rimarrà una tensione sociale.

Di quest’ultima Landini si è recentemente e imprudentemente vantato perseguendo un rivolgimento, o qualcosa di simile. E con ciò mettendosi di fatto, consapevole o a sua insaputa poco importa, in gara nella corsa alla leadership del campo a grandezza variabile dell’alternativa al centrodestra avvertito e vissuto a sinistra come un permanente attentato alla democrazia. Un corsa alla quale partecipano o si iscrivono di giorno in giorno, o si lasciano iscrivere da cronache, retroscena  e simili, la segretaria del Pd  Elly Schlein, l’ex presidente del Consiglio a 5 Stelle Giuseppe Conte, la sindaca di Genova Silvia Salis, il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, il sindaco di Milano Beppe Sala, l’assessore capitolino Alessandro Onorato, della scuderia quasi personale di Goffredo Bettini, l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini altri ancora ai quali faccio il torto di non nominarli per difetto di memoria, scusandomene con i lettori e i diretti interessati.

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Venerdì 12 dicembre 2025, come un venerdì di cinquantasei anni fa

         Fu di venerdì anche il 12 dicembre 1969, quando la Repubblica “perse l’innocenza”, come si scrisse alludendo alle manine e manone dei servizi segreti negli attentati terroristici, inizialmente targati di destra, per piegare con la famosa “strategia della tensione” la democrazia italiana sull’onda della contestazione dell’anno prima. Cinquantasei anni fa persero la vita 17 persone e rimasero feriti in 88 con la bomba esplosa nel pomeriggio nella sede milanese della Banca nazionale dell’agricoltura, in Piazza Fontana, a due passi dal Duomo. Dove si svolsero poi i funerali delle vittime col presidente del Consiglio Mariano Rumor terreo in volto. Alla cui vita poi si sarebbe anche attentato.  

         Da allora nulla tornò come prima nella storia della Repubblica. Tutto continuò a peggiorare, tra attentati e sommovimenti politici. Fu necessario, per uscirne, o per cominciare ad uscirne, un passaggio anche istituzionalmente straordinario, col ricorso ad una maggioranza di cosiddetta “solidarietà nazionale” che sospese la distinzione e la concorrenza, normali in una democrazia, fra maggioranza e opposizione. Un passaggio tuttavia che non bastò, ma forse provocò, o accelerò il sequestro del presidente e regolo della Democrazia Cristiana Aldo Moro, lo sterminio della scorta e dopo ben 55 giorni di prigionia, penosa e al tempo stesso di ancora peggiore sfida allo Stato, l’eliminazione anche dell’ostaggio. Che avvenne in una rincorsa anch’essa drammatica fra i terroristi divisi sulla esecuzione della loro infame sentenza di morte e i tentativi dell’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, che avrebbe poi pagato il suo proposito con le dimissioni impostegli dal suo stesso partito e dal Pci, di scongiurare il tragico epilogo della vicenda graziando una dei tredici detenuti con i quali i brigatisti rossi avevano preteso di scambiare il loro prigioniero.

         Mi direte che è esagerato, più ancora dell’ironia opposta dalla premier Giorgia Meloni agli scioperi indetti a ridosso dei week end per allungarli, il mio ricordo degli anni della strategia della tensione per rapportarli alla stagione sindacale che sta cavalcando il segretario generale della Cgil Maurizio Landini. Che ha appena proclamato per venerdì 12 dicembre prossimo lo sciopero generale contro i conti e, più in generale, la politica del governo di centrodestra da lui odiatissimo. Osteggiato, fra annunci e propositi di sommovimenti sociali, con una durezza, una perseveranza, dopo la parentesi dei sorrisi scambiatisi con la premier ad un congresso della Cgil, che ne fanno, a caso o apposta, il capo del cosiddetto campo largo dell’alternativa. Dove la segretaria del Pd Elly Schlein e l’ex presidente del Consiglio, ora presidente solo di ciò che resta del movimento 5 stelle, Giuseppe Conte si contendono nello scenario mediatico la leadership. Poveri illusi.

         Credo che nel nostro Paese ne abbiamo viste e vissute abbastanza per non temere  di esagerare. E per non abbassare mai la guardia.   

Ripreso da http://www.startmag.it  

Come le opposizioni rimestano di tutto contro il governo

         Consapevoli o non, a caso o apposta, la Banca d’Italia e l’Istat – tra giudizi sui conti all’esame del Parlamento e rilevazioni in forza delle quali notoriamente può accadere che in due possiamo risultare avere mangiato un pollo ciascuno mentre in realtà uno solo può averne mangiato due e l’altro solo averne cercato i resti fra gli avanzi- si sono lasciati arruolare dalle opposizioni nella guerra o guerriglia contro il bilancio dello Stato predisposto dal governo. Per conto del quale il paziente, per quanto leghista, ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha cercato di difendersi. E non solo, come avranno magari sospettato gli avversari suoi e di Giorgia Meloni, per guadagnarsi la nomina a presidente del Consiglio quando l’attuale premier, confermata fra due anni nel rinnovo delle Camere, potrà essere eletta dopo altri due al Quirinale.

         Dell’Agenzia delle Entrate le opposizioni hanno invece tentato in questi giorni l’arruolamento tra i favoreggiatori, quanto meno, di pratiche sostanzialmente evasive della Meloni, riuscita, consapevole o no delle pratiche curate dai suoi assistenti, diciamo così, a farsi accatastare come villino la villa che ha a suo tempo acquistato e arricchito di una piscina. L’Agenzia delle Entrate, spontaneamente o sollecitata non dico direttamente dalla premier ma da qualche amico, a dir poco, è intervenuta nelle polemiche per ribadire la legittimità dell’accatastamento del villino Meloni in categoria A7, che precede l’A8 della villa di lusso.

         Coi tempi che corrono, e che temo destinati a sopravvivere anche all’eventuale e auspicabile conferma referendaria della riforma generosamente intestata alla Giustizia, con la maiuscola, non si può escludere che l’Agenzia delle Entrate incorra prima o poi, magari su esposto di qualche oppositore cosiddetto onorevole, o avvocato a corto di clienti e di lavoro, nell’attenzione e nelle indagini della Procura della Repubblica.        

Anche il fantasma di Dalemoni sul referendum per la riforma della giustizia

Col traffico di firme ed altro fra le Camere e   il palazzaccio romano della Cassazione è ormai cominciato il percorso referendario della riforma costituzionale della giustizia, esauritosi quello parlamentare. Ferve il dibattito politico, sindacale, culturale, accademico fra e dentro le comunità che vi sono interessate, sicuramente più degli elettori che saranno chiamati alle urne in primavera per confermare o bocciare le modifiche apportate dal Parlamento all’ordinamento giudiziario, e dintorni.

         Risulta assordante, come si suol dire in queste occasioni, il silenzio sino impostosi sulla materia, pur parlando molto di altro, di recete su ben due pagine del Corriere della Sera, una personalità della politica di una certa competenza della  materia accumulata nella sua attività di parlamentare e di autorevole esponente, quanto meno, della sinistra. E’ Massimo D’Alema, che prima di arrivare al vertice del governo come unico post-comunista nella storia della Repubblica italiana, fu presidente bipartisan di una commissione bicamerale per le riforme costituzionali. Bipartisan, perché sostenuto anche dall’opposizione allora capeggiata da Silvio Berlusconi, che lo preferì ad altri concorrenti della maggioranza. Nacque anche da quella scelta il personaggio “Dalemoni” inventato da Giampaolo Pansa nelle sue cronache indimenticabili. Robe d’altri tempi, davvero.

         In quella commissione lo stesso D’Alema e altri compagni di partito che in questi giorni se ne vantano ancora, dissentendo dal no referendario già anticipato dal Pd di Elly Schlein, aderirono alla prospettiva di una separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Che è il perno della riforma intestatasi dal ministro in carica della Giustizia Carlo Nordio, anche se molti considerano altrettanto importanti, se non ancora di più, la separazione parallela del Consiglio Superiore della Magistratura, l’adozione del sorteggio per la composizione e la cosiddetta alta corte disciplinare. Con e nella quale i magistrati finiranno di giudicarsi, su quel profilo, da soli. Che non è francamente in bel fare per uomini che, dopo avere vinto un concorso, per quanto difficile, per carità, dispongono dei cittadini come nessun altro.

         Sarebbe bello, o quanto meno curioso, senza ricorsi alla privacy e simili trattandosi di una personalità politica di rango come la sua, se D’Alema facesse sapere se è rimasto dell’idea di quando fu presidente della già ricordata commissione bicamerale delle riforme, o ha cambiato idea anche lui, come altri della sua parte. E perché? Se per i contenuti della riforma approvata dalle Camere o per non ritrovarsi pure lui in compagnia delle foto di Berlusconi portate in processione dai suoi eredi e amici politici per le strade come il padre più autentico della separazione delle carriere giudiziarie: più ancora del compianto Giuliano Vassalli che la concepì, diciamo così, riformando a suo tempo il processo. Che poi fu messo in Costituzione, con la riforma dell’articolo 111, come “giusto” e svolto “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Parola, ripeto, di Costituzione.

        Non è certamente un tapino come il sottoscritto che deve ricordare tutto questo a D’Alema, visto anche -peraltro- che lo ha riconosciuto, pur fra la sorpresa dell’associazione nazionale dei magistrati della quale non ha mai fatto parte, l’ex sostituto procuratore simbolo di “Mani pulite” Antonio Di Pietro. Che lo ha volentieri spiegato, col suo linguaggio ruspante, anche ai lettori del Dubbio.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it l’8 novembre

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