Le affinità obbligate di Sergio Mattarella e Giorgia Meloni

Le affinità fra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, uno presidente della Repubblica e l’altra presidente del Consiglio, non saranno elettive, come quelle del celebre, omonimo romanzo di Goethe, ma sono sicuramente istituzionali. Funzionali alla tenuta del sistema, e non solo alla stabilità politica che contrassegna anche all’estero, forse ancor più che all’interno, il governo italiano in carica da più di tre anni. Sono affinità che resistono -debbono resistere, direi- agli infortuni ai quali è esposta sempre la politica, specie in passaggi difficili e delicati come sono di norma quelli elettorali, anche di livello regionale come domenica prossima in Puglia, Campania e Veneto, a conclusione di un turno cominciato a fine settembre nelle Marche.      

         Il Capo dello Stato e quello del Governo, rigorosamente al maschile preferito dalla Meloni, si sono trovati accomunati dall’imbarazzo procurato loro, rispettivamente, da un consigliere e da un capogruppo parlamentare. Il consigliere è quello della Difesa al Quirinale, l’ex parlamentare Francesco Saverio Garofani, e il capogruppo è quello dei fratelli d’Italia alla Camera Galeazzo Bignami.

         Garofani è stato sorpreso in una “chiacchierata fra amici”, come lui stesso l’ha definita non potendola evidentemente smentire, in un ristorante romano sulle prospettive quirinalizie della Meloni, quando scadrà il secondo mandato di Mattarella, e su uno “scossone” che potrebbe o dovrebbe comprometterle. E ciò a vantaggio dell’alternativa al centrodestra che la segretaria del Pd Elly Schlein fatica, a dir poco, a costruire in un campo forse troppo largo ed eterogeneo. Dove si scontrano e si intrecciano ambizioni personali e distanze, a dir poco, programmatiche, di natura interna e ancor più internazionale.

         Bignami non è stato sorpreso ma di proposito ha cavalcato l’infortunio di Garofani reclamando smentite come se davvero, secondo la versione e la titolazione del giornale La Verità, autore dello scoop, al Quirinale ci fossero consiglieri, al plurale, e forse anche altri ancora impegnati a preparare “un piano” contro il governo e la sua maggioranza di centrodestra. E’ seguita una dura e comprensibile reazione a dir poco infastidita, diciamo pure irritata, degli uffici di Mattarella.

         Come in un’arena col toro, si è scatenata sui giornali, a cominciare da quelli maggiori, una rappresentazione bellica dell’accaduto e, più in generale, della situazione, non bastando evidentemente le guerre che continuano, in Ucraina e in Medio Oriente per parlare di quelle più vicine, o meno lontane. La cosiddetta “alta tensione” ha attraversato i titoli delle prime pagine e gli immancabili retroscena. Calma, colleghi. Mi verrebbe la voglia di ripetere col compianto Ennio Flaiano che, per fortuna solo guardando alle seconde file, “la situazione è grave, ma non è seria”.

Pubblicato sul Dubbio

Fra l’ira di Mattarella e l’imbarazzo della Meloni

         Anche se un “piano” per scongiurarla, denunciato vistosamente dal quotidiano La Verità di Maurizio Belpietro, è stato liquidato dal Quirinale come una provocazione rilanciata con una richiesta di smentita levatasi dal giovane capogruppo della destra meloniana alla Camera Galeazzo Bignami, lassù, sul colle più alto di Roma, qualcuno teme che fra quattro anni, alla scadenza del secondo mandato presidenziale di Sergio Mattarella, potrà davvero essere eletta Giorgia Meloni. Se gli avversari del centrodestra, magari decidendosi a seguire i consigli sinora inascoltati di Romano Prodi, alquanto critico verso la segretaria del Pd Elly Schlein, non riusciranno ad allestire un programma e una coalizione alternativa, vera e concreta. Da realizzare grazie anche a qualche “scossone” procurato al governo da qualche infortunio.

Questo “qualcuno”, rimasto al suo posto  almeno sino al momento in cui scrivo, è il consigliere dello stesso Mattarella per la Difesa, con la maiuscola istituzionale, Franceso Saverio Garofani: non un generale, per fortuna, ma più semplicemente un ex parlamentare del Pd e giornallsta considerato evidentemente un esperto della materia dal Capo dello Stato. Questo consigliere, salvo dimissioni o rimozione, per quanto abbia rivelato al Corriere della Sera di avere ricevuto la conferma della fiducia di Mattarella,  è stato sorpreso a parlare del futuro sgradito della Meloni e di quello auspicato delle attuali opposizioni sparse nel cosiddetto campo largo, al tavolo di un “locale pubblico” alquanto affollato. “Una chiacchierata fra amici”, ha raccontato sempre al Corriere.  

A riferire di quella chiacchierata, ripeto, è stato -non ho ancora ben capito se per avere sentito personalmente o averne ricevuto notizia, forse documentabile- Ignazio Mangano ieri a pagina 3  della Verità mandando in brodo di giuggiole in prima  il direttore, non nuovo a polemiche col Quirinale. E questa volta impettitosi a cavallo della… tempesta che. stando ad alcune voci di corridoio, diciamo così, potrebbe avere come vittima, alternativa o complementare magari al consigliere di Mattarella, il capogruppo a Montecitorio del partito della premier Meloni. Che, fra un comizio elettorale e l’altro nelle regioni dove si voterà domenica, si sarebbe lasciata scappare qualche parola non proprio soddisfatta del fuoco acceso alle polveri da Bignami. Voci, ripeto, suffragate dalla premura con la quale egli ha tenuto a precisare di avere pensato e agito da solo.   D’altronde, non sarebbe la prima volta per la premier trovarsi in queste condizioni. Ci sono precedenti forse meno clamorosi ma ugualmente importanti, nei tre anni e più da lei trascorsi a Palazzo Chigi, di esponenti di partito e dello stesso governo un po’ incauti in materia di galateo istituzionale.

Eppure la premier è appena reduce da un incontro non privato, e neppure secondario, con il capo dello Stato al Quirinale. Dove ha partecipato ad una riunione del Consiglio Supremo di Difesa. Magari con il consigliere competente di Mattarella seduto non dico al tavolo, ma a ridosso di qualche parete perché segretario di quel Consiglio.  

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Le attenuanti dovute alla Schlein nel rapporto con Conte

Giusto per pagare un po’ di dazio all’obiettività, che nella polemica politica generalmente sta come il diavolo all’acqua santa, penso che Eddy Schlein -sì, proprio lei, la segretaria del Pd che forse rischia più di tutti nelle elezioni regionali di domenica prossima in Puglia e Campania, pur non essendo candidata direttamente né nell’una né nell’altra- abbia diritto non dico alle attenuanti, perché per fortuna non è ancora finita in tribunale, ma a qualche umana comprensione.

         Le rimproverano, sempre nel Pd, e non solo fra quanti ne contrastarono l’elezione a segretaria, ma anche fra quanti la sostennero nella tradizionale area  riformista pensando di poterla poi condizionare a dovere, un rapporto sbilanciato con Giuseppe Conte, il partito delle 5 Stelle e i suoi candidati nelle elezioni amministrative.

         Lei tutto sommato ha incassato con cortesia. Forse anche troppa, preferendo spesso occuparsi più dei colori del suo abbigliamento consigliati o prescritti da una esperta professionale di moda, che la fa forse elitaria più del dovuto o dell’opportuno in un partito che pure proviene dal Pci e dalla sinistra democristiana, più cespugli vari.  Si è risparmiata, almeno sinora, il botto di uno sfogo cui forse non avrebbe saputo resistere neppure un professionista della politica. Si è risparmiata, cioè, di rinfacciare ai suoi critici di averla eletta al Nazareno, o di averla lasciata eleggere con le votazioni finali aperte anche ai non iscritti, ma iscritti ed elettori di altri partiti, a cominciare dagli allora ancora grillini, proprio per aprire a Conte. Che dopo la sconfitta della sinistra nelle elezioni politiche generali di tre anni fa, aveva condizionato la ripresa dei rapporti col Pd ad un cambiamento “radicale” -ripeto, radicale- della sua leadership. Fu quello il brodo, diciamo così, nel quale maturarono la candidatura prima e l’elezione poi della Schlein con i suoi tre passaporti e le loro custodie nella borsa che indossa con le sue giacche, camicette e pantaloni. Mai a vederla una volta in gonna.

         Si dice, sempre nel suo partito facendo un po’ da sponda alla maggioranza di centrodestra, che la Schlein abbia inseguito Conte tanto da scavalcarlo. E da confondersi anche con la Cgil di Maurizio Landini, sino a sposarne il referendum abrogativo, e morto di astensionismo, del cosiddetto jobs act prodotto ai tempi di Matteo Renzi segretario del Pd e insieme presidente del Consiglio.

         Se questo è vero, com’è vero, è vero anche che, poco importa se a caso o apposta, nella concorrenza con la Schlein scalando Palazzo Chigi il Conte delle 5 Stelle, il Conte in versione Eraclito, il filosofo dell’antichità più famoso per l’oscuro nel quale ragionava, ha ripiegato non al centro ma a destra addirittura. Lo ha fatto assumendone preoccupazioni, proposte e ostilità nei campi non certo secondari della sicurezza e del fisco, lasciando per esempio il cerino della tassa patrimoniale per fare piangere i ricchi fra le dita lunghe e sottili della Schlein. Bacchettata per questo anche dall’ospite elettorale del Pd più famoso e stagionato che è il senatore quasi a vita Pier Ferdinando Casini.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 22 novembre

Gli antidoti sbagliati al crescente astensionismo elettorale

         Inizialmente dichiarata “provocatoria”, come un paradosso o uno scherzo, il direttore della Stampa Andrea Malaguti- non del Corriere di Peretola, senza volere offendere per l’esiguità della sua popolazione l’omonimo sobborgo toscano- ha lanciato e persino cercato di motivare l’idea di sanzionare l’assenteismo elettorale.  Non so se multandolo soltanto o trovare celle -magari creandone apposta di nuove per la nota insufficienza di carceri- dove mandare i disertori delle urne.  Magari, propongo anche io scherzando, i recidivi dopo due o tre turni saltati, dimostrando così di averlo fatto apposta, non a caso.

         Se vorrà, Malaguti, lontano dalle regioni Puglia, Campania e Veneto dove si voterà una partita pur decisiva a livello nazionale per il Pd di una Schlein un po’ in difficoltà al Nazareno, potrà tornare domenica prossima sull’argomento per precisare meglio la sanzionabilità, ripeto, dell’astensionismo.  Che gli ha guastato i sogni, specie mescolato con la denatalità e l’estensione -ha spiegato- dell’intelligenza artificiale.

         Neppure il compianto Norberto Bobbio, affezionato alla Stampa, riuscirebbe forse a consolare, rasserenare, consigliare il direttore dello storico giornale torinese.   Al quale tuttavia consiglierei di non riproporre ai lettori come misura non repressiva ma preventiva dell’astensionismo una disinvoltura ancora maggiore dei partiti, da soli o in coalizione, nella predisposizione dei programmi con i quali presentarsi agli elettori per andare o rimanere al governo, secondo i casi. In particolare, egli ha attribuito al compianto Alcide De Gasperi, segnalandone la memoria proprio alla Schlein, “la lezione di prendere voti a destra per fare politiche un po’ di sinistra”. Che è un po’ come tirare troppo la corda della dc partito di centro -diceva De Gasperi- che “guarda a sinistra”.

         La Dc guardo a sinistra, appunto, per attrarre alla sua politica moderata di centro, rigorosamente di centro, la parte anch’essa moderata, riformatrice, non massimalista e rivoluzionaria della sinistra. E vi riuscì consentendo ai suoi successori di realizzare il centrosinistra, senza neppure più il trattino, con i socialisti. O addirittura di strappare ai comunisti di Enrico Berlinguer sostegni temporanei ed emergenziali a governi monocolori democristiani guidati da Giulio Andreotti: un uomo non proprio di sinistra.

         Fare ciò che vorrebbe Malaguti significherebbe produrre ancora più astensionismo, e sanzioni, perché gli elettori sono non molto, ma molto meno sprovveduti di quanto non li immagini il direttore della Stampa. E continuerebbero ad astenersi anche col voto digitale proposto oggi, sempre sulla Stampa, dal costituzionalista Michele Ainis. 

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Quelle partite curiosamente parallele del Conte 3 e del Casalino 2

         La nuova avventura umana e professionale dell’ormai ex portavoce di Giuseppe Conte, Rocco Casalino, non è ancora cominciata, ferma agli annunci e alle promozioni più o meno amichevoli, e già si avvertono segnali non dico critici, ma problematici. O che tali potrebbero diventare.

         Andrea Iervolino, il produttore cinematografico che sarà l’editore del giornale on line, forse anche in edizione cartacea in un secondo momento, ha concesso a Repubblica un’intervista nella quale ha tenuto a precisare, assicurare e quant’altro che “io non fare mai un giornale di partito”. Come qualcuno sospetta invece pensando naturalmente al MoVimento 5 Stelle e al suo presidente già premier due volte e in corsa per una terza edizione, se e quando dovesse realizzarsi l’alternativa al centrodestra per la quale lavora con dichiarata “testardaggine unitaria” la segretaria del Pd Elly Schlein pensando di poterla guidare lei stessa.

         “Io voglio un giornale onesto, che dica le cose come devono essere dette con piena libertà”, ha aggiunto l’editore. Che tuttavia -va osservato con onestà pensando alle tentazioni che potrà avere Casalino da direttore- ha usato parole di una certa, evidente elasticità, diciamo. “Le cose vanno dette” non per come sono realmente, magari separando i fatti delle opinioni secondo una vecchia regola della professione giornalistica e dell’editoria, ma “come devono essere dette con piena libertà”. Che è anche quella -la libertà- di vedere le cose come si vuole, come si preferisce, come conviene. Cosa che fanno appunto i giornali di partito.  

Andrea Iervolino, 37 anni, ha già viste e vissute situazioni personali difficili -nella cui rappresentazione critica da parte di chi non gli vuole bene, o non gliene vuole abbastanza, ha tenuto a lamentarsi anche nell’intervista concessa a Repubblica– e si presume che altre potrà sperimentarne come editore. Gli potrà quindi anche toccare l’esperienza di dovere rispettare la libertà, ripeto, di Rocco Casalino di ritrovarsi, se mai ha smesso, in sintonia con Conte, col quale del resto ha tenuto in questi giorni a confermare condivisione e simpatia conoscendone le ambizioni.

         Staremo naturalmente a vedere, sentire e scrivere.  Starà a vedere e pensare naturalmente anche Conte, penso, seguendo e vivendo il suo Casalino 2, come il Conte 2 di cui Rocco fu portavoce tentando persino, già allora, di promuoverne e gestirne un terzo, senza però riuscirvi perché a Palazzo Chigi arrivò, anzi irruppe, non avvertito come la Schlein al Nazareno, un certo Mario Draghi reduce dall’esperienza di presidente della Banca Centrale Europea. Draghi detto anche semplicemente Supermario, tutta una parola.  

Il Pantheon minore del no referendario alla riforma della giustizia

I falsi e le manipolazioni cui sono ricorsi i sostenitori del no referendario alla riforma della giustizia approvata dalle Camere derivano dal Pantheon minore di cui in realtà essi dispongono nella campagna avviata con largo anticipo rispetto ai tempi di legge.

         Se togliete dal Pantheon referendario figure eccellenti ed eroiche come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ai vari Gratteri, Bruti Liberati, Caselli e dirigenti attivi dell’associazione nazionale dei magistrati rimane solo il ricordo o il fantasma dello scomparso presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Non il massimo per essere stato fra i capi dello Stato succedutisi al Quirinale, e alla presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, fra i meno popolari per la torre d’avorio in cui aveva finito per chiudersi nell’esercizio delle sue funzioni. Una torre che aveva aperto, proprio avviando il suo mandato presidenziale con la gestione della prima crisi di governo capitatagli in sorte, all’allora capo della Procura della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli. Il quale, figlio peraltro di un amico e collega di Scalfaro in magistratura, salì sul Colle per le consultazioni pur non essendo un segretario di partito, capogruppo parlamentare e affini. Era solo il più alto in grado della squadra giudiziaria delle cosiddette mani pulite, impegnata contro il finanziamento tanto illegale quanto generalizzato della politica e sulla corruzione che poteva esserne scaturita: molto meno delle accuse, visto l’esito dei processi che ne sarebbero derivati. Per non parlare di quelli ai quali neppure si arrivò pur dopo il ricorso a clamorosi arresti “cautelari”, eseguiti sotto i riflettori di truppe televisive allertate in tempo. Storie, allora, di ordinaria macelleria mediatica al cui solo ricordo mi chiedo ancora perchè e come non fosse stata impedita da chi poteva e doveva.

         Quando qualcuno tentò di intervenire, come la buonanima dell’allora ministro della Giustizia Filippo Mancuso, alto magistrato ormai in pensione, disponendo un’ispezione ministeriale presso la Procura milanese e uffici limitrofi, Scalfaro fu tra i primi a dissentire, non lasciando solo Borrelli che protestava e annunciava un sostanziale boicottaggio di quella che lui considerava una incursione. Le polemiche che ne derivarono sfociarono al Senato in una mozione di sfiducia personale contro il guardasigilli, scaricato anche dal presidente del Consiglio Lamberto Dini, e alla fine rimosso col beneplacito della Corte Costituzionale cui Mancuso aveva fatto inutilmente ricorso.

         Ebbene, è stato proprio Dini a rivelare in questi giorni, in una intervista a favore del sì alla riforma della giustizia sottoposta a procedura referendaria, di avere condiviso -evidentemente a prescindere dal caso increscioso di Mancuso, che del resto non gli aveva fatto sconti nelle polemiche- la prospettiva di una separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri per coerenza con il processo penale di rito cosiddetto accusatorio introdotto negli anni passati. Egli arrivò a parlarne con Scalfaro, che gli disse di non occuparsene essendo materia troppo delicata per un governo sostanzialmente tecnico com’era quello che gli aveva permesso di fare, dopo la prima caduta di Silvio Berlusconi, per ritardare le elezioni anticipate che il Cavaliere reclamava entro qualche mese. E arrivarono invece dopo più di un anno, quando le opposizioni si sentirono abbastanza preparate all’ombra dell’Ulivo– ricordate?- e dell’investitura di Romano Prodi a candidato a Palazzo Chigi. Che infatti vinse, anche se governò per meno di due anni. E dopo altri dieci sarebbe poi tornato, sempre per beve tempo.

         Il coperchio sulla pentola del no opposto a Dini tentato dalla separazione delle carriere Scalfaro lo mise promettendo pubblicamente ai magistrati, ospite di un loro congresso, che mai, dico mai, avrebbe controfirmato e promulgato una legge sulla separazione delle loro carriere. Sono trascorsi trent’anni. Che sono tanti, anche troppi, ma forse passati non inutilmente se in primavera prevarrà il sì referendario.

Pubblicato su Libero

Tutte le verità di Giuliano Vassalli sui magistrati italiani

         In una campagna referendaria già piena di false notizie, e persino false interviste di morti eccellenti violati anche nelle loro ossa o ceneri, Davide Giacalone ha ripescato e riproposto sul suo giornale la Ragione una intervista autentica del compianto Giuliano Vassalli pubblicata il 19 febbraio 1987 dal Financial Times e raccolta da Torquil Dick-Ericson, l’uno e l’altro inglesi. Come -ricordo bene- quell’alto magistrato che dopo qualche anno fu accolto in visita di cortesia e di studio alla città giudiziaria di Roma dal giudice Romano Priore, che in un ascensore gli presentò, viaggiando insieme, un pubblico ministero. Lo stesso Priore raccontò poi in una intervista al Corriere della Sera che l’ospite britannico, finito quel viaggio fugace in una cabina,  gli chiese perché mai a Roma giudici e pubblici ministeri potessero usare uno stesso ascensore. Priore gli rispose che ciò accadeva normalmente non solo a Roma ma in tutta Italia. E l’ospite si portò le mani fra i capelli: quelli veri, non della parrucca che indossava a Londra negli eventi giudiziari.

         Quel magistrato inglese non era evidentemente un lettore del Financial Times. O aveva saltato il numero del 19 febbraio 1987, in cui Vassalli aveva ammesso e spiegato il limite della riforma  che stava preparando con Gian Domenico Pisapia e aveva attirato la curiosità compiaciuta del giornale britannico per il tipo accusatorio del processo, come quello inglese, che stava nascendo anche in Italia.

         “Il concetto del sistema accusatorio -aveva detto un po’ deludendo forse l’intervistatore- è assolutamente incompatibile con molti altri principi destinati a rimanere in vigore nel nostro diritto, in particolare con il nostro ordinamento giudiziario. Parlare di sistema accusatorio laddove il pubblico ministero è un magistrato uguale al giudice non è molto leale”. Infatti a separarne le carriere ci stiamo arrivando 38 anni dopo, se la riforma appena approvata finalmente dalle Camere sarà confermata nel referendum nel cui Pantheon è stato giustamente collocato il compianto Vassalli dai sostenitori del sì.

         Ancora più impietosa e preveggente, per comprendere le preoccupazioni, se non lo scetticismo di Vassalli è -a leggerla oggi- la sua risposta alla domanda dell’intervistatore sul perché “non si cambia l’ordinamento giudiziario”, oltre al processo. “La magistratura -aveva risposto e spiegato Vassalli- ha un potere enorme, non solo in linea di fatto. Lo ha sul potere legislativo. E’ il più forte gruppo di pressione che abbiamo conosciuto, almeno nelle questioni di giustizia. Fino adesso, in 40 anni non c’è stata una legge in materia di giustizia che non sia stata ispirata e voluta dalla magistratura, la quale è diventata sempre più un corpo veramente corporativo. Il ministro della Giustizia è circondato esclusivamente da magistrati, i quali occupano tutti i posti del Ministero, cioè dell’amministrazione centrale. Tutti”. E li avrebbero conservati anche con l’arrivo dello stesso Vassalli alla guida del dicastero, prima di andare alla Corte Costituzionale per diventarne anche presidente.          

Le 5000 tonnellate d’oro che non sappiamo di avere in casa

Altro che il “nulla” esageratamente contestatole da Romano Prodi, convinto in una intervista appena rilasciata al Corriere della Sera che la premier in carica viva solo della sua “stabilità”, prodotta non dalla propria abilità o dal consenso elettorale e sondaggistico ma dalla perdurante assenza di un’alternativa, perseguita solo a parole dagli avversari accampati fra sigle, ambizioni e tende confezionate dall’infaticabile Goffredo Bettini. Giorgia Meloni ne trova una quasi ogni giorno per mandare in tilt le opposizioni e farle cuocere, esse sì, nel brodo delle polemiche roboanti, persino al loro interno.

         Accusata anche o soprattutto dal segretario generale della Cgil Maurizio Landini, che mi sembra spesso il re e imperatore del “campo largo” di cui si contendono il ruolo di vice o di attendente la segretaria del Pd Elly Schlein e l’ex premier pentastellato Giuseppe Conte, almeno nei giorni dispari, perché in quelli pari egli gioca a destra; accusata, dicevo, di avere confezionato con Giancarlo Giorgetti una manovra finanziaria a favore dei ricchi, la Meloni può ora intestarsi per ritorsione l’idea venuta al ministro dell’Economia di ridurre di quasi la metà la tassa sull’oro: dal 26 e rotti per cento al 12,5. Che potrebbe produrre circa due miliardi di euro.

         Sembra che i risparmiatori italiani custodiscano in casa o nelle cassette di sicurezza delle banche, fra lingotti e gioielli, che prima o dopo avranno bisogno o voglia anche loro di vendere incorrendo nel prelievo fiscale, 5000 tonnellate d’oro. Ripeto in lettere, come in un assegno: cinquemila. Che mi sembrano, salvo errori forse in difetto, più del doppio dell’oro della Banca d’Italia. E cinque volte la quantità dell’oro italiano custodito nel forziere americano di Fort Nox da cui Prodi ha recentemente consigliato il ritiro e il ritorno a casa, non dovendoci e non potendoci più fidare del presidente Donald Trump, come invece fa ancora la Meloni         guadagnandosene carinerie in privato e ancor più in pubblico.

         L’oro privato italiano, diciamo così, su cui Meloni e Giorgetti, o viceversa, hanno messo gli occhi per fare quadrare i conti e smentire gli avversari non è certamente riconducibile ai poveri, anche se fra le pieghe delle statistiche e altre diavolerie come gli accertamenti spuntano spesso fuori  poveri di alta fascia, diciamo così, non abbastanza furbi da farla franca del tutto, per fortuna.

L’oro sta ai ricchi come la notte al buio, e il giorno alla luce. Vedrete che prima o dopo per questa storia specifica dell’oro a tassazione agevolata per fare cassa l’immaginifico Landini, sempre lui, seguito dalla Schlein, sempre lei, troverà qualche altro venerdì da fare trascorrere in sciopero generale, allungando il già nutrito elenco di ponti più o meno natalizi. E alla Meloni che protesterà, o farà solo la spiritosa, saranno rovesciate addosso le solite accuse di indomito fascismo, attentato alla libertà di sciopero e, più in generale, alla democrazia. Se basteranno, e non verrà in mente a qualche avvocato con buone entrature in qualche Procura della Repubblica di spingerla verso il relativo tribunale dei ministri.

Pubblicato sul Dubbio

La Schlein “spesso” al telefono col Prodi “preoccupato”

         Avvolta nelle sue giacche e camicette sempre meno rosse e più viola, come in una Quaresima fuori stagione, vista l’aria che tira al Nazareno, non più delle migliori per lei arrivata senza che nessuno se ne accorgesse, secondo il suo stesso racconto, ma ora avvertita sempre di più per la sua ingombranza, la segretaria del Pd ha telefonato più volte all’ex premier Romano Prodi. Che tuttavia non ha smesso di cogliere tutte le occasioni offertegli dai giornali e altro di esprimere “preoccupazione” per lo stato del Pd e, più in generale del centrosinistra. Una preoccupazione ribadita anche oggi in una intervista al Corriere della Sera.

         Prodi ha contestato, in particolare, alla Schlein una “radicalità”, una “visione troppo stretta della società”, l’assunzione di troppi modelli astratti per l’Italia, come quello del nuovo sindaco di New York Mamdani. E anche un attaccamento ormai troppo forte alla sua carica, che evidentemente le impedisce di avvertire  ciò che le ruota intorno. E anche di capire quale prezzo   stia pagando all’inseguimento di Giuseppe Conte per la candidatura a Palazzo Chigi, se e quando verrà davvero il momento di potervi aspirare concretamente, vista la stabilità che ormai rappresenta il governo di una Giorgia Meloni pur colpevole di “non fare nulla”. Ma sempre preferita evidentemente dagli elettori che non capiscono di cosa potranno essere capaci gli altri, poco importa se guidati dalla segretaria del Pd o da un Conte “bertinottizzato”, come ha detto Prodi ricordandosi del suo primo governo di centrosinistra edizione Ulivo abbattuto nel 1998 da Fausto Bertinotti, il “parolaio rosso” da allora raccontato con impietosa insistenza dal compianto Giampaolo Pansa.

         E’ probabile che la Schlein torni a chiamare, anzi abbia già telefonato a Prodi dopo questa nuova sortita, penso però senza riuscire-ripeto- a trattenerlo da altre analoghe in quel clima di congresso sotterraneo in cui si vive al Nazareno, dove -ha detto testualmente l’ex premier- “molti vogliono semplicemente conservare il loro ruolo”.   

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Il Sandokan ingrigito della Campania appeso ai voti di Mastella

A vederlo nelle foto più recenti in Campania, in barca e fuori, fra ormeggi contestati, e a soli 51 anni, come un Sandokan ingrigito nei capelli e nella barba, si avverte una tentazione alla solidarietà, e persino ad una certa simpatia, verso l’ex presidente della Camera Roberto Fico. Che sta tentando un’avventura elettorale nella sua regione, come candidato alla Presidenza, in un campo molto largo. Che lo obbliga, diciamo così, a frequentazioni politiche un po’ inusuali per un uomo come lui, cresciuto sotto le cinque stelle pensando e dicendo il peggio possibile, per esempio, di un mondo democristiano cui ancora appartiene orgogliosamente il sindaco di Benevento Clemente Mastella, già portavoce di Ciriaco De Mita, già ministro del lavoro di Silvio Berlusconi, già ministro della Giustizia di Romano Prodi. Un curriculum di tutto rispetto ma, ad occhio e croce, incompatibile per uno, ripeto, come Fico.

         La parte più scomoda, oltre che inedita, della nuova avventura di Fico potrebbe arrivare con i risultati delle elezioni regionali ormai vicinissime. Se dovesse perdere per la contendibilità della regione avvertita e rivendicata dal centrodestra proprio per l’estrema eterogeneità del cartello del cosiddetto centrosinistra, sarebbe per Fico uno smacco forse letale politicamente. Stento francamente a immaginarne un recupero in questo caso, anche se in politica, come si sa, mai si deve dire mai.

         Ma pure in caso di vittoria potrebbero intervenire guai per Fico se, per esempio, dovessero risultare decisivi per il risultato i duecentomila voti di cui la famiglia Mastella, fra marito, moglie e figlio candidato, si sente ancora titolare. Come ai tempi dell’Unione di Romano Prodi, che nel 2006 vinse addirittura a livello nazionale con i voti campani di Mastella, che fu perciò nominato ministro della Giustizia, Costretto però alle dimissioni da una vicenda giudiziaria che grida ancora vendetta per le sue avventatezze, a dir poco, e che tuttavia interruppe sia la vita del secondo governo Prodi sia quella delle  Camere, rinnovate in anticipo.

         Sì, il Prodi 2 aveva spine anche a sinistra, come pure il Prodi 1 soffocato quasi nella culla dal rifondarolo comunista Fausto Bertinotti, e come Mastella tiene ancora a ricordare quando parla di quei tempi, ma la crisi di governo del 2008 scoppiò per le sue dimissioni da guardasigilli. Che, peraltro, lo stesso Martella ha appena rivelato di avere presentato anche per le sollecitazioni ricevute in quella direzione dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sofferente all’idea di un ministro della Giustizia, addirittura, con problemi giudiziari.

         Per tornare a Roberto Fico e alla sua avventura di candidato a governatore della Campania, temo che contribuiscano a guastargli l’umore anche le notizie che gli giungono dall’ex “sua” Camera dei Deputati. Dove i parlamentari delle ancor sue 5 Stelle hanno perduto anche la partita del gelato, alla cui vendita alla buvette, in confezioni di tre o quattro palline di vari gusti in coppette di ceramica, essi si sono opposti come a odiosi privilegi. Anche il gelato, il popolarissimo gelato pur fuori stagione, dopo la sicurezza, il contrasto all’immigrazione clandestina, il garantismo, la tenuta dei conti e altro ancora è stato lasciato alla destra odiata della temuta Giorgia Meloni. Un mezzo disastro, se non intero, per la sinistra.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 16 novembre

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