I brividi politici a Roma per l’esposizione italiana sul fronte baltico della Nato

         I riflettori accesisi mediaticamente nel mondo sui due aerei italiani assegnati alle postazioni baltiche della Nato che hanno intercettato due caccia russi in Estonia costringendoli alla fuga hanno spiazzato probabilmente più Roma che Mosca. Più Roma perché già il ruolo avuto nella intercettazione dei droni russi in Polonia da un aereo italiano aveva avuto il curioso effetto non di inorgoglire ma di imbarazzare il governo, credo più delle strutture militari. Che si sono rese immediatamente disponibili ad aumentare la partecipazione alla difesa aerea e ricognitiva del confine orientale della Nato, di cui peraltro l’Italia ha il comando ereditato dai tedeschi, ma hanno avuto difficoltà di carattere e provenienza politica nella esecuzione delle decisioni.

         La stessa visita del ministro della Difesa Guido Crosetto già programmata per i prossimi giorni nelle postazioni Nato del Baltico ha finito per assumere, dopo l’accidente in Estonia, un rilievo forse scomodo per l’interessato. Che al pari del suo collega degli Esteri, Antonio Tajani, usa difendersi dagli attacchi politici delle opposizioni al governo sulla questione ucraina dicendo che l’Italia non è in guerra con la Russia, per quanto sostenitrice del paese aggredito. E neppure in guerriglia, avendo avuto l’accortezza di non mettere sul campo un solo stivale, se non quelli dei pochi volontari che vi sono accorsi spesso morendovi nell’imbarazzo della Farnesina di registrarne o diffonderne i nomi.

         La cronaca, e non solo la storia nei tempi più lunghi che le appartengono e spettano, si prende qualche volta la rivincita sulle mistificazioni da prudenza, diplomazia e altro. O, se preferite, i fatti sono più stringenti delle parole.

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La profezia di Andreotti a Craxi sugli effetti italiani della caduta del muro a Berlino

Si sapeva della diffidenza prima e della contrarietà poi di Giulio Andreotti alla riunificazione tedesca dopo il crollo del muro di Berlino, e del comunismo. Quando diceva, parlandone anche in pubblico, di amare tanto la Germania da preferire che ne rimanessero due. 

         Non si sapeva ancora che all’ormai amico Bettino Craxi, dopo tante polemiche avute in passato, già superate dai quattro anni di esperienza di suo ministro degli Esteri, fra il 1983 e il 1987, egli lo avesse scoraggiato dal sostegno alla riunificazione tedesca dicendogli che ne sarebbero “morti”. Travolti, come in effetti poi avvenne, dai cambiamenti che sarebbero derivati anche nella politica interna, una volta caduto col muro di Berlino non solo il comunismo ma anche l’anticomunismo. Che è sopravvissuto solo come espediente tattico, non come programma politico.

         Ciò che non si sapeva di Andreotti lo ha rivelato, alla fine di una intervista autobriografica al Corriere della Sera, Umberto Cicconi: il fotografo arruolato da Bettino Craxi dopo averne apprezzato alcune immagini di Pietro Nenni, poi diventatogli amico e infine parente in quanto cognato del figlio Bobo.  Che è il marito di Scintilla Cicconi, Scilla per gli amici, anche per me che non la vedo e non la sento più da tanto tempo.

         Cicconi ha parlato genericamente di “sollecitazioni” politiche per la creazione del clima necessario alla caduta del muro di Berlino giunte a Craxi, e da lui raccolte nonostante la profezia dell’allora presidente del Consiglio, succedutogli a Palazzo Chigi dopo una rapida passerella di Amintore Fanfani, Giovanni Goria e Ciriaco De Mita.  

         Lì per lì si potrebbe pensare che le sollecitazioni raccolte da Craxi, o nelle quali egli “inciampò”, secondo l’intervista di Cicconi, fossero state quelle dei socialisti tedeschi, che lui chiamava cugini. E coi quali si era raccordato già una volta per il riarmo missilistico della Nato voluto dal presidente americano Ronald Reagan sia per proteggere l’Europa dallo svantaggio accumulato rispetto ai missili dei paesi del Patto di Varsavia, sia per spingere l’Unione Sovietica in una rincorsa fatale alla sua economia. Che schiantò in effetti precedendo e contribuendo a determinare la caduta del muro di Berlino, senza che si sparasse, per il suo abbattimento, un solo colpo di pistola. Solo colpi di piccone.

         Ma oltre, e forse ancor più che ai “cugini” tedeschi, Craxi rispose con la sua posizione politica prevalsa sulle resistenze di Andreotti, di cui d’altronde era ministro degli Esteri il socialista Gianni De Michelis, alle sollecitazioni dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che dalla sua postazione al Quirinale, dai contatti personali che aveva a livello internazionale, dall’esperienza fattasi prima come ministro dell’Interno e poi come presidente del Consiglio, aveva maturato la convinzione che la caduta del comunismo, e del relativo o conseguente anticomunismo, potesse produrre nuove energie  ed evoluzioni politiche. Avrebbe potuto per esempio- come mi disse incontrandoci a Milano nel 1992-  chiudere la fase della sinistra italiana “egemonizzata”, come si diceva allora, dai comunisti ed aprire quella di una sinistra unificata e ristrutturata a guida di Craxi. Con il quale l’allora Capo dello Stato aveva un rapporto particolare di stima e amicizia. Un rapporto resistito a tutte le difficoltà drammatiche dell’ormai caduto leader socialista.

Di Craxi fu proprio Cossiga l’ultimo ospite politico ricevuto nella villa tunisina di Hammamet. Dove Bettino lo richiamò, ad incontro terminato,  mentre Cossiga camminava verso l’uscita dalla stanza, per chiedergli di scambiarsi l’ultimo abbraccio. Mi vengono francamente i brividi solo a ricordarlo.

Pubblicato sul Dubbio

La riforma della giustizia verso l’ultima tappa del viaggio parlamentare

         La bagarre alla Camera, chiamiamola pure rissa, dopo la terza e penultima tappa del percorso parlamentare della riforma della giustizia, nota soprattutto per la separazione delle carriere dei pubblici ministeri e dei giudici che ne deriverà, ha confermato la tensione nel palazzo, diciamo così. Una tensione paradossalmente prodotta prima ancora che dal contenuto della riforma, dalla sua paternità , essendo stato il governo a promuoverla.  Governo dai cui banchi si è partecipato all’applauso dei deputati della maggioranza per i 243 voti a favore del provvedimento e i soli 109 contrari. E’ stata contestata insomma, e dichiaratamente, anche la soddisfazione governativa, aggravata secondo le cronache fiancheggiatrici delle opposizioni, peraltro non unite, dal brindisi che il ministro della Giustizia Carlo Nordio avrebbe poi fatto alla buvette bevendo il solito spritz. E incorrendo nel solito sarcasmo di chi già ne scrive -naturalmente sull’altrettanto solito Fatto Quotidiano- come “mezzolitro” o “fiasco”.

         In attesa della rissa che si ripeterà prevedibilmente al Senato per il quarto e ultimo passaggio parlamentare, mi chiedo se le opposizioni, non so se più fiancheggiate o incitate dai magistrati in agitazione già da tempo contro la riforma, riusciranno a trasferire davvero le tensioni dal palazzo, torniamo a chiamarlo così, al paese, alle piazze e alle urne, quando si svolgerà il referendum cosiddetto confermativo, inevitabile per le dimensioni non del tutto speciali della maggioranza realizzatasi in Parlamento.

         Giuseppe De Rita, un sociologo di vecchia, direi pure antica esperienza, con i suoi 93 anni compiuti da meno di due mesi, in una intervista al Dubbio ha dubitato, appunto, dello scenario acceso come vorrebbero le opposizioni. Ed ha prospettato, piuttosto, un referendum di scarso interesse e partecipazione popolare. Un referendum, secondo lui, da addetti ai lavori, specialisti dell’ordinamento giudiziario e contorni. Mettiamoci dentro pure questi.

         Vedremo. Intanto, per tornare e rimanere nel Palazzo, al maiuscolo e al singolare di memoria pasoliniana, va doverosamente registrata una circostanza che ritengo particolarmente significativa: una novità sicura rispetto ad una trentina d’anni fa, quando la magistratura godeva della massima popolarità per i colpi che dava alla politica. Allora c’era al Quirinale un ex magistrato, con la toga dichiaratamente  nel cuore, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, che garantiva pubblicamente i magistrati in servizio che  mai avrebbe firmato una legge sulla separazione delle carriere. Oggi al Quirinale un altro presidente della Repubblica, proveniente dallo stesso partito di Scalfaro, ha seguito silente il percorso parlamentare della riforma costituzionale. Di un silenzio per niente minaccioso, poco importa se più per convinzione o per rassegnazione.   

Papa Leone smentisce Francesco sulla guerra in Ucraina

         A cinque mesi dalla morte, e a qualche giorno dalla rimozione delle strutture di emergenza allestite per le visite affollate alla sua tomba, nella basilica romana di Santa Maria maggiore scelta da lui stesso per esservi sepolto, Papa Francesco è stato clamorosamente smentito dal suo successore Leone XIV nella valutazione della guerra ancora in corso, anzi aggravatasi per la ferocia della Russia, in Ucraina. “Martoriata” per entrambi i Pontefici nelle preghiere e nei discorsi, ma per Francesco trascinata, spinta e quant’altro nei guai dalla Nato. Che, sempre secondo Francesco, aveva “abbaiato” troppo alla Russia assecondando Zelensky. “La Nato non ha iniziato alcuna guerra”, ha ora puntualizzato il successore, risparmiando al predecessore solo un riferimento diretto, esplicito all’abbaio o latrato..

         L’intervento di Leone XIV è importante anche per il momento in cui è arrivato. Riportando sulla guerra in Ucraina l’attenzione ridotta dagli sviluppi della guerra a Gaza, dove i morti, i feriti, le distruzioni fanno più notizia, attirano di più l’interesse e le proteste, anzi le mobilitazioni politiche e mediatiche.

         Putin ma un po’ anche Trump, il connazionale di Papa Leone, Prevost all’anagrafe americana, non avranno forse gradito l’intervento correttivo arrivato dal Vaticano in tempi più rapidi, o meno lenti, di quelli che impiega abitualmente la Chiesa in queste operazioni, diciamo così, di discontinuità. Ma è mancato sia all’uno che all’altro il coraggio di lamentarsene, almeno pubblicamente. Anche questa potrebbe essere una notizia.

Ci tocca persino il rimpianto della dietrologia dopo l’assassinio di Kirk

  A leggere sul Foglio di qualche giorno fa Marco Bardazzi sarebbero almeno una decina i possibili eredi di Charlie Kirk nel cuore del presidente americano Donald Trump. Una decina di giovani anche un po’ anzianotti – come Amintore Fanfani nella sua Dc definiva molti dirigenti del movimento giovanile del partito prima di commissariarlo- che avrebbero la voglia e i requisiti per piacere al capo e ambire alla Casa Bianca  se non già la prossima volta, quando toccherà probabilmente al vice presidente Vance, in quella ancora successiva.

         Fra la decina di possibili successori di Kirk spicca l’afroamericana Candace Oweus, di 36 anni, meno giovane dell’attivista di 31 ucciso da Tyler Robinson con un proiettile sparatogli al collo con millimetrica precisione dal solito tetto ai soliti duecento metri di distanza. Ma per accorgimento e autodifesa spicca di più decisamente l’ancora meno giovane Ben Shapiro, che dopo l’attentato riuscito contro Kirk ha portato a 24 uomini la sua scorta personale. Personale nel senso di scorta da lui stesso pagata, come sembra che ne avesse anche lo sfortunatissimo Kirk, non so di quali dimensioni.

         Ecco, su questa storia della scorta, della protezione dei piccoli Trump, diciamo così, che crescono con attività pubbliche di sostegno al presidente in carica, imitandone anche il tipo di esposizione e lo stile, ho trovato quanto meno sorprendente la mancanza, da parte dello stesso Trump, di una domanda, di un dubbio, di una decisione delle sue, adottata con gli inconfondibili ordini a firma turrita. E in un paese, peraltro, come gli Stati Uniti d’America, dove la dietrologia è ancora più casa che in Italia, quando si creano o si scoprono falle negli apparati di sicurezza doverosamente federali, non certo privati.  Una dietrologia, per fare qualche esempio, come quella che ancora avvolge l’attentato al presidente americano Jhon Kennedy nel 1963 a Dallas, o come quella che ancora avvolge a Roma il sequestro prima e l’uccisione poi di Aldo Moro nel 1978, dopo 55 giorni in una prigione scoperta ma non assaltata per il timore, espresso anche dalla famiglia, che l’ostaggio rimanesse ucciso nell’operazione. Eliminato, magari, dagli stessi carcerieri.

         Non voglio fare, per carità, della dietrologia l’elogio quasi letterario della buonanima di Giulio Andreotti, che si consolava di peccare a pensar male perché convinto di indovinare. Non la voglio invocare, reclamare nella modestia, peraltro, di un vecchio giornalista distante settemila chilometri e più dagli Stati Uniti. Ma consentitemi qualche perplessità sulla fretta, a dir poco, con la quale è stata trattata, o non trattata per niente, la sicurezza mancata, negata o chissà cos’altro a Charlie Kirk. Che morendo in quel modo ha mandato inconsapevolmente un segno o messaggio a Trump, come per avvertirlo che potrebbe capitare anche a lui, per quanto protetto -si presume- meglio di lui.

Pubblicato sul Dubbio

Miracolo alla corte di Trump prodotto dalla morte di Robert Redford

         Solo una digressione, una deviazione delle orribili cronache di guerra, di politica e di giustizia, cioè di ingiustizia, potrebbe consentirci la sorpresa di un intervento una volta tanto del tutto condivisibile del presidente americano Donald Trump. E’ il riconoscimento ch’egli ha fatto, sia pure in morte, della grandezza dell’attore americano Robert Redford. Che non ne attese la rielezione per attaccarlo, essendogli bastata metà del suo primo mandato alla Casa Bianca, nel 2019, per giudicarlo col pollice impietosamente rovesciato.

         Nonostante questo, e facendo uno sforzo sovrumano, credo per l’immagine che si è data spontaneamente da molto tempo ormai, Trump ha riconosciuto all’attore appena scomparso a 89 anni di essere stato un’eccellenza. Un “hot” che anche per l’avvenenza sessuale che contiene segna una svolta di Trump. Che ora deve rimpiangere due uomini nello stesso tempo: il giovane “leggendario” Charlie Kirk, ammazzato praticamente per il suo trumpismo, e il vecchio, ancor più leggendario Robert Redford.

         Solo il cinema, per quanto anch’esso mal ridotto, secondo le ammissioni dei cosiddetti esperti, poteva regalarci con diabolica casualità uno spettacolo del genere. E gratis, senza pagare il  biglietto.

Franceschini spiana la strada a Conte per il ritorno a Palazzo Chigi

Dopo o anche a causa di un confronto avuto con Giuseppe Conte alla festa nazionale dell’Unita, Dario Franceschini è tornato nella sua officina romana ex meccanica, ora tutta politica, con l’opinione rafforzata, e ribadita in una intervista a Repubblica, che è ormai finita l’epoca dei leader necessariamente o preferibilmente moderati per vincere le elezioni. E tentare, quanto meno, di governare il Paese, ormai di qualsiasi dimensione: negli Stati Uniti con Donald Trump come in Argentina con Javier Milei, e in Italia con Giorgia Meloni.

         La Meloni non moderata, a dispetto di tutti gli applausi che si prende dai  moderati quando ne accetta gli inviti a feste e congressi e parla col suo solito linguaggio, non fingendosi per opportunismo quella che non è; la Meloni non moderata, dicevo, piuttosto e inguaribilmente estremista, serve dialetticamente a Franceschini per sostenere che una coalizione alternativa al centrodestra debba essere capeggiata da un leader pure lui non moderato.  

         Franceschini, 67 anni da compiere il mese prossimo, che gli amici e colleghi post-democristiani nel Pd definiscono parlando fra di loro “il più furbo di noi”, non so se più apprezzandolo o temendolo, con questo tipo di ragionamento sulla fine delle leadership moderate mi sembra ormai disponibile, e forse anche qualcosa in più di disponibile, ad un’alternativa al centrodestra guidata da Conte piuttosto che dalla Schlein. Se basterà Conte, con le sue ambizioni per niente personali, come ha tenuto a precisare ammettendole publicamente. E non sarà invece necessario spingersi ancora più avanti, visto che la sinistra radicale, per esempio, di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni ha smesso, per ora solo a livello locale, di considerarsi inferiore al movimento pentastellare di Conte. E lo sorpassa qualche volta anche elettoralmente.

         Il moderatismo, chiamiamolo così, messo ormai in cantina, se non nei rifiuti, da un Franceschini che vi si ispirerà magari per scrivere, quando gliene verrà la voglia, uno dei suoi romanzi sempre gratificati di recensioni, ma in verità anche di  rendite; il moderatismo, dicevo, ormai scartato da Franceschini, al massimo degno di essere appeso come foto d’epoca in qualche museo, o in una tenda di riserve nel cosiddetto campo largo della sinistra alternativa, sarebbe stato disarcionato dall’astensionismo. In un elettorato sempre meno predisposto alle urne, dove la segretaria del Pd Elly Schlein, sempre secondo Franceschini, avrebbe non so se più il vantaggio o lo svantaggio di pescare “voti di cui i palazzi non hanno il polso”, bisogna gridare moltissimo, e farle davvero grosse, per essere avvertiti. Giocando non solo di rimessa, in concorrenza interna ed esterna, ma di attacco. Si spera fermandosi alle parole e non passando ai fatti.

         Franceschini, sempre lui, “il più fortunato di noi” -ripeto- avvertito dai post-democristiani ancora presenti o tollerati del Partito Democratico, è convinto che un’auto rigenerata così nella sua officina non abbia soltanto la “possibilità”, insufficientemente attribuitale già da qualcuno al Nazareno e dintorni, ma anche la “probabilità” di vincere le elezioni, ora regionali e poi nazionali. E la sicurezza, oltre che la possibilità e la probabilità? Eh, a questo neppure lui si è spinto e si spinge ancora, furbo appunto com’è.

         Nel complesso, se questi sono i ragionamenti e i preparativi nel Pd pensando al rinnovo delle Camere, fra due anni, ritengo che nel centrodestra possano sentirsi abbastanza al sicuro. E persino sperare non solo nella conferma della Meloni a Palazzo Chigi ma anche in una sua successione poi a Sergio Mattarella. “Secondo me ci pensa”, ha detto lo stesso Franceschini, aggiungendo quasi come scaramanzia per rasserenarsi da solo: “Se un leader di partito arriva in quel ruolo”, al Quirinale, ”cambia di fatto la natura del sistema”. “Che è poi il motivo – ha aggiunto, furbissimo- per il quale nessun grande del passato è riuscito nell’impresa”. Né Fanfani, in effetti, né Moro, né Andreotti. Ma è pur vero che c’è sempre una prima volta.

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Quel processo al processo all’odio contestato alla destra italiana

         Alle otto e mezzo di ieri sera non so se più Lilli Gruber, la padrona di casa televisiva, spalleggiata da Marco Travaglio, o Travaglio spalleggiato dalla Gruber, ed entrambi spalleggiati da Lina Palmerini, Giovanni Floris e Beppe Severgnini, tutti insomma d’accordo in assenza fisica di una controparte, hanno fatto il processo al processo che la destra italiana avrebbe fatto all’odio dopo l’assassinio del giovane attivista trumpiano Charlie Kirk, negli Stati Uniti. Ucciso con un colpo miratissimo di fucile mentre dibatteva in un campus universitario sfidando gli interlocutori dissidenti a dargli torto. Lui pensava alle parole, ai ragionamenti, ma da duecento metri di distanza, su un tetto raggiunto in tutta tranquillità, in assenza quindi di una protezione fisica alla quale penso che avrebbe avuto diritto per la notorietà, o la notoria vicinanza a Trump nel sostegno mediatico, uno più giovane di lui, tale Tyler Robinson, gli ha dato torto uccidendolo. E con una pallottola tanto di sinistra, diciamo così, da essere stata incisa dall’assassino con le parole di una celebre canzone italiana non proprio di destra: bella ciao. Più addio, in verità, che ciao come nella canzone. Ma vaglielo a contestare adesso a quell’invasato d’odio, come spero che si possa dire senza essere processati.

         Lo spettacolo del processo al processo, o controprocesso, condotto dalla Gruber e ospiti convinti che di odio ci sia, almeno adesso, solo quello della destra contro la sinistra, merita come risposta quella che ho trovato sulla prima pagina del Corriere della Sera nel titolo, fra virgolette, di un articolo dell’ex presidente della Camera, e anche ex magistrato, Luciano Violante, non proprio di destra. Il quale ha scritto, in particolare, contro “quegli odiatori e falsi maestri a destra e a sinistra”.

Urbano Cairo, editore tanto de la 7 quanto del Corriere della Sera, spero si sia riconosciuto più in Violante che nella Gruber e i  suoi ospiti. Spero, ripeto.   

Il voto cattolico a destra non è più in libera uscita, come ai tempi della Dc

Impropriamente -come può accadere in un comizio, anche ad una professionista della politica com’è una pur giovane leader che non ha fatto praticamente altro nella sua vita- la premier Giorgia Meloni in un tripudio di scudi crociati ha invitato avversari, critici e amici a “stare tranquilli” di fronte alla “caccia” ai cattolici che le viene attribuita nella prospettiva di un “clerico melonismo”. Che è, in particolare, la formula addebitatale da Marco Damilano sul Domani dell’editore Carlo De Benedetti. 

         La caccia, come la pesca, dà il senso certamente di una competizione, ma non necessariamente a lieto fine sia per la preda sia per i concorrenti, che possono rimanere vittime di qualche incidente. Meno impropriamente la premier avrebbe dovuto parlare di corteggiamento, ma da donna -lo ammetto- potrebbe essere stata trattenuta dalla paura di apparire sfacciata. Tuttavia sono davvero i voti cattolici in senso lato, comprensivi dei  democristiani della storia politica italiana, che la premier ha raccolto con le sue posizioni e declamazioni politiche, e di credente, portando il suo partito di destra dal 3 al 30 per cento? Cioè moltiplicandolo per 10, a spese degli alleati d centrodestra ma anche del Pd, dove la sofferenza della componente di provenienza democristiana è di una sconcertante evidenza.

         Non è la Meloni che si è democristianizzata, o andreottianizzata più in particolare, come le viene rimproverato dimenticando che a 15 anni, quando le venne la vocazione politica sotto l’effetto dell’attentato mortale a Paolo Borsellino e alla scorta, la Dc era già verso lo scioglimento, avvenuto diciotto mesi dopo, all’incirca. E’ il voto cattolico, ripeto, comprensivo dell’elettorato sopraggiunto per ragioni naturali a quello della Dc, che si è accasato stabilmente a destra, più che a sinistra come nelle aspirazioni della omonima area democristiana. Si è accasato stabilmente, questo voto, senza più andarsene a destra “in libera uscita”, come diceva fiduciosamente Giulio Andreotti nella cosiddetta prima Repubblica, quando commentava i guadagni elettorali del Movimento Sociale di Giorgio Almirante. E pensava al ritorno, per lui scontato, di quegli elettori alla Dc.

         Quello che la Meloni prima ancora di capire e di inseguire in tenuta da caccia o pesca ha semplicemente avvertito, e giustamente cerca di consolidare, è che non c’è più per dimensioni elettorali e programmi politici una Dc dove certi voti potrebbero tornare. C’è qualche scheggia o cespuglio, quantitativamente parlando, come l’Udc di Lorenzo Cesa e Antonio De Poli, già di Pier Ferdinando Casini, alla cui festa la Meloni è accorsa in un albergo romano sull’Aurelia, accolta come una sorella, parafrasando i suoi fratelli d’Italia.

         Ci sono devoti anche altrove, per carità. Come Dario Franceschini, non so di preciso di quale Santo, e Giuseppe Conte, devoto anche per ragioni familiari di Padre e Santo Pio. Essi si sono consultati e confortati alla festa dell’Unità nella prospettiva di un’alternativa al centrodestra a guida però necessariamente indefinita. Necessariamente, perché solo a cercare di definirla se ne compromette la sorte.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 21 settembre

Cronache surreali dal campo largo dei giochi dell’alternativa

         Il campo largo, larghissimo, smisurato, asciutto o bagnato secondo le condizioni del tempo, non è necessariamente politico. Può diventare, se non lo è già diventato nelle feste annuali di partito, un campo da gioco in senso lato. Non quello del pallone. Ma un parco giochi, al plurale,  comprensivo di una giostra dove si sale o da dove si scende scambiando passeggeri e ruoli allegramente, anche quando in realtà  volano insulti e minacce.

         Allegramente, dicevo, come la segretaria del Pd Elly Scklein che dalla festa  dell’Unità ha ieri cantato, sempre più “testardamente unitaria”, come dice ovunque si trovi a parlare,  la vittoria immancabile dell’alternativa al governo di centrodestra di Giorgia Meloni. Che è stata esortata, tra un attacco e all’altro per come parla, per cosa dice, per come si veste e persino per come fa la madre, a rassegnarsi al destino che l’attende fra due anni, a elezioni puntuali o leggermente anticipate. Si vedrà. Ma la Meloni scaramanticamente si veste di rosso e continua a sperare, scommettere e quant’altro sul raddoppio del suo mandato di governo. Che potrebbe portarla poi al Quirinale, dove l’ex premier Lamberto Dini è tornato a immaginarla “bene”, parlandone al Tempo.

         Tuttavia, mentre la Schlein festeggiava, con anticipo largo come il campo che ritiene di presidiare, le vittorie regionali di quest’anno e quella nazionale del 2027, Giuseppe Conte dal palco di un’altra festa, quella del FattoQuotidiano, illuminata di giorno dal sole, quando c’è, e di sera dalle stelle che furono di Beppe Grillo, ha avvertito che col Pd “non” si sente “alleato”. Guadagnandosi naturalmente gli applausi di un pubblico di ormai consolidato scetticismo, a dir poco, verso il Nazareno, anche se agli appuntamenti congressuali del Pd esso ha il privilegio di poter concorrere all’elezione del segretario, e persino determinarla. Il compianto Emanuele Macaluso in qualche modo ne morì di stupore, a dir poco, non convinto alla rassegnazione neppure dal suo amico Giorgio Napolitano ormai ex presidente della Repubblica, ma anche quando era ancora in carica.

         Da questo pubblico di potenziali elettori del segretario o segretaria del Pd, coerentemente con la bizzarria di un parco giochi con giostre e altro, la Schlein era  corsa il giorno prima di raggiungere la festa dell’Unità. Ricevendone un’accoglienza così poco amichevole, di così poca empatia, da indurre il direttore del Fatto, e padrone di casa, a saltare ad un certo punto sul palco per richiamare al dovere di ospitalità, non di contestazione e di linciaggio. La Schlein ha ringraziato, come sventurata monaca di Monza che rispose al suo corteggiatore.

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