La crisi…napoleonica della Francia di Emmanuel Macron

Rimane sempre meno in Francia dello spirito napoleonico. Dopo le picconate del presidente Emmanuel Macron, ridottosi a produrre governi inconsistenti per la loro fragilità e durata come neppure i partiti italiani erano riusciti a fare nella cosiddetta prima Repubblica, sono arrivati i ladri. Che in quattro, e in soli sette minuti, ma forse anche meno, sono saliti con un montacarichi allo storico museo Louvre che li custodiva e hanno rubato nove pezzi della collezione dei gioielli di Napoleone e familiari, di valore inestimabile, come hanno concordato tutti gli esperti.

Della refurtiva sono stati recuperati due pezzi non per la bravura dei poliziotti francesi ma per la dabbenaggine napoleonica, direi, dei ladri. Che li hanno perduti nella fuga, danneggiando il più prezioso. Che è la corona dell’imperatrice Eugenia

Il Pd della Schlein cerca di sfilarsi la toga ma non ci riesce….

A una decina di giorni ormai dall’ultimo passaggio parlamentare della riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, e altro ancora, cui seguirà l’anno prossimo il referendum cosiddetto confermativo, senza la rete di sicurezza del quorum dei partecipanti al voto, il Pd è, come al solito, quello messo peggio fra tutti.  E’ il più diviso e incerto dietro le quinte della opposizione praticata in Parlamento contro quella che per comodità chiamo la riforma di Nordio, il ministro della Giustizia che se l’è intestata sfidando i suoi ex colleghi magistrati contrari e bevendoci sopra anche qualche spritz. E ciò giusto per divertirsi ai tentativi di certi avversari più mediatici che politici di presentarlo come un mezzo ubriacone. A lui basta e avanza assomigliare in questo ad uno statista eccezionale di cui è anche biografo: la buonanima di Winston Churchill.

         Il Pd, come è emerso dai contatti svoltisi ad alto livello con l’associazione nazionale dei magistrati, si mostra sicuro della sconfitta referendaria di Nordio. Ma non lo è per niente, ossessionato peraltro dalla prospettiva che una vittoria referendaria del governo preluda ad una successiva vittoria nelle elezioni politiche e -ancora più spaventosamente per lor signori del Nazareno- a un’ancora successiva successione di Giorgia Meloni a Sergio Mattarella al Quirinale.

         Consapevoli di questa posta in gioco e della caduta di popolarità dei magistrati con le loro cause sempre più spesso avvertite come di casta dall’opinione pubblica, al Nazareno sempre più numerosi e pressanti sono quelli che consigliano, a dir poco, alla segretaria Elly Schlein non dico di sostenere la riforma osteggiata in Parlamento, ma di non continuare a contrastarla con gli argomenti togati. Particolarmente sorpresa, su questo versante, la Schlein sarebbe stata del governatore mancato della Liguria ed esperto di problemi giudiziari per essere stato ministro della Giustizia: Andrea Orlando. Il quale ha indicato, anche in dichiarazioni virgolettate che non ha smentito, come percorso consigliabile della campagna referendaria del Pd la difesa pura e semplice della Costituzione “più bella del mondo”, di antica definizione bersaniana.

         Il Pd insomma è tentato da quello che chiamerei un conservatorismo costituzionale, già adottato più di 40 anni fa contro il riformismo, sempre costituzionale, proposto dal Psi di Bettino Craxi. Un conservatorismo che finì per aumentare l’attrazione elettorale del leader socialista e per ridurre quella dell’allora Pci. Che pure nelle elezioni europee del 1984, sull’onda emotiva della morte del segretario Enrico Berlinguer, era riuscito a sorpassare la Dc.

         Un conservatorismo costituzionale di ritorno nel partito in cui sono confluiti i resti prevalentemente del Pci e della sinistra democristiana non avrebbe tuttavia il solo inconveniente di un passo indietro.  Ma pure quello, sottovalutato anche dall’associazione nazionale dei magistrati, di una clamorosa contraddizione, visto il riformismo costituzionale adottato dalla sinistra già nella cosiddetta prima Repubblica, finita la fase del conservatorismo.

La Costituzione è già stata cambiata, col consenso o sotto la spinta della sinistra, per limitare, sin quasi ad abolirla, l’immunità parlamentare avvertita dai magistrati come un odioso impedimento alla loro attività. Poi è stato modificato con immediato pentimento  il titolo quinto della Costituzione sulle autonomie locali, nella illusione di impedire la ricostituzione del centrodestra interrotto da Umberto Bossi a cavallo fra il 1994 e il 1995. Infine è arrivata la riduzione del numero dei parlamentari voluta dai grillini, e subìta dal Pd pur a bicameralismo invariato. Al cui superamento invece il partito del Nazareno aveva condizionato l’assenso alle forbici sbandierate in piazza dal movimento delle 5 stelle.

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Giuseppe Conte è rimasto senza Appendino, di nome e di fatto

         Neppure le dimissioni da vice presidente del MoVimento 5 Stelle prima adombrate o minacciate, poi formalizzate da Chara Appendino  reagendo all’indifferenza ostentata dal presidente Giuseppe Conte, che aveva  attribuito il malumore dell’ex sindaca di Torino alle fantasia e alle manovre dei soliti giornalisti scambiati del resto per pennidendoli  già dalla buonanima di  Ugo La Malfa nella lontana prima Repubblica; neppure le dimissioni, dicevo, di Chiara Appendino nel tentativo di dare una “scossa” autocritica al partito ha smosso dal suo torpore Beppe Grillo.

  Nel suo blog il comico genovese  continua a proporsi fotograficamente più o meno imbandierato come nel lontano 2021, col proposito di “andare lontano”, e di spingervi evidentemente gli amici, sul terreno ecologico. E’ solo l’ambiente ormai, non più la politica, come ai tempi del suo impegno di fondatore e garante del MoVimento 5 Stelle, che andrebbe disinquinato e salvato.

Conte, sembra di capire dagli umori elettronici di Grillo, può pure continuare ad avvolgersi nella tela dei suoi discontinui rapporti col Pd, nel campo a dimensioni variabili dell’alternativa al centrodestra, sino a rimanerne soffocato.  Comunque ridotto dalle 5 Stelle al 5 per cento dei voti, poco più poco o poco meno.

Il silenzio indifferente e lontano di Grillo dovrebbe tuttavia suonare alquanto sinistro anche all’Appendino. Che finendo di fare a Conte dell’appendino anche di fatto, e non solo di nome, si aspettava forse di dare una scossa anche a Grillo.

Le solidarietà, ma anche le critiche meritate da Sigfrido Ranucci per il suo Report

Mi associo alle solidarietà una volta tanto bipartisan, come si dice, al collega Sigfrido Ranucci per il grave attentato subìto a Pomezia. Dove abita il responsabile della trasmissione televisiva Report, della Rai. Ma mi associo alla maniera di Ennio Chiodi, che gli è stato superiore, e non solo collega. E ha consigliato su Facebook di lasciarlo adesso “lavorare senza beatificazioni, consentendo a tutti di apprezzare o criticare il suo lavoro e quello dei suoi collaboratori”. Lavoro d’inchiesta di cui Chiodi è rispettoso ma non entusiasta avendovi avvertito “negli ultimi anni” tracce, diciamo così, della “deriva di un giornalismo non sempre documentato correttamente e decisamente indirizzato”. “Posso dirlo?” si è chiesto Chiodi rispondendosi: “Devo dirlo”.

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Lo scudo di Paola Taverna a Giuseppe Conte sotto le cinque stelle

         Paola Taverna, 56 anni e mezzo, popolana anche di nome, che non è un modo di offenderla perché associata alla “simpatia” nel dizionario della lingua italiana ignorato da Maurizio Landini nel dare della cortigiana alla premier Giorgia Meloni, senza poi avvertire almeno il buon gusto di scusarsi; Paola Taverna, dicevo, ne ha fatta di strada politicamente da quando arrivò in Parlamento col proposito dichiarato dal partito pentastellato, che ve l’aveva mandata, di aprirlo come una scatoletta di tonno. Che generalmente, come si sa, si svuota mangiandone il contenuto e poi si butta.

         Arrivata alla vice presidenza del Senato, nella cui aula l’ancor giovane grillina si era fatta notare gridando a Silvio Berlusconi che moriva dalla voglia di sputargli o di vomitargli addosso, non ricordo bene perché è passato del tempo, la Taverna non è riuscita a rimanervi per più di due legislature. Ciò a causa di noti problemi statutari del suo partito, non per demerito, avrebbe il diritto di vantarsi. Ma l’ex presidente del Consiglio e ora soltanto presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, peraltro scaduto e perciò in condizioni di proroga, l’ha voluta accanto a lui come vice presidente vicaria, superiore  perciò agli altri, anche all’ex sindaca di Torino e deputata Chiara Appendino, 41 anni compiuti a giugno.

         Sì, è proprio lei, l’Appendino che ha appena contestato a Conte le perdite elettorali procurate al partito col suo rapporto non abbastanza autonomo col Pd, fatto più di accordi locali, per esempio, che di disaccordi. E a livello nazionale più di fiancheggiamento che di distanza dal partito di Elly Schlein nel cosiddetto campo largo. Che non è -è vero- una formula gradita a Conte, che lo vorrebbe solo “giusto”, ma è pur sempre una realtà mediatica e politica: un campo in cui ci sono anche  tende metaforiche, per ora, destinate a tipi come Matteo Renzi: il diavolo che prima allungò e poi interruppe spavaldamente l’esperienza persino cavouriana dello stesso Conte a Palazzo Chigi. Cavouriana naturalmente da Cavour, l’unico capo di governo più bravo di Conte nella storia d’Italia che Marco Travaglio racconta sul suo Fatto Quotidiano.

         La Taverna, per tornare a lei, ha difeso come una guardia di sicurezza il suo presidente sostenendo che l’Appendino non abbia il diritto di contestargli i risultati dei rapporti col Pd dopo avere voluto nel suo Piemonte un isolamento orgoglioso all’opposizione che ha ridotto il Movimento 5 Stelle al 6 per cento. Che sarebbe più o meno in linea con la consistenza del partito appena registrata col voto regionale nelle Marche, in Calabria e nella Toscana. Dove tuttavia -la Toscana cioè- i pentastellati sono scesi al 4 per cento sostenendo la conferma di un governatore del Pd, Eugenio Giani, già socialista, osteggiato nella legislatura precedente. Al quale la Taverna da Roma, con le funzioni ricevute da Conte, ha contribuito ad assegnare un programma nominalmente nuovo, anzi “discontinuo”.  Di quanto si vedrà.

Quando Cossiga difese Craxi dal Consiglio Superiore della Magistratura

Sono passati 40 anni non solo dalla notte di Sigonella, celebrata in questi giorni anche da noi, del Dubbio, per il punto di non ritorno che segnò, a livello nazionale e internazionale, nei rapporti fra gli Stati Uniti e l’Italia. Il cui presidente del Consiglio Bettino Craxi, anche a costo di far dimettere ma poi recuperare il ministro della Difesa Giovanni Spadolini, negò in un drammatico scenario militare nella base siciliana la consegna dei terroristi palestinesi responsabili del dirottamento della nave Achille Lauro. Durante il quale era stato ucciso il crocerista ebreo di nazionalità americana e invalido Leon Klinghoffer.

Quei terroristi -impose Craxi ad un Reagan che li reclamava- potevano e dovevano essere processati, come furono, solo in Italia. Persino un’opposizione agguerrita come quella del Pci, che viveva la presidenza socialista del Consiglio come una doppia tragedia politica, riconobbe a Craxi in Parlamento di essersi comportato al meglio.

         Sono passati 40 anni anche da un’altra notte, non nella lontana Sigonella ma a Roma, in Piazza Indipendenza. Dove Francesco Cossiga, ancora fresco di elezione al Quirinale succedendo a Sandro Pertini, aveva disposto la mobilitazione di un reparto antinsurrezionale dei Carabinieri, al comando di un generale di brigata, per un intervento sul Consiglio Superiore della Magistratura, di cui era presidente per dettato costituzionale, se in una riunione dalla quale lui lo aveva diffidato si fosse occupato dell’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Che aveva avuto da ridire, solidarizzando con alcuni deputati del suo Psi, a cominciare da Ugo Intini, sul trattamento giudiziario da sconto riservato ai responsabili dell’agguato mortale al giornalista Walter Tobagi, del Corriere della Sera. Un agguato col quale essi abevano contato di guadagnarsi l’arruolamento nelle brigate rosse.  

         Fu una notte, accompagnata dal ritiro delle deleghe al vice presidente del Consiglio Superiore Giovanni Galloni, amico e collega di partito, la Dc, in cui Cossiga voleva segnare un punto di non ritorno nei rapporti fra magistratura e politica, impedendo un processo a Craxi alle spalle del Parlamento che gli aveva concesso la fiducia e, unico, poteva negargliela. Craxi naturalmente ringraziò, la magistratura e la sinistra capeggiata dal Pci no. E si presero la rivincita, a modo loro, dopo meno di dieci anni troncandogli la carriera e la stessa vita, sia pure per interposto tumore renale e complicazioni cardiache.

         Quel no al processo a Craxi nel Consiglio Superiore della Magistratura doveva essere un punto di non ritorno anch’esso, ripeto, come quello a Sigonella sui rapporti fra alleati nella Nato. Ma si profila proprio in questi giorni un ritorno col processo che si vorrebbe fare nel Consiglio Superiore non, o non ancora al presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ma al suo ministro della Giustizia Carlo Nordio. Un processo simulato come “pratica a tutela” del tribunale dei ministri, che avrebbe voluto fare un processo giudiziario al Guardasigilli, ed altri colleghi di governo, per l’affare Almasri. Un processo non autorizzato dalla Camera e nella cui impostazione Nordio ha, nel suo stile di estrema franchezza, ravvisato gravi errori, a dir poco.

Pubblicato sul Dubbio

Il processo surrettizio a Nordio con la “tutela” del tribunale dei ministri

E’ in corso al Consiglio Superiore della Magistratura, su iniziativa di almeno quindici esponenti, secondo i calcoli e le cronache del Fatto Quotidiano, la procedura di una “pratica a tutela”, la sesta o settima in questo 2025, di toghe e uffici che sarebbero minacciati da iniziative e critiche fuori misura, diciamo così. Questa volta la tutela sarebbe, in particolare, per il tribunale dei ministri. Che ha inutilmente cercato di processare per l’affare del generale libico Almasri, i titolari dei dicasteri della Giustizia e dell’Interno, Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega dei servizi segreti, Alfredo Mantovano.

         Il processo in tribunale per favoreggiamento e altro del libico rimpatriato, di cui la Corte internazionale penale dell’Aja aveva disposto un arresto per crimini contro l’umanità eseguito in Italia in circostanze e modalità controverse, riconosciute dalla stessa magistratura liberandolo, non si farà. O forse si farà, come stanno cercando in Procura a Roma, solo contro il capo di Gabinetto di Nordio, se dovesse permetterlo, a questo punto, la Corte Costituzionale cui potrebbe ricorrere la Camera.  Ma un processo a Nordio in persona vorrebbe essere fatto nel Consiglio Superiore in modo virtuale ma pur sempre significativo nel suo carattere indiretto e subdolo.

         L’iniziativa è stata presa dalle componenti togate e laiche della sinistra giudiziaria e politica. Non vi hanno contribuite quelle di area di centrodestra, compresa la corrente chiamata “Magistratura indipendente”, cui mi risulta che appartenga ancora il presidente dell’associazione nazionale delle toghe Cesare Parodi.

         Non vorrei essere troppo malizioso, toppo incline andreottianamente a pensare male facendo peccato ma indovinando, o azzeccandoci, direbbe Antonio Di Pietro. Tuttavia questa storia del processo indiretto  al ministro della Giustizia nel Palazzo dei Marescialli, che è la sede del Consiglio Superiore della Magistratura, mi sembra anche un tentativo di tirare la giacca al presidente dell’organo di autogoverno delle toghe, che per Costituzione è lo stesso Capo dello Stato. Del quale ho perso il conto, da giornalista ed estimatore, degli interventi verbali e operativi di fiducia, pur nel contesto di qualche situazione a dir poco critica, nella volontà e capacità, e non solo dovere, della magistratura ad un rapporto “cooperativo” fra gli organi dello Stato.

         Ebbene, a costo di sembrarvi ingenuo se non malizioso, ripeto, mi sembra francamente un tradimento della fiducia del presidente della Repubblica un processo pur virtuale, nascosto fra le pieghe di una “pratica a tutela” del tribunale dei ministri, al Guardasigilli colpevole di avere criticato con la sua solita franchezza errori e quant’altro ravvisati, anche con la sua lunga esperienza giudiziaria, nelle indagini e nella impostazione del procedimento contro di lui vanificato dalla Camera.

         Ora potrebbe toccare con la copertura di una pratica, ripeto, a tutela di un magistrato o di un ufficio giudiziario, al ministro della Giustizia, Domani o dopodomani potrebbe accadere a Giorgia Meloni, viste le possibilità che ha di rimanere  a Palazzo Chigi anche dopo le prossime elezioni politiche, o di salire ancora più in alto, e la sua abituale franchezza nel parlare pure lei dei rapporti fra magistratura e politica.

Vi si arrivò ad un palmo anche quaranta anni fa con l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi e Francesco Cossiga al Quirinale. Che, anche a costo forse di fare sobbalzare al Senato il suo predecessore Sandro Pertini, di rompere i rapporti con l’amico di partito Giovanni Galloni, privandolo delle deleghe come vice presidente del Consiglio Superiore e di tirare giù dal letto un generale di brigata -come avrebbe raccontato a Paolo Guzzanti autorizzandolo a riferirne- per fargli comandare un reparto antisommossa dei Carabinieri, impedì fisicamente quel processo.

Pubblicato su Libero

Maurizio Landini la fa tanto grossa da non riuscire a coprirla

         La buonanima di Amintore Fanfani ordinava nel suo toscano stretto, con tutte le aspirazioni del caso, di coprirla a chi, secondo lui, l’aveva fatta o detta grossa. Erano gli anni Sessanta, naturalmente del secolo scorso. Maurizio Landini, che ne ha 64, era solo un bambino.  E, avendole qualche giorno fa dato della “cortigiana” nei rapporti col presidente americano Donald Trump si è sentito dare da Giorgia Meloni una lezione di italiano, sfogliandone un dizionario in cui si dà della cortigiana anche ad una prostituta, e non solo a chi frequenta una qualsiasi corte. O cortile, magari, come ho sentito scherzare in un salotto televisivo in cui la conduttrice non si è lasciata scappare l’occasione per imbastire un mezzo processo, il solito, alla premier troppo vittimista e permalosa, secondo lei e i suoi ospiti solitamente pronti a guadagnarsi un altro invito.

         Nessuno degli ospiti di Lilli Gruber, e tanto meno lei, ha voluto dare a Landini, assente non so se per mancata chiamata o per rifiuto, dell’incontinente. Forse temendo che il segretario generale della Cgil e un po’ anche custode, diciamo così, del cosiddetto campo largo dell’altrettanto cosiddetta alternativa al centrodestra della Meloni, si mettesse a sfogliare il dizionario pure lui, come la premier, e rinfacciasse loro l’aspetto anche urinario, diciamo così,  che ha appunto l’incontinenza. Come quella di chi nei giorni scorsi ha fatto la pipì sull’altare principale della Basilica di San Pietro.

         E pensare che all’ultimo congresso della Cgil non un omonimo, ma proprio Maurizio Landini invitò e accolse con cordialità e galanteria la premier, rimediando anche qualche fischio del pubblico fermo alla rappresentazione della presidente del Consiglio come di una fascista irriducibile, arrivata a Palazzo Chigi per vendicare Mussolini, che vi era già passato nel suo ventennio come ministro degli Esteri, a pochi passi da Palazzo Venezia.

Di quell’accoglienza di Landini alla Meloni, scortata dal suo allora portavoce Mario Sechi, si trova ancora qualche foto navigando per internet. Foto che debbono essere diventate per il segretario generale, ripeto, della Cgil un’ossessione da cui riscattarsi, sino a farla -per tornare alla buonanima di Fanfani- tanto grossa da non poterla coprire. E da arruolarsi, paradossalmente, negli avversari della Meloni che masochisticamente lavorano di giorno e di notte per lei, spianandole con i loro errori  la strada per la conferma alla guida del governo dopo le elezioni, fra  due anni, e poi forse anche per la promozione al Quirinale, scadendo due anni ancora dopo il secondo mandato del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

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Giuseppe Conte come Don Ferrante nei Promessi Sposi di Manzoni

         Avevamo lasciato Giuseppe Conte, presidente in prorogatio, come si dice in latino di chi resta al suo posto anche dopo la scadenza del mandato, in attesa di essere sostituito o confermato ripristinando legittimità piena, in versione ingraiana -da Pietro Ingrao dei tempi del Pci- in un intervento alla Camera sulla guerra di Gaza e dintorni. Un Conte ingraiano dopo quello moroteo -da Aldo Moro dei tempi democristiani- o sulliano -da Fiorentino Sullo, da lui personalmente celebrato quando era ancora presidente del Consiglio parlandone in un teatro campano alla presenza di un ancora vivo Ciriaco De Mita, che con Sullo tuttavia aveva duramente rotto nella D,  o semplicemente camaleontico per la rapidità, la disinvoltura e quant’altro con cui sapeva e sa spostarsi nello scacchiere politico.

Non a caso, del resto, nel 2019 il già “avvocato del popolo” rimase presidente del Consiglio, dopo la crisi apertasi per le ambizioni politiche e personali del suo allora vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini, sostituendo i leghisti, appunto, col Pd dei post-comunisti e post-democristiani nella maggioranza e nel governo. E altro ancora egli  avrebbe fatto nel 2021, sempre per restare a Palazzo Chigi sostituendo i renziani ritiratisi dalla maggioranza, se il presidente della Repubblica Sergio Mattarella glielo avesse permesso. Ma il Capo dello Stato commissariò in qualche modo Palazzo Chigi mandamdovi l’ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi. Che Conte, obbligato da Beppe Grillo che ancora disponeva del MoVimento 5 Stelle, ingoiò tanto malvolentieri da vomitarlo -politicamente parlando- nell’anno successivo, anche a costo di spianare la strada elettorale e istituzionale al centrodestra di Giorgia Meloni.

Ma finiamola di parlare del passato e torniamo al presente, dicevo, manzoniano. Nel cui mondo letterario, di fronte alle dimissioni minacciate della vice presidente del partito Chiara Appendino , ex sindaca di Torino, pur di dare una “scossa” per la sua ormai costante crisi elettorale, Conte ha attinto indossando praticamente i panni, la postura e quant’altro di Don Ferrante. Che nei Promessi Sposi minimizza la peste di Milano sino a morirne, non metaforicamente ma davvero, fisicamente.

E Beppe Grillo, a Genova o dintorni, che cosa fa? Continua a tacere, credo anche lui minacciosamente, come l’Appendino minacciando dimissioni che Conte sostiene di non avere nemmeno percepito, attribuendole alla fantasia o alle forzature dei giornalisti. Grillo nel suo blog personale preferisce sognare, per esempio, un mondo affollato di bicilette per salvaguardarlo dall’inquinamento, pur se a Roma, per esempio, le poste ciclabili provocano più proteste  che consensi fra i cittadini che, già sopravvissuti alla sindaca pentastellata Virginia Raggi, sopravviveranno anche alle automobili che pure li intossicano.

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Il ritorno al Quirinale di un Papa, Leone XIV, refrattario al populismo

         Cortile, pareti e soffitti del Quirinale sono tornati con Leone XIV, in visita ufficiale ieri sul colle più alto di Roma, ricevuto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e omaggiato poi dalle più alte cariche dello Stato, a cominciare dalla premier Giorgia Meloni fresca della storica missione in Egitto per la firma del piano di pace a Gaza; cortile, pareti e soffitti del Quirinale, dicevo, sono tornati a vedere un Papa come ai tempi in cui i Pontefici vi dimoravano. Con tutti i paramenti che nelle occasioni di rilievo danno della figura del Papa un aspetto solenne.

         Il 18 aprile di dieci anni fa era salito al Colle, ospite sempre di Mattarella, Papa Francesco indossando solo, semplicemente la sua tonaca bianca, senza stola e tutto il resto. E non a caso, avendo lui voluto segnare con quel modo di vestirsi, anche in circostanze ufficiali di un certo peso, una svolta nella storia di Santa Romana Chiesa. Una svolta piaciuta tanto ai populisti in servizio permanente ed effettivo, che forse hanno avvertito ieri, vedendo le immagini trasmesse dal Quirinale, un certo rimpianto.

         Personalmente preferisco lo spettacolo, diciamo così, di ieri. Non tanto per conservatorismo, che pure ha i suoi pregi e non solo difetti, ma per anti-populismo, appunto. L’abito fa il Papa, non solo il monaco.

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