Più che sui magistrati, si voterà su chi deve governare l’Italia

A prima vista, considerandone i titoli, il referendum in arrivo sulla giustizia si ricollega a quello del 1987 sulla responsabilità civile delle toghe. Per evitare il qualela Dc di Ciriaco De Mica provocò la crisi del governo di Bettino Craxi e la fece chiudere, con l‘aiuto del Pci di Alessandro Natta, con le elezioni anticipate.

Seguì il rinvio della prova referendaria, ma di pochi mesi, con uno strappo alla regola di almeno un anno imposto dal pur perdente Craxi. Che si prese la rivincita, con i radicali di Marco Pannella che lo avevano promosso assieme ai socialisti, vincendo il referendum voluto per far cessare il privilegio dei magistrati di non rispondere dei danni che procuravano.  Ma fu purtroppo una rivincita effimera, perché la irresponsabilità civile dei magistrati fu di fatto reintrodotta con una legge scrittasi dai magistrati al Ministero della Giustizia col permesso della buonanima del guardasigilli pur socialista Giuliano Vassalli.

         A prima vista, dicevo, si torna al 1987. Ma, se non ci si lascia distrarre dai titoli e si scende alla sostanza delle cose, il referendum in arrivo sulla riforma intestata a Carlo Nordio che la premier Giorgia Meloni ha giustamente definito “storica”, è paragonabile a quello del 1985 su tutt’altro argomento apparente: i tagli antinflazionistici alla scala mobile dei salari, apportati nel 1984 dal governo Craxi. Più che su quei tagli, peraltro modesti quantitativamente ma contestati dal Pci ancora di Enrico Berlinguer sino ad imporre al pur recalcitrante segretario generale della Cgil Luciano Lama la promozione di un referendum abrogativo, il referendum era su chi potesse e dovesse governare in Italia. Se il governo, appunto, in un sistema parlamentare, con la fiducia delle Camere, o per i temi sociali i sindacati e il Pci. Vinse l’anno dopo, anzi stravinse Craxi, con Berlinguer ormai morto.  Fra le poche località in cui Craxi non vinse cu fu Nusco, il paese irpino di De Mita, che nella campagna referendaria aveva speso poche parole, anzi nessuna.  

 Seguì una crisi irrecuperabile del Pci, finito poi fra le macerie del muro di Berlino pur dopo gli effimeri guadagni politici ricavati della rivoluzione giudiziaria delle cosiddette mani pulite.

         Meloni con questo referendum in arrivo, 40 anni dopo una stagione che la vedevano allora solo bambina, cresciuta però in fretta e abbastanza, intende ristabilire col referendum in arrivo chi governa in Italia in tutti i sensi: se il governo, appunto, o i magistrati e corifei che l’accusano di volere “pieni poteri”. Quelli che il primo sottosegretario della premier, Alfredo Mantovano, con l’esperienza che gli deriva anche dalla professione giudiziaria a lungo esercitata, ha spiegato bene in cinque minuti, l’altra sera con Bruno Vespa dopo il Tg1, detiene ed esercita invece la magistratura con la carriera unica di giudici e pubblici ministeri. E con il Consiglio Superiore della Magistratura praticamente gestito dalle correnti del sindacato-partito delle toghe, anche nei suoi aspetti disciplinari.

         E’ questa realtà, nella quale la magistratura è cresciuta dopo aver messo nell’angolo la politica una trentina d‘anni fa col pretesto di combattere la corruzione derivante direttamente o indirettamente dal finanziamento illegale dei partiti; è questa realtà, dicevo, che la Meloni ha deciso di mettere in discussione con la riforma appena approvata in Parlamento e col referendum che seguirà.  E lo ha fatto con più coraggio ancora di Craxi sul piano sociale e sindacale, perché questo referendum è confermativo, senza quorum e altre assicurazioni, e non abrogativo, come quello di 40 anni fa sui tagli alla scala mobile dei salari. Avete capito la premier, anzi il presidente del Consiglio come la Meloni vuole essere chiamata, al maschile? Cammina nella politica interna con lo stesso passo della politica estera. E il Pd cammina come il Pci del 1984-85, anche se la segretaria Elly Schlein mostra di non accorgersene. E fa spallucce a chi invece se ne accorge e lamenta al Nazareno e dintorni.

Pubblicato su Libero

Nicola Gratteri gela le aspettative politico-referendarie del Pd

“Mi batterò contro la riforma, ma non contro Meloni…Non mi cimenterò in battaglie politiche, che lascerò ad altri, anche perché se al referendum vincesse il no, non ci sarebbe nessuna ripercussione sul governo”. Lo ha detto al Foglio Nicola Gratteri, mancato ministro della Giustizia con Matteo Renzi, la cui proposta di nomina fu bocciata dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano trattandosi di un magistrato ancora in servizio. Ora egli è il capo della Procura della Repubblica di Napoli, ma soprattutto, in questo percorso referendario, un testimonial, se non il testimonial della campagna del no al referendum sulla riforma costituzionale sulla giustizia. Che pur contiene quel sorteggio anticorrentizio per la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura, da dividere in due come le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. Cui invece egli è contrario per risparmiare ai cittadini dei pubblici ministeri, com’è anche lui, ancora più forti di oggi, sostiene Gratteri con inconsapevole autocritica.

         Più delle contraddizioni in cui finisce di incorrere come lui, al pari di quanti in passato sono stati sostenitori della separazione delle carriere giudiziarie e ora non più, colpisce della posizione di Gratteri l’effetto di gelata sul Pd di Elly Schlein. Che è stato appena accusato dal non sospettabile Claudio Petruccioli – suo elettore dichiarato pur sempre più a corto, ha ammesso, di ragioni per motivarsi- di cavalcare il referendum sulla giustizia come una spallata al governo di centrodestra. Che, ripeto, secondo Gratteri sopravviverebbe anche ad una sconfitta referendaria. Il presidente del Senato Ignazio La Russa ripeterebbe quello che si è lasciato scappare sulla separazione delle carriere parlandone nella buvette di Palazzo Madama e chiedendosi se il gioco valesse la candela”. O “il candelabro”, ha cercato poi di scherzarci sopra il ministro della Giustizia Carlo Nordio.

         La partita referendaria nello scenario descritto da Gratteri rischia di concludersi per il Pd peggio ancora di quella altrettanto rumorosamente ingaggiata 40 anni fa dal progenitore Pci. Che usò, anzi impose alla Cgil un referendum abrogativo dei tagli pur antinflazionistici apportati alla scala mobile dei salari dal governo di Bettino Craxi volendone denunciare e sconfiggere la stessa prepotenza oggi rimproverata da sinistra al governo Meloni in tema di giustizia. Allora il Pci perse clamorosamente, entrando in una crisi dalla quale non si sarebbe più ripreso, per avere perduto numericamente. Adesso il Pd rischia -parola, ripeto, dell’insospettabile Gratteri- di mancare la spallata al governo pur vincendo con i no alla riforma.

         Più sfigata di così, dico con la licenza dell’ironia, non potrebbe essere il Pd della Schlein. E pure gli altri che gli stanno andando appresso in questa partita, o ai quali è stata la Schlein ad andare appresso per non perdere, per esempio, il contatto con Giuseppe Conte. Il cui partito ancora delle 5 Stelle è il più allineato, o il più subordinato politicamente, all’associazione nazionale dei magistrati.

Destinato al Dubbio

Ripreso da wwwsartmag.it il 2 novembre

Pubblicato sul Dubbio il 5 novembre

Il ritorno consolante di Tonino Di Pietro a prima di mani pulite….

         Ad Antonio Di Pietro, 75 anni compiuti il 2 ottobre scorso, già segretario comunale, già commissario di Polizia, per non parlare di precedenti lavori modesti e precari, già magistrato, già fondatore di un partito, già ministro, ora avvocato e coltivatore diretto nella sua Montenero di Bisaccia, in Molise, sono andate sicuramente storte foto, titoli e vignette su Silvio Berlusconi padre naturale della separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Ma anche d’altro della riforma costituzionale della giustizia ora in attesa solo della conferma referendaria. Berlusconi sarà forse rimasto nella memoria di Di Pietro l’indagato e poi plurimputato  che lui da sostituto procuratore della Repubblica a Milano si propose al capo dell’ufficio Francesco Saverio Borrelli di “sfasciare” in un interrogatorio derivante da un avviso a comparire notificato a mezzo stampaall’allora presidente del Consiglio. Che peraltro solo qualche mese prima aveva offerto a lui e al collega Pier Camillo Davigo di entrate come ministri nel suo primo governo.

         “Tonino”, come amici e titoli di giornali continuano a chiamarlo, sarà rimasto male, ripeto, ma non tanto -almeno sinora- per cambiare idea sulla riforma della giustizia appena approvata dal Parlamento, che lui preferisce chiamare riforma dei magistrati. Di Pietro ha annunciato e ripetuto, anche o persino al Fatto Quotidiano, che voterà a favore nel referendum confermativo. Ritenendo la separazione delle carriere giudiziarie conforme al processo di tipo accusatorio adottato un po’ memo di 40 anni fa, e una balla quintessenziale la paura avvertita dai suoi ex colleghi di vedere compromessa l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati garantite dall’articolo 104 della Costituzione, non toccato dalla riforma. Io aggiungerei, in verità, anche il 112, brevissimo, e neppure esso toccato dalla riforma, sulla obbligatorietà dell’azione penale da parte del pubblico ministero. Anche a carriera separata da quella dei giudici introdotta dalla riforma.

         A costo di sorprendervi, la posizione di Di Pietro su carriere, ex colleghi e quant’altro toccato dalla riforma in attesa di conferma referendaria non mi ha meravigliato. Egli mi sembra tornato, dopo tanti anni in cui  circostanze personali e professionali di vita, l’esposizione mediatica e altro ancora lo avevano in qualche modo travolto, alle origini. A quella volta in cui, per esempio, ospiti entrambi a pranzo, con Fedele Confalonieri, dell’architetto Claudio Dini, che ne sarebbe poi diventato imputato nella vicenda giudiziaria delle cosiddette mani pulite, ebbi istintiva simpatia per quel Di Pietro ruspante di poche e dirette parole, costretto a difendersi con un tovagliolo indossato come un impermeabile dagli schizzi di sugo che si procurava mangiando con foga gli spaghetti.

         Riprovai simpatia per lui, ma a distanza, quando i colleghi della giudiziaria al Giorno, che dirigevo, mi anticiparono la notizia poi diffusa anche dalle agenzie del “sostituto” Di Pietro chiuso nel suo ufficio in Procura, a Milano, con un cartello appeso alla porta in cui si vantava di non partecipare ad uno sciopero indetto dall’associazione nazionale dei magistrati contro l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che mi chiamò al giornale per chiedermi se conoscessi quel “coraggioso e temerario magistrato”. E io me ne vantai raccontandogli di quel pranzo da Dini.

         Debbo dire che, anche a mani pulite aperte, Antonio Di Pietro seppe interrompere il mio stupore per la piega presa dalle indagini e dalla loro rappresentazione, quando in Piazza della Scala ci incrociammo per caso e lui, allontanati gli uomini della scorta, tenne a dirmi che le anticipazioni appena comparse sulle agenzie di un coinvolgimento di Bettino Craxi nella bufera giudiziaria non erano derivate dalle “carte” inviate dalla Procura alla Camera. E girate alla giunta delle autorizzazioni a procedere da una cui riunione ogni tanto usciva il verde Mauro Paissan per distribuire annunci e allusioni a carico del leader socialista.

Pubblicato su Libero

Più che il governo, è il Pd a viaggiare sulle montagne russe del referendum

         Claudio Petruccioli, 84 anni e mezzo vissuti fra generose illusioni comuniste e amare delusioni post-comuniste, tanto da ammettere, parlandone col Foglio, di votare per il Pd ma di sapere sempre meno spiegarne perché, si è fatta un’idea precisa sulla ragione invece per la quale i suoi amici e compagni si sono schierati parlamentarmente e referendariamente contro la riforma costituzionale della giustizia. Che ieri il Senato, nell’ultimo dei quattro passaggi richiesti fra le due Camere ha approvato con 112 voti favorevoli, 59 contrari e 9 astenuti.

         La riforma, tra separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, la divisione in due del Consiglio Superiore della Magistratura, il sorteggio anticorrentizio per comporli e un’alta corte disciplinare per le toghe abituate invece a giudicarsi da sole, sarà invece approvata nel referendum confermativo di primavera dall’ex parlamentare della sinistra.  Coerente – ha ricordato sempre al Foglio lo stesso Petruccioli- con la separazione delle carriere giudiziarie da lui sostenuta nella commissione bicamerale per la riforma della Costituzione preseduta a suo tempo non da qualche esponente di destra, ma da Massimo D’Alema in persona.

         Il Pd è oggi contrario, secondo Petruccioli, solo strumentalmente, scommettendo su una bocciatura referendaria propedeutica alla crisi e caduta del centrodestra guidato da Giorgia Meloni. Un po’ come il Pci dei suoi tempi -me lo permetterà Claudio di ricordarlo- fra il 1984 e il 1985 scommise sul referendum contro i tagli anti-inflazionistici alla scala mobile dei salari, pur finalizzati alla difesa del valore reale dei salari, inseguendo la sconfitta e la caduta del governo del socialista Bettino Craxi che li aveva voluti. E che uscì invece vincente dalla partita.

         La strumentalizzazione politica del referendum sulla giustizia come assalto al governo non è stata rimproverata al Pd solo da Petruccioli ma, pur non nominando il partito della Schlein, anche da un magistrato già diventato un testimonial della causa dei suoi colleghi: il capo della Procura della Repubblica di Napoli Nicola Gratteri. Che, parlandone pure lui al Foglio, ha detto e promesso: Mi batterò contro la riforma, ma non contro Meloni”. “Se al referendum vincesse il no, non ci sarebbe nessuna ripercussione sull’esecutivo”, ha aggiunto Gratteri, immagino con quanta sorpresa, a dir poco, della segretaria del Pd Elly Schlein e affini al Nazareno e dintorni, dove sognano la caduta della Meloni come alle Botteghe Oscure, ripeto, 40 anni fa di Bettino Craxi. Di cui i comunisti denunciavano la pretesa dei pieni poteri come i senatori del Pd hanno fatto con i loro cartelli contro Meloni e il suo governo ieri nell’aula del Senato mentre la maggioranza applaudiva il risultato della votazione finale sulla riforma della giustizia. O “della magistratura”, come ha detto il non più mitico Antonio Di Pietro parlandone al Fatto Quotidiano e ribadendo la decisione di votare sì al referendum, pur infastidito dalla intestazione della separazione delle carriere giudiziarie e di tutto il resto alla memoria di Silvio Berlusconi da parte  di familiari, amici e devoti.

         In conclusione, direi che a viaggiare con le vertigini sul referendum come sulle montagne russe sembra destinato più il Pd che il governo

Bocciato non il Ponte di Salvini sullo stretto di Messina, ma i suoi conti

         Più che il ponte sullo stretto di Messina, come sommariamente annunciato trionfalmente da quanti sono contrari, sono stati bocciati i suoi conti dall’omonima Corte attaccata sia dal ministro che si è intestato il progetto, Matteo Salvini, deciso ad andare avanti lo stesso, sia dalla premier Giorgia Meloni. Che ha avvertito e denunciato l’ingerenza della giustizia, questa volta amministrativa, negli affari di governo.

         La coincidenza della bocciatura, per quanto non definitiva perché Salvini si è proposto di adottare le procedure possibili per andare avanti lo sesso con le riserve eventualmente ribadite dalla Corte amministrativa; la coincidenza, dicevo, della bocciatura dei conti del Ponte, con la maiuscola dell’unicità e imponenza del progetto, con il quarto ed ultimo passaggio parlamentare, oggi al Senato, della riforma costituzionale della giustizia ha contribuito a surriscaldare il clima politico.

Anche il Ponte finirà probabilmente nel calderone referendario della separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, della separazione del Consiglio Superiore della Magistratura, del sorteggio anticorrentizio per la composizione e di un’alta corte disciplinare che sottragga i magistrati all’autodisciplina totale.

Ne passerà dell’acqua, in tutti i punti di vista, sotto il Ponte. Anticiparne il crollo prima ancora della sua costruzione è tuttavia un po’ esagerato,  come si dice di certe morti annunciate per errore, specie se eccellenti.

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La candela di Ignazio La Russa sotto la riforma della giustizia

         Per l’approvazione parlamentare definitiva di oggi, al Senato, della riforma costituzionale della giustizia, contenente anche la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri ci sono dunque voluti più della metà di questa legislatura, a maggioranza stabile di centrodestra, e una quarantina d’anni di polemiche furiose. Provocate anche da uomini assai controversi che l’avevano sostenuta come Licio Gelli, il capo della loggia massonica speciale P2, al quale taluni vorrebbero tuttora intestarla per contrastarla meglio nel referendum confermativo che seguirà nella prossima primavera, riproponendola come funzionale ad un piano di destabilizzazione della democrazia.

         La riforma ha compiuto il suo percorso in Parlamento nonostante le voci intermittenti di dubbi persino della premier Giorgia Meloni, per quanto sia stata costante nel sostenerla col ministro della Giustizia Carlo Nordio  come segno di una svolta senza ritorno nei rapporti fra politica e giustizia dopo il loro brusco cambiamento, a favore dei magistrati, a cavallo fra la prima e la seconda Repubblica. Quando la lotta giudiziaria al finanziamento illegale dei partiti e alla corruzione che ne era spesso, non sempre, conseguita per ammissione anche di molte assoluzioni, e non solo di condanne, rovesciò gli equilibri pur sanciti ancora dalla Costituzione. E sopravvissuti ad alcune modifiche apportate per assecondare il clima giustizialista, come nl 1993 la drastica riduzione dell’immunità parlamentare.

         Scontata l’opposizione di larghissima parte dell’opposizione generosamente al singolare, anche a costo di clamorosi cambiamenti o giravolte, specie nel Pd, ma scontata anche la soddisfazione della maggioranza, sensibile al ricordo di Silvio Berlusconi più che di Licio Gelli, è stata sorprendente, se non clamorosa come una stecca in una orchestra, una sortita al bar- quello del Senato- del presidente Ignazio La Russa. Che, parlandone a distanza di qualche passo dal ministro Nordio si è chiesto se “il gioco valesse la candela”. Anche in riferimento ai risultati che potrà produrre la separazione del Consiglio Superiore della Magistratura.

         La competenza professionale di Ignazio La Russa, avvocato di lunghissimo corso a Milano, aumenta un po’ la portata dei suoi dubbi politici, e persino istituzionali, vista la carica che ricopre, la seconda dello Stato. La Meloni sicuramente non gliene vorrà più di tanto, conoscendo i consolidati rapporti di partito e personali che li uniscono. Ancor meno gliene vorrà forse la prima carica dello Stato, cioè il presidente della Repubblica, e del Consiglio Superiore della Magistratura, Sergio Mattarella, rimasto in silenzio inusuale e forse sofferto lungo tutto il percorso parlamentare della riforma, e rinfrancato nel vedere loquace sul versante scettico il suo sostanziale vice.  Saranno invece grati i magistrati, che si lasceranno tentare -penso- dall’idea di usare anche le parole del presidente del Senato nella loro campagna referendaria contro la riforma.

         Ma forse Ignazio La Russa si è concesso questo strappo, chiamiamolo così, sicuro della conferma della riforma. E di non averle potuto quindi nuocere evitando di confondersi con la maggioranza, o addirittura di istigarla, come spesso, direi abitualmente, gli attribuisce  l’opposizione, sempre generosamente al singolare.   

Emanuele Fiano meriterebbe un ufficio al Nazareno, se la Schlein avesse buon senso

Ancora scioccato dall’esperienza vissuta in una delle sedi dell’Università veneziana Cà Foscari, dove ragazzi dichiaratamente comunisti, con tanto di falce e martello sullo striscione di riconoscimento, avevano interrotto un suo intervento sul Medio Oriente e negato il diritto a parlare perché “sionista”, l’ex deputato del Pd orgogliosamente ebreo Emanuele Fiano, Lele per gli amici, ha raccontato la sua esperienza al Corriere della Sera. Un racconto dal quale non so francamente chi esca peggio fra i ragazzi “tecnicamente fascisti”, come ha dato ad uno di loro lo stesso Fiano, o i commessi universitari che si sono coperti dietro il pretesto dell’orario per promuovere l’uscita di tutti dalla sala: contestatori e contestati. Fra i quali Fiano ha dignitosamente preteso, riuscendovi, di essere l’ultimo ad allontanarsi, continuando nel frattempo a battibeccarsi con gli studenti ostili. Che si erano distinti opponendo il segno della P38 degli anni piombo a quanti protestavano contro il pubblico solidale con Fano.

         Dichiaratamente “socialdemocratico” perché sempre consapevole, anche quando il suo partito si chiamava comunista, del carattere criminoso del comunismo bolscevico, Lele Fiano ha voluto essere generoso col Pd. Dove ha assicurato che non esiste dell’antisemitismo, nè diretto né di riporto, neppure da parte di quanti hanno recentemente accettato di manifestare nelle piazze, particolarmente a Roma, in cortei aperti da uno striscione che equiparava alla Resistenza di memoria italiana il terrorismo praticato da Hamas in Medio Oriente per sostenere la causa della Palestina. Una terra i cui abitanti sono diventati a Gaza ostaggi dei loro presunti difensori che hanno costruito sotto le loro case, le loro scuole, i loro ospedali, le loro strade e piazze le postazioni militari della lotta a Israele. Che sono ancora operanti nella fragilissima tregua sopraggiunta agli accordi firmati in terra egiziana e intestatisi dal presidente americano Donald Trump.

         C’è molto da fare in questi giorni al Nazareno, seguendo eventi parlamentari, di piazza e di correnti più meno di partito.  Sarebbe bello se la segretaria del Pd si facesse venire l’idea di aprire un ufficio, con tanto di competenze adeguate ai problemi di cui si occupa Fano, affidandoglielo. Bello, perciò improbabile.

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Al Quirinale con vista…di controllo su Palazzo Chigi

Con un articolo di Giulia Merlo pur intriso di “voci”, “suggestioni” e persino “chiacchiere”, testualmente e onestamente, il Domani di Carlo De Benedetti ha fatto squillare a sinistra l’allarme di una “idea pazza” del centrodestra da realizzare fra quattro anni, alla scadenza del secondo mandato di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Una “idea pazza” per lo stesso centrodestra, dove sarebbero in agitazione più candidati alla successione a Mattarella, e a quella a Gorgia Meloni a Palazzo Chigi se la l’attuale premier raddoppiasse e andasse poi al Quirinale.  Ma un’idea ancor più “pazza” e devastante per la sinistra di qualsiasi campo, largo o stretto, lungo o corto, impegnata a costruire un’alternativa alla destra, tout court, per ora sperimentata e sperimentabile a livello locale.

         La Meloni al Quirinale, che non sarebbe solo la prima donna a salire così in alto, ma  il primo presidente del Consiglio  a trasferirsi direttamente al vertice dello Stato, come avrebbe voluto fare, senza riuscirvi, Giulio Andreotti nel 1992, sarebbe sostituita a Palazzo Chigi dall’attuale ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Ma in veste più di tecnico che di leghista, perché come uomo del Carroccio potrebbe magari aspirarvi Matteo Salvini direttamente, presumibilmente stanco di essere stato vice presidente del Consiglio, prima di Giuseppe Conte, nel governo gialloverde del 2018, e poi in quello, anzi nei due prevedibili della Meloni. Che gli stessi tramortiti di sinistra, pur aspirando alla già ricordata alternativa, temono di dovere subire.

         L’unica speranza degli alternativisti, di tendenza elliana, dalla segretaria del Pd Elly Schlein, o di tendenza contiana, da Giuseppe Conte appena confermato con dati bulgari presidente solo del Movimento 5 Stelle, o di qualsiasi altra natura dovesse aggiungersi, è riposta nell’implosione del centrodestra. Che, poveretti, lor signori cercano di favorire, o alimentare come un fuoco, facendosi venire e diffondendo idee come quella “pazza”, appunto, attribuita alla Meloni e a Giorgetti di spartirsi praticamente da soli Quirinale e Palazzo Chigi. Una cosa riuscita qualche volta alla Dc, a dispetto della pratica della cosiddetta alternanza, e una volta sola, più per caso e che per calcolo, ai socialisti quando sedettero contemporaneamente Sandro Pertini al Quirinale e Bettino Craxi a Palazzo Chigi.

         Per ora gli alternativisti, ripeto, possono solo impanicarsi, da panico, e sognare il suicidio politico degli avversari. I più riflessivi fra loro, i meno disperati almeno nelle apparenze, stanno scoprendo e sperimentando la vecchia pratica democristiana della convegnistica.  Che si aggiungeva, qualche volta    persino sostituendosi alle riunioni di direzione o di consiglio nazionale o ai congressi. Si consolidavano così, o si spaccavano, correnti e sottocorrenti, chiarendo spesso più i rapporti di forza che le idee.

L’ultimo e più famoso, anzi prestigioso regista di quella pratica fu Aldo Moro. Che già quando gli capitò di essere segretario del partito ma ancor più dopo, quando ne fu solo il presidente o “il regolo”, come lo chiamava Indro Montanelli, raccomandava nei momenti difficili di “scomporre per ricomporre”. Egli tentò di farlo pure con gli aguzzini delle brigate rosse che lo avevano sequestrato nel 1978, portandoli a spaccarsi nella decisione sulla fine da riservagli. Ma fu una spaccatura rapidamente ricomposta nel peggiore dei modi, con la sua esecuzione nel bagagliaio di un’auto, fra atroci sofferenze ricostruite dagli esperti esaminandone i resti, essendo la morte sopraggiunta per dissanguamento, non per un colpo secco e mirato al cuore.

         Ma torniamo alla Dc e al partito che presume di averne preso di più il posto, che è il Pd debitore con l’area di provenienza cattolica della promessa di una prossima tessera di iscrizione con l’immagine di un democristiano, dopo quella di Enrico Berlinguer. Non mi sembra francamente di vedere, al Nazareno e dintorni, uomini in qualche modo paragonabili davvero a Moro.

Pubblicato su Libero

L’idea “pazza” diffusa a sinistra di Meloni al Quirinale e Giorgetti a Palazzo Chigi

         A sinistra, in crisi ormai anche depressiva e non solo politica per la tenuta sondaggistica a livello nazionale, ed elettorale in sede locale, del governo di Giorgia Meloni, pur alle prese con la scadenza generalmente difficile e impopolare della manovra finanziaria di fine anno collegata al bilancio, si fanno avanti col panico. E lanciano, attraverso Domani, il giornale del sempre vigile ingegnere Carlo De Benedetti, la “pazza idea” del centrodestra di mandare al Quirinale fra cinque anni, alla scadenza del secondo mandato di Sergio Mattarella, l’ancora premier confermata nelle elezioni del 2027, e insediare a Palazzo Chigi l’attuale ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Ma considerandolo più in tecnico che un leghista. Un’idea tanto pazza, ripeto, che starebbero impazzendo, appunto, anche nel centrodestra, dove non mancano ambizioni di altri, per quanto non ancora confessate, tanto alla Presidenza della Repubblica quanto alla Presidenza del Consiglio.

         I due, Meloni e Giorgetti, uniti proprio in questi giorni nel difendere i conti dello Stato dalle critiche e dall’assalto delle opposizioni, ma anche di parti più o meno consistenti della stessa maggioranza, sono ormai per Giorgia Merlo di Domani una coppia politica consolidata. E temuta. “I due si sentono, si fidano l’una dell’altro si stimano”, ha scritto la cronista. Che per fortuna di è fermata qui. Non è andata oltre prospettandone l’innamoramento. La Meloni peraltro, si sa, è anche una singola sentimentalmente dopo la rottura abbastanza clamorosa col compagno, padre della figlia Ginevra. Giorgetti risulta ancora felicemente sposato, e padre di una figlia pure lui, ma tutto -si sa- potrebbe accadere. Anche un’altra cosa “pazza”.

         Siamo ormai, ripeto, alla follia ammessa dalla stessa giornalista in un lungo articolo   fortunatamente scampato alla tentazione di qualcuno di sistemarlo come spalla o apertura, come si dice in gergo tipografico, della prima pagina del giornale debenedettiano. E’ finito in prima pagina lo stesso, ma in basso a sinistra, con un richiamo visibile ma non troppo.  

Ripreso da http://www.statmag.it        

Il Conte in edizione bulgara al vertice del Movimento 5 Stelle

Sarebbe troppo facile, persino banale, commentare la conferma di Giuseppe Conte a presidente del Movimento 5 Stelle rilevandone solo il carattere bulgaro, come si dice da quando la Bulgaria fu il paese più monolitico e disciplinato fra gli alleati o satelliti dell’Unione Sovietica.

         La rielezione è avvenuta senza concorrenti e con quasi il 90 per cento dei voti espressi, in particolare con 53.353 sì e 6.307 no, per un totale quindi di 59.660 votanti. Altri 42.123 dei 101.783 iscritti e aventi il diritto di partecipare all’elezione col metodo elettronico non hanno trovato il tempo e soprattutto la voglia di digitare un sì o un no. Se Conte abbia gradito o no, e davvero, tanto assenteismo, diciamo così, non si è riusciti a capire. E tanto meno si sa, almeno mentre scrivo, come l’abbia presa nel suo ritiro e silenzio, destinato a durare chissà quanto, il fondatore ed ex garante del movimento Beppe Grillo.

         Sarebbe troppo facile e pesino banale, dicevo, soltanto ironizzare sull’edizione ed elezione bulgara di Conte. E perciò non lo faccio. Prendo anzi sul serio la conferma e la fine del regime di proroga in cui Conte ha dovuto ultimamente operare, facendo anche scelte di un certo impegno, come il tipo di rapporto col Pd rimproveratogli dall’ormai ex vice presidente del movimento, ed ex sindaca di Torino, Chiara Appendino attribuendogli  la responsabilità delle perdite in questo turno autunnale di elezioni regionali, sia dove la sinistra in qualche modo associata ha perduto, come nelle Marche e in Calabria, sia dove ha vinto, come in Toscana.

         Per difendersi dalle critiche dell’Appendino e guadagnarsi la conferma a presidente pentastellato Conte ha ritenuto di smentire che si sia davvero alleato col Pd della Schlein. L’alleanza, come il cosiddetto campo largo perseguito con ostinazione dalla segretaria del Nazareno, sarebbe anch’essa una forzatura, una espressione o invenzione “giornalistica”. C’è solo una disponibilità a intese, per ora solo locali, nelle quali Conte si propone di essere irriducibilmente “scomodo”. Quanto si presume ragionevolmente che debbano sentirsi anche gli altri, a meno di una loro vocazione non eroica ma masochistica.   

         Sia a livello locale sia, un giorno, a livello nazionale per diventare davvero l’alternativa al centrodestra, come Pier Luigi Bersani raccomanda di chiamare il campo largo sgradito a Conte, rimarrebbe a operare contro il governo uno schieramento com’è quello attuale. Il cui limite di non avere un programma e una credibilità è riconosciuto da una parte consistente del Pd, compreso l’uomo che viene considerato, nei salotti televisivi dove viene invitato, al di sopra delle parti, pronto a dare consigli e rassegnato a non vederli applicati: l’ex presidente del Consiglio e professore emerito Romano Prodi. Che, ospite qualche giorno fa di Lilli Gruber, è tornato ad ammettere che l’alternativa al centrodestra, per quanto diviso anch’esso sulla manovra finanziaria appena proposta al Parlamento, semplicemente e dannatamente non c’è.

Pubblicato sul Dubbio

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