Anche il fantasma di Dalemoni sul referendum per la riforma della giustizia

Col traffico di firme ed altro fra le Camere e   il palazzaccio romano della Cassazione è ormai cominciato il percorso referendario della riforma costituzionale della giustizia, esauritosi quello parlamentare. Ferve il dibattito politico, sindacale, culturale, accademico fra e dentro le comunità che vi sono interessate, sicuramente più degli elettori che saranno chiamati alle urne in primavera per confermare o bocciare le modifiche apportate dal Parlamento all’ordinamento giudiziario, e dintorni.

         Risulta assordante, come si suol dire in queste occasioni, il silenzio sino impostosi sulla materia, pur parlando molto di altro, di recete su ben due pagine del Corriere della Sera, una personalità della politica di una certa competenza della  materia accumulata nella sua attività di parlamentare e di autorevole esponente, quanto meno, della sinistra. E’ Massimo D’Alema, che prima di arrivare al vertice del governo come unico post-comunista nella storia della Repubblica italiana, fu presidente bipartisan di una commissione bicamerale per le riforme costituzionali. Bipartisan, perché sostenuto anche dall’opposizione allora capeggiata da Silvio Berlusconi, che lo preferì ad altri concorrenti della maggioranza. Nacque anche da quella scelta il personaggio “Dalemoni” inventato da Giampaolo Pansa nelle sue cronache indimenticabili. Robe d’altri tempi, davvero.

         In quella commissione lo stesso D’Alema e altri compagni di partito che in questi giorni se ne vantano ancora, dissentendo dal no referendario già anticipato dal Pd di Elly Schlein, aderirono alla prospettiva di una separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Che è il perno della riforma intestatasi dal ministro in carica della Giustizia Carlo Nordio, anche se molti considerano altrettanto importanti, se non ancora di più, la separazione parallela del Consiglio Superiore della Magistratura, l’adozione del sorteggio per la composizione e la cosiddetta alta corte disciplinare. Con e nella quale i magistrati finiranno di giudicarsi, su quel profilo, da soli. Che non è francamente in bel fare per uomini che, dopo avere vinto un concorso, per quanto difficile, per carità, dispongono dei cittadini come nessun altro.

         Sarebbe bello, o quanto meno curioso, senza ricorsi alla privacy e simili trattandosi di una personalità politica di rango come la sua, se D’Alema facesse sapere se è rimasto dell’idea di quando fu presidente della già ricordata commissione bicamerale delle riforme, o ha cambiato idea anche lui, come altri della sua parte. E perché? Se per i contenuti della riforma approvata dalle Camere o per non ritrovarsi pure lui in compagnia delle foto di Berlusconi portate in processione dai suoi eredi e amici politici per le strade come il padre più autentico della separazione delle carriere giudiziarie: più ancora del compianto Giuliano Vassalli che la concepì, diciamo così, riformando a suo tempo il processo. Che poi fu messo in Costituzione, con la riforma dell’articolo 111, come “giusto” e svolto “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Parola, ripeto, di Costituzione.

        Non è certamente un tapino come il sottoscritto che deve ricordare tutto questo a D’Alema, visto anche -peraltro- che lo ha riconosciuto, pur fra la sorpresa dell’associazione nazionale dei magistrati della quale non ha mai fatto parte, l’ex sostituto procuratore simbolo di “Mani pulite” Antonio Di Pietro. Che lo ha volentieri spiegato, col suo linguaggio ruspante, anche ai lettori del Dubbio.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it l’8 novembre

L’incontenibile entusiasmo di Elly Schlein per il nuovo sindaco di New York

         Male che vada, se il presidente americano Donald Trump riuscisse davvero a neutralizzarlo come disturbatore, niente di più perché la Casa Bianca gli è già preclusa costituzionalmente essendo nato in Uganda , l’appena eletto sindaco di sinistra di New York Zohran Mamdani ha già un’uscita di sicurezza. E’ in Italia. Dove la giovane, pure lei, segretaria italo-americana- svizzera Elly Schlein ne ha subito celebrato “la splendida vittoria”, pronta a cedergli ciò che forse ancora resiste a concedere a Giuseppe Conte: la leadership del famoso “campo largo” dell’alternativa al centrodestra di Giorgia Meloni. Fra le cui colpe c’è quella peraltro  di essere simpatica, quanto meno, all’antipatico  presidente degli Stati Uniti.

         In compenso, diciamo così, di tanta generosità, di tanto entusiasmo, di tanto orgasmo virtuale per la vittoria splendida, ripeto, del suo fratello minore, anche lui virtuale, della sinistra d’oltre Oceano, la Schlein si è guadagnata dal sarcastico Libero, in Italia, la promozione a nuova statua della libertà a New York, con tanto di insegna della falce e martello sul petto, anzi sul cuore. Un’insegna ben impressa e visibile  come la foto di Enrico Berlinguer sulle tessere di iscrizione al Partito Democratico italiano, omonimo di quello americano ridotto da Trump in braghe di tela.

Quell’ambiguo “giullare” rimediato in morte da Forattini su Repubblica

         La rottura fra Giorgio Forattini ed Eugenio Scalfari a Repubblica avvenne nel 1999, a 23 anni dalla nascita del giornale che fra poco ne compirà 50. Ventitre anni trascorsi da “giullare di carta”, come Massimo Giannini sullo stesso quotidiano ha definito il vignettista per celebrare la morte del componente sicuramente più fantasioso, e anche produttivo di lettori, della squadra del fondatore. Un giullare che personalmente non mi è piaciuto, al di là delle intenzioni del celebrante, spero, perché più facile da collegare ad una corte che ad un pubblico, considerando la cerchia ristretta con la quale l’artista aveva condiviso il lavoro partecipando alle riunioni di redazione e interloquendo sulla confezione del prodotto.

         Solo di un giullare inteso come io ho sospettato il celebrante Giannini poteva scrivere d’altronde ciò che ha scritto, appunto, del suo lavoro dopo la rottura con la corte e il passaggio ad altri giornali, a cominciare dalla Stampa dove aveva voluto ospitarlo il compianto Gianni Agnelli, ripetendo il gesto compiuto con Indro Montanelli quando era uscito, anzi era stato licenziato dal Corriere della Sera.

         “Non so dire di quel periodo” successivo all’esperienza di Repubblica “perché avevo smesso di seguirlo”, ha scritto con una certa spocchia Giannini, aggiungendo la convinzione di “non essere stato il solo”. Forattini era insomma caduto nel “cono d’ombra” dove lo stesso Scalfari disse una volta di considerare finiti tutti quelli che ad un ceto punto avevano smesso di adorarlo, o di rispettarlo nella intensità dovuta. “Non per la sua virata a destra…passando il suo Rubicone berlusconiano”, ha spiegato Giannini, ma Forattini non meritava di essere più seguito perché “mi pareva avesse proprio perso il tocco”. Aveva, più semplicemente, cambiato corte. E nella nuova non meritava più nulla. Era precipitato dal Paradiso di Scalfari all’Inferno di Silvio Berlusconi e affini.

         Questa storia della corte in cui si può entrare ma non si può uscire senza perdere tutto, o quasi, mi è tornata in mente leggendo la storia, che francamente non conoscevo, dell’inizio della crisi nei rapporti fra Scalfari e Forattini, o viceversa, raccontata dallo stesso Giannini e risalente al 1991. Quando Forattini scrisse a Scalfari una lettera di protesta per avergli praticamente cestinato una vignetta “in cui Giovanni Paolo II, presentando l’enciclica per il centenario della Rerum Novarum, diceva a braccia aperte: “Fratelli, siate De Benedetti”. A leggere il nome del suo editore e ancora amico, Carlo De Benedetti, appunto, Scalfari aveva deciso la censura. E rispose, seccato, alla protesta di Forattini, scrivendogli che la vignetta rifiutata “mi è sembrata una cosa priva di senso, dove non c’erano né satira né umorismo” nei riguardi del Papa e di De Benedetti. Che -scrisse ancora Scalfari con umorismo involontario, a dir poco- “sempre potrai prendere per i fondelli”, separatamente o insieme, ma non evidentemente su Repubblica, come otto anni dopo Forattini si rese conto andandosene.

         Dei tre -Scalfari, Forattini, Giovanni Paolo II e De Benedetti- è rimasto ormai in vita solo quest’ultimo. Del quale voglio augurarmi che non abbia apprezzato l’inedito.  

La disinvolta celebrazione di Giorgio Forattini sulla Repubblica di carta

         Li aspettavo al varco e sono arrivati puntuali come i treni svizzeri sui quali la buonanima di Giulio Andreotti scherzava quando scriveva del “Napoleone di turno” che si proponeva di imitarli in Italia.

I colleghi di Repubblica -quella di carta, distinta e distante da quella rappresentata e vigilata al Quirinale dal presidente Sergio Mattarella con i suoi corazzieri- hanno celebrato con disinvoltura olimpica il vignettista Giorgio Forattini scomparso a 94 anni. Lo hanno celebrato in due pagine richiamate in una “spalletta” in prima, tipograficamente parlando, come se lui avesse fatto parte della loro squadra sino all’ultimo. E non costretto invece nel 1999 ad allontanarsene dopo un po’ di vignette censurate dal fondatore, direttore e quant’altro Eugenio Scalfari. Che non ne poteva più di sopportare le reazioni di amici soprattutto eccellenti che si lamentavano di essere messi alla berlina dall’ormai re indiscusso della satira, alcuni cercando persino di guadagnarci sopra con querele. La più famosa delle quali resta quella dell’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema, sprezzante come al solito della impopolarità che poteva derivargli. E ne derivò, anch’essa puntuale come un treno svizzero, piacendo al pubblico lo scapigliato Forattini molto di più di lui, per quanto primo e unico post-comunista passato per Palazzo Chigi nella storia della Repubblica, quella vera.      

Quando D’Alema alla Bicamerale delle riforme sostenne la separazione della carriere giudiziarie

In una lunga intervista stesa su due pagine del Corriere della Sera ben meritate, per carità, trattandosi di un esponente storico della sinistra italiana, Massimo D’Alema ha ritrovato una memoria altrettanto lunga di politica internazionale. Carente tuttavia, a dir poco, di politica interna, con particolare riferimento agli argomenti, anzi all’argomento di maggiore attualità in questi giorni: il referendum in arrivo sulla riforma costituzionale della giustizia approvata in via definitiva la settimana scorsa con la quarta votazione del Senato.

         In politica estera, ancora orgoglioso della recente partecipazione come invitato personale al raduno a Pechino dei vertici dell’”ottanta per cento dell’umanità”, per cui gli assenti avrebbero dovuto vergognarsi piuttosto che stupirsi e polemizzare sulla sua presenza, D’Alema ha raccontato i bei tempi in cui anche grazie a lui l’Italia sarebbe stata fra i protagonisti. Altro che adesso -ha sarcasticamente osservato- con la premier Giorgia Meloni “infilata” nelle foto dei vertici internazionali.

         In particolare, l’ex presidente del Consiglio, a capo di due governi in meno di due anni, fra l’autunno del 1998 e la primavera del 2000, portò l’Italia alla partecipazione alla guerra della Nato nei Balcani, quando da sinistra lo accusarono di avere aggirato il Parlamento. Poi la portò  ad intervento di tutela e rafforzamento della pace in Libano ricorrentemente esposto ai conflitti. Infine ad una partecipazione, per quanto di turno, al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Bei tempi, certo, anche sorprendenti per un uomo del passato di D’Alema, “formatosi” alla scuola comunista, come lui stesso ha voluto ricordare parlando del suo presente di “pensionato indipendente”. Come Giuseppe Conte dice abitualmente di sé come “progressista”.

         In politica interna, dicevo, la memoria dell’ex premier -l’unico post-comunista riuscito a passare per Palazzo Chigi, spintovi nel 1998 dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga- la memoria di D’Alema si è accorciata, o spenta.  Non una parola, in particolare, egli ha voluto spendere sul tempo in cui, su designazione persino di Silvio Berlusconi dal fronte opposto, gli capitò di presiedere una commissione bicamerale sulla riforma della Costituzione, fra il 1997 e il 1998. Quando, confortato dall’adesione di compagni di partito come Claudio Petruccioli e Cesare Salvi, che ne sono anche di recente vantati, e guardato a vista con sorpresa e disappunto dall’ancora potente Procura della Repubblica di Milano, egli aprì alla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Si, proprio la separazione, con altri aspetti della riforma arrivata sul binario referendario, su cui stanno guerreggiando tutti i partiti, alcuni dividendosi pur dietro una facciata rumorosa di no. Come proprio il Pd, dove D’Alema è tornato dopo esserne uscito contestando l’allora segretario Matteo Renzi.

         Mi sarebbe personalmente piaciuto leggere D’Alema oggi sulla giustizia e dintorni, diciamo così. Ma la curiosità mi è rimasta nel gozzo. E non posso neppure pensare di poterla soddisfare arrampicandomi sugli specchi di una interpretazione estensiva di un passaggio dell’intervista di D’Alema sul suo ritrovato Pd. Dove egli riconosce alla segretaria in carica Elly Schlein, per quanto contraria alla separazione delle carriere, o forse proprio per questo, “passione e spirito unitario”, ma osserva sconsolato che “il Pd farebbe bene a elaborare una risposta ai problemi molto seri che abbiano avanti”. Una risposta evidentemente mancante. E ditemi voi se è poco. E se la Schlein, leggendo anche lei, non abbia avuto motivo di rimanere in fondo sorpresa. Diavolo di un D’Alema sempre imprevedibile.

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Grazie a Giorgio Forattini per i suoi…racconti ironici e garbati della politica

         Riconosco al compianto Giorgio Forattini, appena scomparso a 94 anni, il merito di averci- scusandomi del presuntuoso plurale- tanto a lungo fatto sorridere, non ridere della politica. Che lui raccontava e insieme spiegava e commentava nelle sue vignette impietosamente ma con tanto garbo quanto acume, ironia, mai sarcasmo ostile. Che invece qualche volta il pur amico ed estimatore Eugenio Scalfari, sulla sua Repubblica, avvertiva e gradiva così poco da censurarlo.

         Non c’era in lui sconcezza neppure quando avvolgeva nella sua abbondante nudità l’amico Giovanni Spadolini. Che, per quanto spesso permaloso nel sentirsi criticare o attaccare, a Forattini chiedeva addirittura gli originali delle vignette che lo riguardavano per conservarle e gustarsele perché riconosceva in quella nudità quasi fanciullesca “l’odore di bucato” raccontato da Indro Montanelli nel sostenerlo elettoralmente a Milano come candidato al Senato. Prima che gli preferisse, e facesse preferire a molti suoi lettori la Dc, pur turandosi il naso, per evitarne il sorpasso da parte del Pci.

         Un altro che chiedeva, o faceva chiedere a Forattini gli originali di qualche vignetta in cui era disegnato particolarmente curvo nelle sue spalle, con una gobba allusiva ai segreti che custodiva, era Giulio Andreotti. Che ogni tanto si guadagnava dal vignettista anche una coda rossa di Belzebù sporgente dal suo abito rigorosamente nero.

         Non gradì invece, sino a denunciarlo e a farlo allontanare da Repubblica, Massimo D’Alema di vedersi proposto al pubblico come un presidente del Consiglio impegnato a sbianchettare una lista di ex spie politiche italiane dei tempi dell’Unione Sovietica. Se ne scrisse e se ne parlò per qualche mese per i documenti che uscivano ogni tanto dagli archivi segreti di Mosca pagandone i custodi con qualche centinaio o migliaia di dollari.

         Non aveva gradito nel 1974 neppure Amintore Fanfani, disegnato da Forattini come il tappo di una bottiglia di champagne saltato via con la conferma del divorzio nel referendum abrogativo fortemente voluto e sostenuto dall’allora segretario della Dc. Che il predecessore ed ex delfino Arnaldo Forlani, sempre come segretario del partito scudocrociato, aveva prudentemente fatto rinviare due anni prima, sino a preferirgli le elezioni anticipate.

         Non avrebbe gradito più di venti anni dopo neppure il segretario del Pci Enrico Berlinguer avvolto da Forattini in una vestaglia molto borghese, e spaventato con i capelli irti appunto di paura, sentendo arrivare dalla finestra i fischi e le urla di un corteo di protesta dei metalmeccanici in sciopero contro un governo di Andreotti interamente democristiano e sostenuto dai comunisti con l’astensione. Che poi sarebbe paradossalmente diventato voto di fiducia vero e proprio a chiusura di una crisi aperta dallo stesso Berlinguer per far sentire di più il peso del suo partito nella cosiddetta maggioranza di “solidarietà nazionale”. Che era la versione riduttiva del “compromesso storico” proposto dal Pci per partecipare al governo, non per appoggiarlo da fuori.

         Grazie, carissimo Giorgio, di averci così tanto e così a lungo divertiti con la misura del tuo stile inconfondibile e  l’acutezza, ripeto, superiore a tante nostre  cronache, a tanti nostri retroscena, a tanti nostri editoriali. Grazie anche di avere a suo tempo rimproverato alla sinistra di essere stata l’unica ad attaccarlo e a creargli problemi.

Il sarcasmo…abituale di D’Alema contro Meloni, ed anche Schlein

         Avvolto nei suoi ricordi di presidente del Consiglio di ben due governi fra l’ottobre 1998, sostituendo Romano Prodi battuto in Parlamento, e l’aprile 2000, quando dovette passare la mano a un Giuliano Amato un po’ diverso, diciamo così, da quello che era già stato mandato a Palazzo Chigi su designazione però di Bettino Craxi, un ancora orgoglioso Massimo D’Alema si è vantato delle sue gesta di governo parlandone al Corriere della Sera in una intervista rovesciata ieri  su due pagine.

         L’ex premier ha rievocato, fra l’altro, i giorni in cui partecipò all’intervento della Nato nei Balcani e quelli in cui portò, sia pure per rotazione, l’Italia nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Un’Italia, insomma, che contava grazie a lui, sembra di capire dal racconto di D’Alema, che si è contrapposto sarcasticamente alla premier attuale Giorgia Meloni, accusata di una presenza, sì, sul piano internazionale, ma solo “infilandosi nelle foto” dei vertici: non dico da clandestina, senza permesso, ma quasi.

         Il sarcasmo dell’ex premier, arcinoto d’altronde ai cronisti, spesso incorsi anche loro nelle sue battute più o meno feroci raccogliendole, questa volta è stato a dir poco sfortunato. La lunga intervista, raccolta Aldo Cazzullo, si apre proprio evocando una foto in cui D’Alema è infilato, particolarmente a Pechino, fra gli invitati -credo a titolo personale- ad un raduno di vertice di ben “l’80 per cento dell’umanità”, ha detto “Baffino” gonfiandosi sin quasi a scoppiare come una rana. Un raduno di fronte al quale dovrebbero vergognarsi, secondo D’Alema ,gli assenti o perché non invitati, essendo evidentemente considerati irrilevanti a Pechino, o perché, pur invitati, non hanno capito l’importanza della Cina e se ne sono tenuti lontani. Compresa evidentemente la Meloni, che si sarebbe così persa l’occasione d’infilarsi in una foto davvero eccellente.

         Dalla vetta del suo sarcasmo D’Alema ha accettato, su domanda dell’intervistatore, di scendere anche sulle vicende del suo ritrovato Pd, da cui era uscito in odio all’allora segretario Matteo Renzi, ed è poi rientrato, alla caduta dell’infiltrato, pure lui, ed eventi successivi.

 La Schlein “ci sta mettendo passione e spirito unitario”, ha concesso D’Alema con insolita generosità alla segretaria del Pd, senza tuttavia riuscire ancora a fare “elaborare al partito una risposta ai problemi molto seri che abbiamo avanti”. Dal massimo della generosità, ripeto, al minimo valore, o voto. Peggio ancora di quanto vada dicendo e bofonghiando Prodi del Pd, della sua segretaria e degli aspiranti al campo più o meno largo della presunta, improbabile alternativa al centrodestra della Meloni.

Ripreso da http://www.startmag.it

La scommessa referendaria del no sulla fessaggine degli elettori

La filosofia del diritto, almeno ai mei tempi universitari, era una materia da primo anno di giurisprudenza, il cui esame gli studenti affrontavano    fra i primi trovando la materia forse più empatica che facile. Eppure di filosofia vedo ben poco, e quel poco alquanto sottosopra, nella campagna referendaria ormai in corso sulla riforma della giustizia -o della magistratura, come preferisce chiamarla con la sua esperienza Antonio Di Pietro- appena approvata dal Parlamento.

         Il no gridato e reclamato dall’associazione nazionale dei magistrati e dalle sue appendici politiche è spiegato addirittura enfatizzando la pericolosità dei pubblici ministeri con i quali i giudici vorrebbero continuare ad avere una carriera unica. La separazione renderebbe i magistrati d’accusa ancora più forti di adesso. E il governo -con un altro sospetto o ragionamento cervellotico- ne vorrebbe il rafforzamento, dietro un apparente ridimensionamento rispetto al famoso “giudice terzo e imparziale” introdotto 26 anni fa nell’articolo 111 della Costituzione, per poi impadronirsene e metterlo al proprio servizio con un’altra riforma, evidentemente. E così l’intero sistema giudiziario finirebbe alle dipendenze della politica dopo averla sovrastata per una trentina d’anni. Da quando cioè, per pubblica e insospettabile ammissione o denuncia dell’allora presidente della Repubblica, e del Consiglio Superiore della Magistratura, Giorgio Napolitano scrivendone alla vedova di Bettino Craxi, i rapporti fra politica e giustizia, o magistratura, concepiti dai costituenti e rimasti scritti sulla Carta, furono “bruscamente” cambiati.  E ciò all’ombra delle inchieste e dei processi sul finanziamento tanto illegale quanto diffuso dei partiti.

         Mi chiedo di fronte al cervellotico ragionamento dei magistrati associati, e dei loro corifei politici, sino a che punto costoro potranno e vorranno abusare dei loro interlocutori anche a livello referendario, cioè elettorale, potendosi e dovendosi risolvere un referendum, specie quello cosiddetto confermativo, e non abrogativo, contando i sì e i no, senza condizionamenti come una certa partecipazione o affluenza alle urne. Neanche i sofisti dell’antica Grecia, maestri di retorica e dialettica, erano arrivati a tanto.

         Questa di considerare gli elettori così sprovveduti, così fessi, diciamolo pure, è la cosa che più colpisce dell’approccio della magistratura associata e politicizzante, oltre che politicizzata, al referendum sulla riforma costituzionale della giustizia. La cui campagna impegnerà anche i giornali sino alla primavera prossima, in una delle domeniche possibili fra metà marzo e metà giugno. Più a marzo che a giugno, ha per fortuna anticipato il ministro Carlo Nordio senza incorrere fortunatamente, almeno sinora, a qualche nuovo attacco o esposto giudiziario, addirittura, di un avvocato fantasioso premiato da qualche procuratore della Repubblica generoso, a dir poco.

         La politica, come la rivoluzione, non è un pranzo di gala. D’accordo, pur senza spingerci alle immagini fognarie o mattatoriali usate una volta, nella cosiddetta prima Repubblica, dal socialista Rino Formica, che a quasi 100 anni -98, di preciso- ancora interviene nelle polemiche scrivendone in particolare su Domani. Ma anche in una simile visione cruenta, si dovrebbe avvertire un limite di buon senso e di buon gusto. E’ troppo chiederlo anche ai magistrati a corrente unica o separata, che rimanga o diventi?

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmg.it il 9 novembre

Il processo di Travaglio a Di Pietro per il suo sì alla riforma Nordio

         Asserragliato nel suo archivio come in trincea, senza neppure togliersi il casco trattandosi di una guerra di carta, Marco Travaglio ha sparato un po’ di proiettili o di chiodi contro Antonio Di Pietro, che una volta sommergeva di elogi e di ammirazione ospitandolo come un eroe alle feste del suo Fatto Quotidiano. Dove raccontavano in due, passandosi la palla, segreti e meraviglie di “mani pulite”. Così si chiamavano, e si chiamano ancora, le inchieste giudiziarie dei primi anni Novanta sull’abituale, generalizzato finanziamento illegale dei partiti e sulla corruzione che poteva averlo spesso, non sempre accompagnato, come da assoluzioni ottenute poi nei processi da parecchi imputati.

         A Di Pietro un Travaglio appuntito e, lo ammetto, documentatissimo dalla testa ai piedi, ha rinfacciato dichiarazioni e quant’altro, fra il 2000 e il 2013, contro la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Che oggi invece l’ex magistrato un po’ simbolo delle già ricordate “mani pulite” sta difendendo anche nella campagna referendaria ormai giù cominciata contro la riforma costituzionale della giustizia approvata dal Parlamento. O riforma della magistrratura, come preferisce definirla Di Pietro,  Una difesa animata, come tutte le cose di “Tonino”, tra parole, concetti e smorfie, dagli attacchi dell’associazione nazionale dei magistrati, di cui l’ex sostituto procuratore della Repubblica si vanta di non avere mai fatto parte, conoscendone la politicizzazione derivante dalle correnti simili a partiti.

         Pur con tutta la sua documentazione, o proprio a causa di essa, e con la vigilanza professionale che esercita, Travaglio alla fine della sua rassegna dei no di Di Pietro alla riforma che invece oggi sostiene, si è chiesto chi, come e perché abbia convinto del contrario l’ex magistrato. Al quale ha quindi negato la capacità, possibilità e quant’altro di cambiare opinione da solo. Magari convinto solo dagli errori, eccessi eccetera compiuti dagli ex colleghi almeno da dodici anni a questa parte, risalendo al 2013, ripeto, le sue ultime dichiarazioni contro la separazione delle carriere. Cui  si  è aggiunto dell’altro nella riforma intestatasi dal ministro della Giustizia Carlo Nordio –“Mezzolitro”, lo chiama il direttore del Fatto Quotidiano– e definita orgogliosamente “storica” dalla premier Giorgia Meloni.

         “Chissà cosa è successo”, si è chiesto Travaglio prima di firmarsi. E’ successo semplicemente, o odiosamente per il sorpreso, incredulo giornalista, che Di Pietro ci ha ripensato, essendo un uomo dotato di cervello e non un paracarri dotato solo di cemento, magari armato.  

Più che sui magistrati, si voterà su chi deve governare l’Italia

A prima vista, considerandone i titoli, il referendum in arrivo sulla giustizia si ricollega a quello del 1987 sulla responsabilità civile delle toghe. Per evitare il qualela Dc di Ciriaco De Mica provocò la crisi del governo di Bettino Craxi e la fece chiudere, con l‘aiuto del Pci di Alessandro Natta, con le elezioni anticipate.

Seguì il rinvio della prova referendaria, ma di pochi mesi, con uno strappo alla regola di almeno un anno imposto dal pur perdente Craxi. Che si prese la rivincita, con i radicali di Marco Pannella che lo avevano promosso assieme ai socialisti, vincendo il referendum voluto per far cessare il privilegio dei magistrati di non rispondere dei danni che procuravano.  Ma fu purtroppo una rivincita effimera, perché la irresponsabilità civile dei magistrati fu di fatto reintrodotta con una legge scrittasi dai magistrati al Ministero della Giustizia col permesso della buonanima del guardasigilli pur socialista Giuliano Vassalli.

         A prima vista, dicevo, si torna al 1987. Ma, se non ci si lascia distrarre dai titoli e si scende alla sostanza delle cose, il referendum in arrivo sulla riforma intestata a Carlo Nordio che la premier Giorgia Meloni ha giustamente definito “storica”, è paragonabile a quello del 1985 su tutt’altro argomento apparente: i tagli antinflazionistici alla scala mobile dei salari, apportati nel 1984 dal governo Craxi. Più che su quei tagli, peraltro modesti quantitativamente ma contestati dal Pci ancora di Enrico Berlinguer sino ad imporre al pur recalcitrante segretario generale della Cgil Luciano Lama la promozione di un referendum abrogativo, il referendum era su chi potesse e dovesse governare in Italia. Se il governo, appunto, in un sistema parlamentare, con la fiducia delle Camere, o per i temi sociali i sindacati e il Pci. Vinse l’anno dopo, anzi stravinse Craxi, con Berlinguer ormai morto.  Fra le poche località in cui Craxi non vinse cu fu Nusco, il paese irpino di De Mita, che nella campagna referendaria aveva speso poche parole, anzi nessuna.  

 Seguì una crisi irrecuperabile del Pci, finito poi fra le macerie del muro di Berlino pur dopo gli effimeri guadagni politici ricavati della rivoluzione giudiziaria delle cosiddette mani pulite.

         Meloni con questo referendum in arrivo, 40 anni dopo una stagione che la vedevano allora solo bambina, cresciuta però in fretta e abbastanza, intende ristabilire col referendum in arrivo chi governa in Italia in tutti i sensi: se il governo, appunto, o i magistrati e corifei che l’accusano di volere “pieni poteri”. Quelli che il primo sottosegretario della premier, Alfredo Mantovano, con l’esperienza che gli deriva anche dalla professione giudiziaria a lungo esercitata, ha spiegato bene in cinque minuti, l’altra sera con Bruno Vespa dopo il Tg1, detiene ed esercita invece la magistratura con la carriera unica di giudici e pubblici ministeri. E con il Consiglio Superiore della Magistratura praticamente gestito dalle correnti del sindacato-partito delle toghe, anche nei suoi aspetti disciplinari.

         E’ questa realtà, nella quale la magistratura è cresciuta dopo aver messo nell’angolo la politica una trentina d‘anni fa col pretesto di combattere la corruzione derivante direttamente o indirettamente dal finanziamento illegale dei partiti; è questa realtà, dicevo, che la Meloni ha deciso di mettere in discussione con la riforma appena approvata in Parlamento e col referendum che seguirà.  E lo ha fatto con più coraggio ancora di Craxi sul piano sociale e sindacale, perché questo referendum è confermativo, senza quorum e altre assicurazioni, e non abrogativo, come quello di 40 anni fa sui tagli alla scala mobile dei salari. Avete capito la premier, anzi il presidente del Consiglio come la Meloni vuole essere chiamata, al maschile? Cammina nella politica interna con lo stesso passo della politica estera. E il Pd cammina come il Pci del 1984-85, anche se la segretaria Elly Schlein mostra di non accorgersene. E fa spallucce a chi invece se ne accorge e lamenta al Nazareno e dintorni.

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