Il Controcorrente… largo di Cerno nel Giornale di Montanelli

         Incuriosito per ragioni affettive, diciamo così, avendovi lavorato per una decina d’anni dalla fondazione, imparando molto da un maestro come Indro Montanelli, ho aperto anche oggi per primo il Giornale che fu appunto di Montanelli e e da ieri è diretto da Tommaso Cerno. Che lodevolmente rispetto alle distrazioni dei suoi predecessori ha riportato il nome del fondatore al centro e sotto la testata, dove il compianto Indro di sicuro meritava, anzi merita.

         Ho scoperto o rilevato tuttavia che il famoso “Controcorrente”, che impreziosiva in qualche decina  di battute o spazi le prime pagine del Giornale montanelliano, e avevano la precedenza nella lettura specie dei leader politici, ai quali capitava spesso di esserne in qualche modo le vittime, è diventato non solo ieri ma anche oggi, quindi sistematicamemte, la corona, diciamo così, con foticina dell’autore, dell’editoriale quotidiano del nuovo direttore, nell’ ordine non di una decina ma di qualche migliaia di battute o spazi, ripeto. Oggi dedicate alle disavventure dell’incauta segretaria del Pd Elly Schlein, che voleva un po’ umiliare il suo concorrente Giuseppe Conte cercando un confronto diretto con la Meloni alla festa nazionale della destra e ne è stata invece travolta, o quasi.  

Di questa disavventura della Pulzella del Nazareno sono tentato -ma ve lo risparmio, per carità- di immaginare e proporre le poche, pochissime e urticanti righe, quattro o cinque, che le avrebbe dedicato Montanelli. Senza concederle l’editoriale di giornata.

Tra i fioretti della Meloni e gli inciampi della Schlein nelle sue stesse trappole

Per Giorgia Meloni è dunque tempo di fioretti come quello dell’astemia che pratica ogni anno in dicembre, sino a Natale, per guadagnarsi ulteriore fortuna, non essendole evidentemente bastata quella che l’ha portata dov’è: combattuta di certo dalle opposizioni politiche e togate in Italia ma apprezzata all’estero quanto meno per la sua “stabilità”, cioè durata.

Solerti cronisti si sono affrettati a raccogliere e rilanciare la notizia della sospensione alcolica della premier, pur con tutte le tentazioni che avrà a casa e fuori.

         Per Elly Schlein, la segretaria del Pd antagonista della premier nella prospettiva pur non ancora concreta, per ammissione di molti anche a sinistra, dell’alternativa al centrodestra è tempo piuttosto di trappole. Come quella tentata da lei stessa nei giorni scorsi ai danni di Giuseppe Conte reclamando un confronto a due con la Meloni alla festa nazionale della destra, e  costretta poi a rinunciarvi per l’allargamento del duello all’ex premier, e tuttora presidente del movimento 5 Stelle, posto come condizione dalla presidente del Consiglio per apparente questione di cortesia. In realtà, con una perfidia politica da vecchi tempi della Dc, o anche del Pci. La partita fra i due -Schlein e Conte, appunto- per la leadership dell’opposizione e dell’alternativa è infatti apertissima. E la Meloni ha declinato con astuzia il fischietto che la segretaria del Pd aveva cercato di infilarle fra le labbra per mandare in qualche modo Conte negli spogliatoi.

         Dopo essersi sottratta alla trappola rovesciata della partecipazione alla festa nazionale della destra meloniana, la Schlein non ha potuto sottrarsi, quanto meno per dovere di ufficio, a quella tesale sotto traccia a Montepulciano da un bel po’ di correnti e sottocorrenti del Pd, peraltro invitandola a concludere il loro convegno. E lei lo ha fatto togliendosi  il gusto di ritardarne il pranzo.

         La segreteria, più ancora della segretaria, del Pd è ormai più sotto assedio che sotto esame. Solo il buon Pier Luigi Bersani, fra le sue metafore e battute di una simpatia umana indiscussa, scommette ancora, come ha fatto di recente parlandone a Repubblica, sulla “generosità” in politica, fra amici di partito, concorrenti e addirittura rivali. In realtà, la politica è fra tutte la professione forse più dura, più logorante, più rischiosa, anche perché sempre più esposta a infiltrazioni. Quelle della magistratura sono ormai diventate frequenti anche per la sinistra, nonostante questa finga di non accorgersene, voltando per esempio la testa altrove quando vi si sono imbattuti il sindaco e la giunta di Milano ancora sotto schiaffo, per quanto con alcuni imputati la Procura della Repubblica sia già incorsa in clamorose smentite di giudici a carriera ancora unica.

         La Schlein anche o soprattutto dopo Montepulciano rischia di avere più problemi nel suo partito di quanto non gliene procuri Conte nel cosiddetto campo largo, o come diavolo finirà di chiamarsi come ha suggerito per ragioni forse scaramantiche il già citato simpaticissimo Bersani.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 7 dicembre

L’arrivo di Cerno e… il ritorno di Montanelli al Giornale

         Più dell’arrivo dal Tempo di Tommaso Cerno, sopravvissuto all’Espresso e all’esperienza di parlamentare del Pd dei tempi di Matteo Renzi, ho notato il ritorno del compianto Indro Montanelli come fondatore nella testata del Giornale. Un ritorno di cui Cerno nel suo editoriale di insediamento come direttore, succedendo ad un taciturno e malmostoso Alessandro Sallusti, si è voluto intestare il merito.

         “Essere liberali -ha scritto testualmente Cerno- non so cosa voglia dire, so però che per essere liberi si fa una gran fatica. E noi la faremo. Andremo laggiù, controcorrente. Per questo sotto la testata torna il nome di Indro Montanelli”. Che peraltro cominciava ogni giornata che il buon Dio gli regalava nell’avventura del Giornale, dopo il licenziamento dal Corriere della Sera e una breve ospitalità alla Stampa voluta personalmente dall’editore Gianni Agnelli, non trovava pace sino a quando non scorgeva l’argomento del suo  brevissimo Controcorrente in prima pagina. Dove – liquidava in poche battute il malcapitato di turno. O la situazione paradossale del giorno. Quelle poche parole o battute gli stavano più a cuore degli editoriali suoi o di altri. E gli procuravano le maggiori soddisfazioni. Ma anche i peggiori problemi, come quando colse in fallo l’allora segretario della Dc Flaminio Piccoli per “avere perduto la testa” in una riunione di partito e procurò brividi anche a Silvio Berlusconi. Che, da editore impegnato anche in altre attività, temendo ritorsioni mi telefonò in redazione, quasi disperato, per lamentarsene. E un po’ anche per legarsela al dito.

Ma per la rottura fra i due dovettero passare un bel po’ di anni, e di telefonate di sfogo, sino a quando la decisione dello stesso Berlusconi di fare politica e candidarsi direttamente persino alla guida del governo non si scontrò nel 1994 con la paura di Montanelli di perdere la propria libertà…. di indisciplina, chiamiamola così. Gi toccò di andarsene, sino a quando Cerno non gli ha oggi restituito i gradi di fondatore, appunto. La decisione potrebbe portargli fortuna.

La Pulzella del Nazareno nel pentolone delle correnti del Pd

Dall’emerso di Roma, dove si era consumato il suo doppio scontro con l’antagonista Giorgia Meloni e il concorrente Giuseppe Conte, al sommerso di Montepulciano. Dove la segretaria del Pd Elly Schlein è un po’ bollita, con disinvolta rassegnazione, nel pentolone delle correnti di un partito che adesso può ben essere considerato, sotto il profilo della convivenza interna, l’erede o persino la reincarnazione della Democrazia Cristiana. Dove erano abbondanti, appunto, le correnti e, non bastando, anche le sottocorrenti. O derivati ancora.

         Il patrimonio elettorale della Dc, per quanto ormai evanescente per i tanti, troppi anni trascorsi dal suo scioglimento telegrafato dall’ultimo segretario Mino Martinazzoli -fra le proteste paradossali di un Umberto Bossi che temeva di perdere l’osso che stava spolpando con la sua Lega- è ormai paragonabile in qualche modo a quello dei fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni. Paragonabile per consistenza e centralità di schieramento generale. Il patrimonio politico in senso lato, anche organizzativo e di costume, si è riprodotto nel Pd-ex Pci.

         Le stature di leader, comprimari, attori e comparse -si, pure loro- sono assai diverse. Non vedo francamente nel Pd emuli o solo paragonabili a uomini come Alide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani, Ciriaco De Mita, Carlo Donat-Cattin o, per scendere di qualche gradino, Mariano Rumor, Flaminio Piccoli, Emilio Colombo, Antonio Bisaglia, Benigno Zaccagnini. Ma vedo correnti e sottocorrenti, ripeto, di uguale quantità e fantasia. Che nacquero con caratteristiche e ambizioni culturali, sociali, a volte persino religiose, fra rosari e santini, e finirono nel personalismo, per quanto si ritenga che esso sia sopraggiunto solo dopo la cosiddetta prima Repubblica, con Silvio Berlusconi e i suoi emuli o eredi.

         Già negli anni Sessanta -ripeto, Sessanta- irruppero nelle carte geografiche della Dc gli “amici dell’onorevole Moro”, staccatisi dai dorotei di Rumor e Piccoli. Quasi contemporaneamente le Nuove Cronache di Fanfani, cresciute anche nella contemplazione di Giuseppe Dossetti e di Giorgio La Pira, si divisero tra amici ancora di Fanfani e amici di Forlani.

         Ora la Schlein nel Pd se la deve vedere, come una Pulzella del Nazareno, per quanto non credo destinata alla devozione di Giovanna d’Arco, con gli amici di Dario Franceschini, quelli di Andrea Orlando, quelli di Roberto Speranza e altri ancora. Ai quali la segretaria del partito, concludendone il raduno a Montepulciano, si è proposta in veste per niente sacrificale obbligandoli peraltro ad ascoltarla all’ora di pranzo.  Anche se è proprio il suo sacrificio che gli amici di….   hanno già messo nel conto dietro riverenze e abbracci. Un conto che è forse stato avvertito anche dal voluminoso Goffredo Bettini. Che, impegnato in questo momento alla rinascita della Rinascita storica e stampata del Pci di Palmiro Togliatti, non ha trovato il tempo di fare un salto pure lui a Montepulciano. Un Bettini riuscito così a rimanere nel fantomatico campo largo o santo dell’alternativa al centrodestra a mezza strada fra le ambizioni della Schlein e, fuori dal Pd, dello stimato Giuseppe Conte alla pur improbabile successione, in tempi brevi o medi, alla Meloni.

         Ma ancora più minacciose, o rischiose, sono state forse per la Pulzella del Nazareno le assenze da Montepulciano del presidente del partito Stefano Bonaccini, degli ex ministri Graziano Delrio e Lorenzo Guerini e altri animatori di raduni nella stessa Toscana.

         Ho la sensazione che il meglio della Schlein sia ormai alle sue spalle più che davanti. E sento, sotto sotto, per quanto in dissenso dalle sue ricette politiche e da un linguaggio ermetico deriso una volta da Lill Gruber pur nel suo ospitale salotto televisivo, quasi una voglia di aiutarla. O, quanto meno, di non infierire. Sarebbe come sparare sulla classica ambulanza della Croce Rossa.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.statmag.it il 6 dicembre

Saliscendi nei giornali della famiglia Angelucci

         Il saliscendi nei giornali della famiglia Angelucci si è formalizzato questa mattina col commiato di Tommaso Cerno dalla direzione e dai lettori del Tempo, il quotidiano romano fondato da Renato Angiolillo e passato, fra le altre, per le mani di Gianni Letta. Un commiato dai lettori e un saluto al successore Daniele Capezzone, che si trasferisce oggi dalla direzione editoriale di Libero, condotto però da Mario Sechi, alla direzione, appunto, del Tempo

Cerno invece passa alla direzione del Giornale che fu di Indro Montanelli: una successione tuttavia, in particolare ad Alessandro Sallusti, taciuta da Cerno nel suo commiato, sospetto con un certo imbarazzo. Che è anche quello di Sallusti, sottrattosi almeno oggi -chissà se anche domani- al rito del commiato. E non perché destinato, come gli aveva proposto l’editore, a rimanere al Giornale in veste di direttore editoriale, subentrando a Vittorio Feltri che Sechi avrebbe accolto volentieri al posto di Capezzone in partenza da Milano a Roma.

         No. Sallusti ha rifiutato. E non per ritirarsi a 69 anni non ancora compiuti, ma    per proseguire maggiormente il giornalismo televisivo che evidentemente gli piace di più. E gli dà maggiori soddisfazioni. E’ pur sempre piacevole, gratificante e quant’altro vedersi e sentirsi additato per strada, al bar, al ristorante, al cinema, se ci va ancora e non ha smesso di frequentare, come molti altri dai tempi del Covid costati la vita a parecchie sale di proiezione.

         Si, certo, nella esposizione da televisione si rischiano anche cattive sorprese. Come quella recentemente avuta da Vittorio Feltri, aggredito vicino casa da malintenzionati decisi a rubargli non qualche idea o battuta ma soldi. Egli è  uscito dall’aggressione centrando col cazzotto di un ultraottantenne ancora in forza lo sprovveduto giovanotto che lo minacciava più da vicino. Una lezione di difesa offerta gratuitamente e inconsapevolmente anche a Sallusti verso la conclusione del loro rapporto professionale agrodolce.

Il sistema Italia nel pantano dell’alluvione giudiziaria

Il fiume della magistratura ha ormai rotto gli argini. Persino la famiglia è stata allagata con la faccenda del bosco al quale quei due genitori avevano pensato di potere abituare anche i figli. Dal bosco alle banche, alle opere pubbliche grandi e piccole, straordinarie o ordinarie, all’edilizia, alla gestione dell’immigrazione clandestina, alla difesa, dove prima o poi, vedrete qualche Procura della Repubblica troverà il modo di intromettersi anche nel lavoro del ministro Guido Crosetto. Che peraltro è già finito di suo sotto l’attenzione di spie e spioni di cui la magistratura, costretta ad occuparsene, guarda caso, non è riuscita a venire a capo di niente.

         Sembra di stare in un’arena. La magistratura vi si muove come un toro, Che si sente provocato dalla riforma della magistratura, appunto, come andrebbe forse più propriamente chiamata, e la chiama un esperto della materia quale si sente Antonio Di Pietro, piuttosto che come riforma della giustizia comunemente definita nelle cronache. E reagisce, il toro, scalciando e caricando, ma con la via di uscita o di fuga o di vittoria garantita perché il torero è solo un fantasma. Vestito come un torero ma in realtà disarmato. E si vedrà nel referendum di primavera, dal suo esito, se osteggiato dagli spettatori, dalla folla.

         Anche la Repubblica delle Procure, come la chiamiamo criticamente da una trentina d’anni per l’esondazione ormai sistemica delle Procure della Repubblica, temo abbia fatto il suo tempo. Bisogna che c’inventiamo un’altra denominazione ancora per rappresentarla in modo appropriato.

         Com’è potuto accadere tutto questo, in fondo, solo in una trentina d’anni, e per giunta non tutti all’insegna della stessa maggioranza, ma in un succedersi di maggioranze, di sistemi elettorali, di partiti, di protagonisti, di attori? Alcuni persino remissivi pur investiti di larga fiducia popolare e appartenenti ad uno schieramento di garantisti come quel grande e simpatico signore che è Gabriele Albertini. Il quale ha raccontato personalmente, sino a vantarsene, di essersi voluto cautelare come sindaco di Milano con un rapporto addirittura “simbiotico” con la locale Procura della Repubblica. Uscendone indenne, ma esponendo le amministrazioni successive, di colore diverso e anche opposto, come quella attuale del sindaco Beppe Sala, al rischio di apparire agli occhi della magistratura una mezza associazione a delinquere. Una magistratura tuttavia che, pur criticata abbastanza chiaramente da Sala, ha conservato l’appoggio, la fiducia, persino la venerazione dei partiti del sindaco e degli assessori. Che, dal canto loro, se vogliono davvero amministrare, e non solo fingere di farlo, debbono scommettere sul soccorso dell’opposizione. Siano ormai al masochismo.

         Masochista è anche lo schieramento formatosi sul fronte del no al referendum sulla riforma già ricordata della magistratura. Dove si può capire di trovare ciò che resta del movimento  5 stelle già di Beppe Grillo e ora di Giuseppe Conte, che è diventato il partito di maggiore riferimento della magistratura militante. O la sinistra radicale che fa opposizione presentando ricorsi alla magistratura come giocando al lotto. Ma non si capisce la partecipazione di un Pd nel quale non a caso non si riconosce più, dolendosene pubblicamente, il presidente emerito, cioè ex, della Corte Costituzionale Augusto Barbera.  Che per fortuna da emerito, appunto, non rischia più nulla. Neppure un ricorso di Fratoianni, Bonelli e amici alla Procura.

         Ah, come rimpiango un altro emerito di nome Francesco e di cognome Cossiga. Che fu il primo, da ancora presidente della Repubblica, ad avvertire il potenziale eversivo, diceva lui, di una magistratura esondante e decise, poi vantandosene, per nulla pentito, di avere allertato un reparto antisommossa dei Carabinieri nei pressi del Consiglio Superiore della Magistratura, pronto a intervenire su un suo comando da capo delle Forze Armate se si fosse avventurato sulla strada di un processo surrettizio all’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Un processo che rischia ogni giorno adesso Giorgia Meloni rivendicando il diritto e il dovere di governare per sé e i suoi ministri, compreso naturalmente quello dell’Economia. 

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La scommessa di Bersani sulla “generosità”…di Conte

Pier Luigi Bersani, che mi riesce dannatamente simpatico anche quando non mi trovo d’accordo, con lui, con o senza le metafore che produce o replica nei salotti televisivi, fra mucche nei corridoi e nelle stanze del Pd, tacchini sui tetti, bambole da pettinare e giaguari da smacchiare sugli scogli come se fossero pinguini pluricolorati, si è appena guadagnato l’ironia del nostro Massimo Costa per la gara che ha aperto, in una intervista a Repubblica, su come chiamare  l’aspirazione       all’alternativa al centrodestra di Giorgia Meloni. Non certamente “campo largo” perché troppo “campestre”, per quanto in linea col richiamo alla natura agreste della quercia al posto della falce e martello, o dell’ulivo di Romano Prodi dal raccolto sempre magro, e dal sapore un po’ acido, data la durata abitudinariamente breve dei governi del professore, lesto a vincere su Berlusconi ma anche a cadere in Parlamento con inutili sfide ai numeri delle sue maggioranze.

         Ma più che sulla scommessa sul nuovo nome da dare, ripeto, all’ambizioso progetto dell’alternativa, mi ha colpito del penultimo Bersani – mettendone nel conto un altro, forse prima ancora della pubblicazione di questo articolo- la scommessa che ha fatto sulla “generosità” di amici e compagni per venire a capo anche del problema della leadership antimeloniana. Che è oggi contesa almeno fra la segretaria del pd Elly Schlein e il presidente del movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, per non scrivere e parlare di tutti gli altri che vengono fuori da cronache e retroscena come funghi dal bosco dopo una pioggia.

         Alla voce generosità corrisponde nel dizionario di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli “nobiltà d’animo che comporta il sacrificio dell’interesse o della soddisfazione personale di fronte al bene altrui”. Non quindi di fronte al bene generale, ma più semplicemente, banalmente “altrui”, cioè di un altro. Vasto programma, diceva dall’alto dei suoi quasi due metri di altezza la buonanima del generale e presidente francese Charles De Gaulle.

         Se non proprio al binomio volgare di “sangue e merda” evocato a suo tempo dall’allora ministro socialista Rino Formica per rappresentarla, la politica va quando meno abbinata quanto meno ad un pranzo per niente di gala. E’ lotta di forza e astuzia, generalmente senza sconti e senza gratitudine, che rimane “il sentimento del giorno prima”, come lo chiamò Enrico De Nicola. Figuriamoci quindi se si può scommettere, come vorrebbe Bersani, sulla generosità.  Che è qualcosa di privato, di intimo, non di pubblico o di politico.

         Anche Alcide Gasperi, di cui si ricorda sempre la rinuncia storica a usare da solo il grandissimo patrimonio elettorale della Dc nel 1948 preferendo governare con gli alleati di centro, non fu certo mosso dalla generosità. Piuttosto dalla lungimiranza, che coniugava e coniuga generosità e convenienza. Applicata poi al centrosinistra, con e senza trattino, alla “solidarietà nazionale” costata ad Aldo Moro persino la vita nel 1978, e alla stagione del pentapartito, estesa ai librali e troncata dal sostanziale ghigliottinamento giudiziario della cosiddetta prima Repubblica. Un’altra stagione, quella della ghigliottina, in cui nessuno praticò la generosità, tutti solo la convenienza.

         Stento francamente a immaginare, nonostante la bonomia di Bersani e le sue metafore ad una soluzione caritatevole dei problemi che angustiano il campo largo, o come altro finirà per essere chiamato seguendo gli auspici dell’ex segretario del Pd. Che a suo tempo, spiazzato dall’irruzione della comicità nella politica col successo delle 5 stelle grilline, si inventò da presidente del Consiglio incaricato -o “pre-incaricato”, come precisò il presidente della Repubblica Gorgio Napolitano passando ad un altro- il progetto di un governo di “minoranza e combattimento”. I grillini gli risero praticamente in faccia. Napolitano invece divenne ancora più calvo, pur rimanendo amico di Bersani.  E Bersani, credo, amico suo ed ex compagno.

Pubblicato sul Dubbio

Quegli occhi sempre puntati sul Quirinale di Sergio Mattarella

         Abbiamo rischiato un altro caso Garofani, ma più grave e clamoroso dell’altro chiuso con un chiarimento diretto fra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. E con la blindatura del consigliere del Capo dello Stato, Francesco Saverio Garofani appunto, sorpreso in un ristorante romano terrazzato con vista su Piazza Navona, a “chiacchierare” di politica -parola sua- con un po’ di amici tifosi della Roma calcistica.  E di come sventare, scongiurare e quant’altro la successione della Meloni a Mattarella fra quattro anni, quando scadrà il secondo mandato del presidente.

         Questa volta non Garofani ma lo stesso Mattarella è stato tirato in causa, in particolare dall’ex ministro Gianfranco Rotondi, irriducibile democristiano rifugiato parlamentarmente nei fratelli d’Italia della Meloni. Che ha raccontato ad Augusto Minzolini, un confessore laico notissimo nell’ambiente politico, di un incontro con ex deputati e senatori ai quali Mattarella avrebbe confidato la indisponibilità a controfirmare un’altra legge elettorale a ridosso di elezioni, ordinarie o anticipate che possano essere. In effetti -va riconosciuto- è una pratica che contrasta anche con direttive europee, o simili.

         Il Quirinale stavolta ha smentito seccamente con una lettera al Giornale senza farselo chiedere da nessuno, né in privato né in pubblico, magari fra quanti stanno lavorando neppure tanto dietro le quinte per varare l’ennesima riforma elettorale alla vigilia delle ennesime votazioni per il rinnovo delle Camere.

Per difetto di comunicazioni fra amici e colleghi di area, diciamo così, il direttore della Verità Maurizio Belpietro ha ignorato la smentita al Giornale e costruito sul racconto di Rotondi un’altra puntata di prima pagina sui “piani” d’intralcio del Quirinale contro percorsi, progetti, interessi di governo, veri o presunti sia gli uni che gli altri. Uno scoop improprio, diciamo così, moltiplicato dall’assenza in edicola di molti altri giornali per uno sciopero di protesta contro il mancato rinnovo, da una decina d’anni, del contratto di lavoro, ma un po’ anche contro il governo per la coincidenza col blocco del traffico locale ed altro motivato dai sindacati cosiddetti di base con argomenti contro la politica economica, sociale, internazionale della Meloni.

Il venerdì nero, anzi nerissimo, del giornalismo italiano

         Già infelicemente, a dir poco, programmato nello stesso giorno dello sciopero generale dei trasporti e altro contro il governo, scegliendo peraltro il solito venerdì di allungamento del week end, lo sciopero dei giornalisti per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro scaduto dieci anni fa avrebbe dovuto essere sospeso immediatamente alla notizia dell’assalto alla sede della Stampa a Torino, Che è stato compiuto da un centinaio di dimostranti staccatisi da un corteo di sostegno allo sciopero generale.  Dimostranti provvisti di letame e bastoni che hanno aggiunto alle motivazioni dell’ignobile iniziativa contro una redazione peraltro vuota proprio per lo sciopero dei giornalisti in corso la rivendicazione della liberta della Palestina dal Giordano al mare, con annessi e connessi. Compresa la difesa di un iman fondamentalista.

         Il sindacato dei giornalisti oltre alla protesta levatasi anche dalle istituzioni e dalla politica, avrebbe dovuto revocare lo sciopero per consentire anche solo simbolicamente, con poche copie di un numero straordinario dei giornali, a cominciare dalla stessa Stampa, la dignità e la forza della professione. Lo sciopero d’altronde aveva già diviso la categoria in numerose redazioni dove si è regolarmente lavorato non condividendo anche il momento scelto per l’astensione dal lavoro. Un momento di commistione per niente opportuna con una campagna in corso contro il governo che sfocerà in uno sciopero generale proclamato dalla Cgil per il 12 dicembre, sempre di venerdì. 

         Ma oltre che di venerdì, il 12 dicembre prossimo sarà il 54.mo anniversario preciso della famosa strategia della tensione esplosa con la bomba che provocò nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura 17 morti e 88 feriti. 

         Il calendario è semplicemente da brividi, nel quale è tanto incredibile quanto grave che il sindacato dei giornalisti sia finito coinvolto scioperando nel contesto, ripeto, di un’offensiva politica contro il governo. E ciò mentre la controparte dei giornalisti per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro è costituita non dal governo ma dagli editori. Non tutti, per giunta, perché tra di loro ce ne sono alcuni, come quello della Sicilia di Catania, difesi dai giornalisti rifiutando di scioperare. Con molti altri di testate di diffusione nazionale.  

         Quello appena trascorso può ben essere considerato e definito il venerdì nero del giornalismo italiano. Nerissimo.

Ripreso da http://www.startmag.it

Fra gli scacchi della Meloni e della Schlein e le mine di Conte

Seguivo ieri la cronaca quasi in diretta di Mario Sechi della partita a scacchi fra la premier Giorgia Meloni e la segretaria del Pd Elly Schlein e cercavo nei miei ricordi, di cui sono un po’ prigioniero, lo confesso, qualcosa che le assomigliasse. Una ricerca intensificata con la richiesta amichevole e incoraggiante del direttore di “storicizzare” lo scacco matto subìto dalla Schlein, che pensava di guadagnarsi con la partecipazione alla prossima festa nazionale della destra meloniana e il confronto diretto chiesto con la premier i gradi, diciamo così, di antagonista principale o addirittura solitaria, e si è invece procurata la conferma di un’aspirante alquanto improbabile a Palazzo Chigi.

         Ho cercato e ricercato nella memoria fra le tante crisi di governo e di partiti che mi è toccato di seguire, raccontare e commentare in una sessantina d’anni di professione, e non vi ho trovato, per brevità della partita e chiarezza del risultato, qualcosa di analogo.  La Meloni ha sorpassato persino il mio amico Pier Ferdinando Casini, celebrato ancora nella letteratura politica, fra interviste, chiacchierate e libri, come Piefurby, il campione cioè della furbizia, che lo ha portato a diventare il decano del Parlamento a 70 anni neppure compiuti. Li festeggerà fra pochi giorni, il 3 dicembre. Per cui profitto dell’occasione per fargli gli auguri e ricordarlo ancora quando mi raccontava con una mimica eccezionale le riunioni di corrente della Dc in cui riusciva con una battuta, o una domanda indiscreta, a far perdere letteralmente la testa all’allora segretario del partito Flaminio Piccoli, che già era un po’ fumantino di suo per carattere.

         Eppure di volate, inseguimenti, sgambetti, agguati e simili ne ho visti. Nella Dc di Casini, ripeto, ma soprattutto di Fanfani, Moro, Andreotti, De Mita, Donat-Cattin. Nel Pci, pur protetto dal famoso “centralismo democratico”, e dalla relativa disciplina, di Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Enrico Berlinguer, Alessandro Natta e Achille Occhetto, ultimo segretario. Non parliamo poi del Psi di Pietro Nenni, Giacomo Mancini,  Francesco De Martino e persino Bettino Craxi, in cui le correnti furono a tratti ancora più numerose ed effervescenti, a dir poco, di quelle della Dc di tre volte più votata. Persino nel Psdi di Giuseppe Saragat, nel Pri di Ugo La Malfa e nel Pli di Giovanni Malagodi le correnti facevano avvertire i loro spifferi e far saltare la pazienza ai rispettivi leader.

         Non parliamo neppure di tutti questi partiti alle prese non con qualcuna delle ricorrenti crisi interne o di governo, ma con le corse al Quirinale che finivano con l’elezione, spesso imprevista, di un Presidente della Repubblica, con tutte le maiuscole dovute, ma ricominciavano già il giorno dopo, o quasi, giusto per non far passare nella monotonia i sette anni del mandato. Arrivati al record di quattordici con Sergio Mattarella.

         Ma bando ai ricordi e alle chiacchiere. E vediamo con i piedi ben piantati nell’attualità l’effetto ottenuto dalla Meloni prima invitando la Schlein alla festa dei fratelli d’Italia, poi accettandone la sfida a un confronto in diretta, come se fosse- ripeto- la sua unica o principale antagonista,poi chiedendo di estendere per logica e cortesia il confronto anche a Giuseppe Conte, che a Palazzo Chigi già c’è stato due volte e vuole quanto meno tentare di tornarci, e infine provocando una specie di crisi di nervi politici -tutti politici, per carità- della segretaria del Pd. Che ha avvertito il rischio per niente “ridicolo”, come ha detto, di uscire malconcia da un confronto a tre e si è tirata indietro fra i sorrisi compiacuti e muti, naturalmente, del presidente del movimento 5 Stelle già su di giri per avere portato Roberto Fico alla presidenza della regione Campania in condizioni un po’ migliori, francamente, di Alessandra Todde in Sardegna l’anno scorso.

         Il campo largo già sgradito dal diffidente Conte, che lo vorrebbe solo “giusto” per le sue ambizioni politiche, è soprattutto un campo minato. Minatissimo.

Pubblicato su Libero

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