Il Controcorrente… largo di Cerno nel Giornale di Montanelli

         Incuriosito per ragioni affettive, diciamo così, avendovi lavorato per una decina d’anni dalla fondazione, imparando molto da un maestro come Indro Montanelli, ho aperto anche oggi per primo il Giornale che fu appunto di Montanelli e e da ieri è diretto da Tommaso Cerno. Che lodevolmente rispetto alle distrazioni dei suoi predecessori ha riportato il nome del fondatore al centro e sotto la testata, dove il compianto Indro di sicuro meritava, anzi merita.

         Ho scoperto o rilevato tuttavia che il famoso “Controcorrente”, che impreziosiva in qualche decina  di battute o spazi le prime pagine del Giornale montanelliano, e avevano la precedenza nella lettura specie dei leader politici, ai quali capitava spesso di esserne in qualche modo le vittime, è diventato non solo ieri ma anche oggi, quindi sistematicamemte, la corona, diciamo così, con foticina dell’autore, dell’editoriale quotidiano del nuovo direttore, nell’ ordine non di una decina ma di qualche migliaia di battute o spazi, ripeto. Oggi dedicate alle disavventure dell’incauta segretaria del Pd Elly Schlein, che voleva un po’ umiliare il suo concorrente Giuseppe Conte cercando un confronto diretto con la Meloni alla festa nazionale della destra e ne è stata invece travolta, o quasi.  

Di questa disavventura della Pulzella del Nazareno sono tentato -ma ve lo risparmio, per carità- di immaginare e proporre le poche, pochissime e urticanti righe, quattro o cinque, che le avrebbe dedicato Montanelli. Senza concederle l’editoriale di giornata.

Tra i fioretti della Meloni e gli inciampi della Schlein nelle sue stesse trappole

Per Giorgia Meloni è dunque tempo di fioretti come quello dell’astemia che pratica ogni anno in dicembre, sino a Natale, per guadagnarsi ulteriore fortuna, non essendole evidentemente bastata quella che l’ha portata dov’è: combattuta di certo dalle opposizioni politiche e togate in Italia ma apprezzata all’estero quanto meno per la sua “stabilità”, cioè durata.

Solerti cronisti si sono affrettati a raccogliere e rilanciare la notizia della sospensione alcolica della premier, pur con tutte le tentazioni che avrà a casa e fuori.

         Per Elly Schlein, la segretaria del Pd antagonista della premier nella prospettiva pur non ancora concreta, per ammissione di molti anche a sinistra, dell’alternativa al centrodestra è tempo piuttosto di trappole. Come quella tentata da lei stessa nei giorni scorsi ai danni di Giuseppe Conte reclamando un confronto a due con la Meloni alla festa nazionale della destra, e  costretta poi a rinunciarvi per l’allargamento del duello all’ex premier, e tuttora presidente del movimento 5 Stelle, posto come condizione dalla presidente del Consiglio per apparente questione di cortesia. In realtà, con una perfidia politica da vecchi tempi della Dc, o anche del Pci. La partita fra i due -Schlein e Conte, appunto- per la leadership dell’opposizione e dell’alternativa è infatti apertissima. E la Meloni ha declinato con astuzia il fischietto che la segretaria del Pd aveva cercato di infilarle fra le labbra per mandare in qualche modo Conte negli spogliatoi.

         Dopo essersi sottratta alla trappola rovesciata della partecipazione alla festa nazionale della destra meloniana, la Schlein non ha potuto sottrarsi, quanto meno per dovere di ufficio, a quella tesale sotto traccia a Montepulciano da un bel po’ di correnti e sottocorrenti del Pd, peraltro invitandola a concludere il loro convegno. E lei lo ha fatto togliendosi  il gusto di ritardarne il pranzo.

         La segreteria, più ancora della segretaria, del Pd è ormai più sotto assedio che sotto esame. Solo il buon Pier Luigi Bersani, fra le sue metafore e battute di una simpatia umana indiscussa, scommette ancora, come ha fatto di recente parlandone a Repubblica, sulla “generosità” in politica, fra amici di partito, concorrenti e addirittura rivali. In realtà, la politica è fra tutte la professione forse più dura, più logorante, più rischiosa, anche perché sempre più esposta a infiltrazioni. Quelle della magistratura sono ormai diventate frequenti anche per la sinistra, nonostante questa finga di non accorgersene, voltando per esempio la testa altrove quando vi si sono imbattuti il sindaco e la giunta di Milano ancora sotto schiaffo, per quanto con alcuni imputati la Procura della Repubblica sia già incorsa in clamorose smentite di giudici a carriera ancora unica.

         La Schlein anche o soprattutto dopo Montepulciano rischia di avere più problemi nel suo partito di quanto non gliene procuri Conte nel cosiddetto campo largo, o come diavolo finirà di chiamarsi come ha suggerito per ragioni forse scaramantiche il già citato simpaticissimo Bersani.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 7 dicembre

L’arrivo di Cerno e… il ritorno di Montanelli al Giornale

         Più dell’arrivo dal Tempo di Tommaso Cerno, sopravvissuto all’Espresso e all’esperienza di parlamentare del Pd dei tempi di Matteo Renzi, ho notato il ritorno del compianto Indro Montanelli come fondatore nella testata del Giornale. Un ritorno di cui Cerno nel suo editoriale di insediamento come direttore, succedendo ad un taciturno e malmostoso Alessandro Sallusti, si è voluto intestare il merito.

         “Essere liberali -ha scritto testualmente Cerno- non so cosa voglia dire, so però che per essere liberi si fa una gran fatica. E noi la faremo. Andremo laggiù, controcorrente. Per questo sotto la testata torna il nome di Indro Montanelli”. Che peraltro cominciava ogni giornata che il buon Dio gli regalava nell’avventura del Giornale, dopo il licenziamento dal Corriere della Sera e una breve ospitalità alla Stampa voluta personalmente dall’editore Gianni Agnelli, non trovava pace sino a quando non scorgeva l’argomento del suo  brevissimo Controcorrente in prima pagina. Dove – liquidava in poche battute il malcapitato di turno. O la situazione paradossale del giorno. Quelle poche parole o battute gli stavano più a cuore degli editoriali suoi o di altri. E gli procuravano le maggiori soddisfazioni. Ma anche i peggiori problemi, come quando colse in fallo l’allora segretario della Dc Flaminio Piccoli per “avere perduto la testa” in una riunione di partito e procurò brividi anche a Silvio Berlusconi. Che, da editore impegnato anche in altre attività, temendo ritorsioni mi telefonò in redazione, quasi disperato, per lamentarsene. E un po’ anche per legarsela al dito.

Ma per la rottura fra i due dovettero passare un bel po’ di anni, e di telefonate di sfogo, sino a quando la decisione dello stesso Berlusconi di fare politica e candidarsi direttamente persino alla guida del governo non si scontrò nel 1994 con la paura di Montanelli di perdere la propria libertà…. di indisciplina, chiamiamola così. Gi toccò di andarsene, sino a quando Cerno non gli ha oggi restituito i gradi di fondatore, appunto. La decisione potrebbe portargli fortuna.

La Pulzella del Nazareno nel pentolone delle correnti del Pd

Dall’emerso di Roma, dove si era consumato il suo doppio scontro con l’antagonista Giorgia Meloni e il concorrente Giuseppe Conte, al sommerso di Montepulciano. Dove la segretaria del Pd Elly Schlein è un po’ bollita, con disinvolta rassegnazione, nel pentolone delle correnti di un partito che adesso può ben essere considerato, sotto il profilo della convivenza interna, l’erede o persino la reincarnazione della Democrazia Cristiana. Dove erano abbondanti, appunto, le correnti e, non bastando, anche le sottocorrenti. O derivati ancora.

         Il patrimonio elettorale della Dc, per quanto ormai evanescente per i tanti, troppi anni trascorsi dal suo scioglimento telegrafato dall’ultimo segretario Mino Martinazzoli -fra le proteste paradossali di un Umberto Bossi che temeva di perdere l’osso che stava spolpando con la sua Lega- è ormai paragonabile in qualche modo a quello dei fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni. Paragonabile per consistenza e centralità di schieramento generale. Il patrimonio politico in senso lato, anche organizzativo e di costume, si è riprodotto nel Pd-ex Pci.

         Le stature di leader, comprimari, attori e comparse -si, pure loro- sono assai diverse. Non vedo francamente nel Pd emuli o solo paragonabili a uomini come Alide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani, Ciriaco De Mita, Carlo Donat-Cattin o, per scendere di qualche gradino, Mariano Rumor, Flaminio Piccoli, Emilio Colombo, Antonio Bisaglia, Benigno Zaccagnini. Ma vedo correnti e sottocorrenti, ripeto, di uguale quantità e fantasia. Che nacquero con caratteristiche e ambizioni culturali, sociali, a volte persino religiose, fra rosari e santini, e finirono nel personalismo, per quanto si ritenga che esso sia sopraggiunto solo dopo la cosiddetta prima Repubblica, con Silvio Berlusconi e i suoi emuli o eredi.

         Già negli anni Sessanta -ripeto, Sessanta- irruppero nelle carte geografiche della Dc gli “amici dell’onorevole Moro”, staccatisi dai dorotei di Rumor e Piccoli. Quasi contemporaneamente le Nuove Cronache di Fanfani, cresciute anche nella contemplazione di Giuseppe Dossetti e di Giorgio La Pira, si divisero tra amici ancora di Fanfani e amici di Forlani.

         Ora la Schlein nel Pd se la deve vedere, come una Pulzella del Nazareno, per quanto non credo destinata alla devozione di Giovanna d’Arco, con gli amici di Dario Franceschini, quelli di Andrea Orlando, quelli di Roberto Speranza e altri ancora. Ai quali la segretaria del partito, concludendone il raduno a Montepulciano, si è proposta in veste per niente sacrificale obbligandoli peraltro ad ascoltarla all’ora di pranzo.  Anche se è proprio il suo sacrificio che gli amici di….   hanno già messo nel conto dietro riverenze e abbracci. Un conto che è forse stato avvertito anche dal voluminoso Goffredo Bettini. Che, impegnato in questo momento alla rinascita della Rinascita storica e stampata del Pci di Palmiro Togliatti, non ha trovato il tempo di fare un salto pure lui a Montepulciano. Un Bettini riuscito così a rimanere nel fantomatico campo largo o santo dell’alternativa al centrodestra a mezza strada fra le ambizioni della Schlein e, fuori dal Pd, dello stimato Giuseppe Conte alla pur improbabile successione, in tempi brevi o medi, alla Meloni.

         Ma ancora più minacciose, o rischiose, sono state forse per la Pulzella del Nazareno le assenze da Montepulciano del presidente del partito Stefano Bonaccini, degli ex ministri Graziano Delrio e Lorenzo Guerini e altri animatori di raduni nella stessa Toscana.

         Ho la sensazione che il meglio della Schlein sia ormai alle sue spalle più che davanti. E sento, sotto sotto, per quanto in dissenso dalle sue ricette politiche e da un linguaggio ermetico deriso una volta da Lill Gruber pur nel suo ospitale salotto televisivo, quasi una voglia di aiutarla. O, quanto meno, di non infierire. Sarebbe come sparare sulla classica ambulanza della Croce Rossa.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.statmag.it il 6 dicembre

Saliscendi nei giornali della famiglia Angelucci

         Il saliscendi nei giornali della famiglia Angelucci si è formalizzato questa mattina col commiato di Tommaso Cerno dalla direzione e dai lettori del Tempo, il quotidiano romano fondato da Renato Angiolillo e passato, fra le altre, per le mani di Gianni Letta. Un commiato dai lettori e un saluto al successore Daniele Capezzone, che si trasferisce oggi dalla direzione editoriale di Libero, condotto però da Mario Sechi, alla direzione, appunto, del Tempo

Cerno invece passa alla direzione del Giornale che fu di Indro Montanelli: una successione tuttavia, in particolare ad Alessandro Sallusti, taciuta da Cerno nel suo commiato, sospetto con un certo imbarazzo. Che è anche quello di Sallusti, sottrattosi almeno oggi -chissà se anche domani- al rito del commiato. E non perché destinato, come gli aveva proposto l’editore, a rimanere al Giornale in veste di direttore editoriale, subentrando a Vittorio Feltri che Sechi avrebbe accolto volentieri al posto di Capezzone in partenza da Milano a Roma.

         No. Sallusti ha rifiutato. E non per ritirarsi a 69 anni non ancora compiuti, ma    per proseguire maggiormente il giornalismo televisivo che evidentemente gli piace di più. E gli dà maggiori soddisfazioni. E’ pur sempre piacevole, gratificante e quant’altro vedersi e sentirsi additato per strada, al bar, al ristorante, al cinema, se ci va ancora e non ha smesso di frequentare, come molti altri dai tempi del Covid costati la vita a parecchie sale di proiezione.

         Si, certo, nella esposizione da televisione si rischiano anche cattive sorprese. Come quella recentemente avuta da Vittorio Feltri, aggredito vicino casa da malintenzionati decisi a rubargli non qualche idea o battuta ma soldi. Egli è  uscito dall’aggressione centrando col cazzotto di un ultraottantenne ancora in forza lo sprovveduto giovanotto che lo minacciava più da vicino. Una lezione di difesa offerta gratuitamente e inconsapevolmente anche a Sallusti verso la conclusione del loro rapporto professionale agrodolce.

Il sistema Italia nel pantano dell’alluvione giudiziaria

Il fiume della magistratura ha ormai rotto gli argini. Persino la famiglia è stata allagata con la faccenda del bosco al quale quei due genitori avevano pensato di potere abituare anche i figli. Dal bosco alle banche, alle opere pubbliche grandi e piccole, straordinarie o ordinarie, all’edilizia, alla gestione dell’immigrazione clandestina, alla difesa, dove prima o poi, vedrete qualche Procura della Repubblica troverà il modo di intromettersi anche nel lavoro del ministro Guido Crosetto. Che peraltro è già finito di suo sotto l’attenzione di spie e spioni di cui la magistratura, costretta ad occuparsene, guarda caso, non è riuscita a venire a capo di niente.

         Sembra di stare in un’arena. La magistratura vi si muove come un toro, Che si sente provocato dalla riforma della magistratura, appunto, come andrebbe forse più propriamente chiamata, e la chiama un esperto della materia quale si sente Antonio Di Pietro, piuttosto che come riforma della giustizia comunemente definita nelle cronache. E reagisce, il toro, scalciando e caricando, ma con la via di uscita o di fuga o di vittoria garantita perché il torero è solo un fantasma. Vestito come un torero ma in realtà disarmato. E si vedrà nel referendum di primavera, dal suo esito, se osteggiato dagli spettatori, dalla folla.

         Anche la Repubblica delle Procure, come la chiamiamo criticamente da una trentina d’anni per l’esondazione ormai sistemica delle Procure della Repubblica, temo abbia fatto il suo tempo. Bisogna che c’inventiamo un’altra denominazione ancora per rappresentarla in modo appropriato.

         Com’è potuto accadere tutto questo, in fondo, solo in una trentina d’anni, e per giunta non tutti all’insegna della stessa maggioranza, ma in un succedersi di maggioranze, di sistemi elettorali, di partiti, di protagonisti, di attori? Alcuni persino remissivi pur investiti di larga fiducia popolare e appartenenti ad uno schieramento di garantisti come quel grande e simpatico signore che è Gabriele Albertini. Il quale ha raccontato personalmente, sino a vantarsene, di essersi voluto cautelare come sindaco di Milano con un rapporto addirittura “simbiotico” con la locale Procura della Repubblica. Uscendone indenne, ma esponendo le amministrazioni successive, di colore diverso e anche opposto, come quella attuale del sindaco Beppe Sala, al rischio di apparire agli occhi della magistratura una mezza associazione a delinquere. Una magistratura tuttavia che, pur criticata abbastanza chiaramente da Sala, ha conservato l’appoggio, la fiducia, persino la venerazione dei partiti del sindaco e degli assessori. Che, dal canto loro, se vogliono davvero amministrare, e non solo fingere di farlo, debbono scommettere sul soccorso dell’opposizione. Siano ormai al masochismo.

         Masochista è anche lo schieramento formatosi sul fronte del no al referendum sulla riforma già ricordata della magistratura. Dove si può capire di trovare ciò che resta del movimento  5 stelle già di Beppe Grillo e ora di Giuseppe Conte, che è diventato il partito di maggiore riferimento della magistratura militante. O la sinistra radicale che fa opposizione presentando ricorsi alla magistratura come giocando al lotto. Ma non si capisce la partecipazione di un Pd nel quale non a caso non si riconosce più, dolendosene pubblicamente, il presidente emerito, cioè ex, della Corte Costituzionale Augusto Barbera.  Che per fortuna da emerito, appunto, non rischia più nulla. Neppure un ricorso di Fratoianni, Bonelli e amici alla Procura.

         Ah, come rimpiango un altro emerito di nome Francesco e di cognome Cossiga. Che fu il primo, da ancora presidente della Repubblica, ad avvertire il potenziale eversivo, diceva lui, di una magistratura esondante e decise, poi vantandosene, per nulla pentito, di avere allertato un reparto antisommossa dei Carabinieri nei pressi del Consiglio Superiore della Magistratura, pronto a intervenire su un suo comando da capo delle Forze Armate se si fosse avventurato sulla strada di un processo surrettizio all’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Un processo che rischia ogni giorno adesso Giorgia Meloni rivendicando il diritto e il dovere di governare per sé e i suoi ministri, compreso naturalmente quello dell’Economia. 

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