La cartellonistica parlamentare del no smentita anche da Paolo Mieli

         Bilancio, manovra finanziaria, legge di stabilità, o comunque vogliamo chiamarla, è dunque passata al Senato fra i cartelli delle opposizioni contro il “Voltafaccia Meloni” e alla Camera, ieri, contro il “Disastro Meloni”.

         Questa cartellonistica parlamentare ha eccitato fantasia, passione e quant’altro in onda su la 7, dove ieri sera conduttori e un’ospite a distanza, collegata da Berlino, hanno cercato di sviluppare il concetto con “corsivi” -come li ha chiamati Luca Telese- fatti di spezzoni di comizi e simili della premier degli anni in cui diceva, proclamava, reclamava cose non solo mancate nella sua azione di governo, ma clamorosamente contraddette.  

         Paolo Mieli, l’ospite più autorevole, diciamo così, per la sua storia professionale di giornalista, storico e scrittore, peraltro presente nello studio con quella faccia e quel profilo simpaticamente somigliante sempre più al compianto Alfred Hitchcock, o come diavolo si scrive; Paolo Mieli, dicevo, si è messo di traverso. E, contestando pure un sondaggio riferito in chiave se non critica almeno problematica sulla tenuta del gradimento del governo pur tra i più longevi della Repubblica, prossimo a sorpassare anche l’unico che ancora gli resiste, ha difeso la Meloni. Che pure egli non ha votato. E penso che non la voterà neppure la prossima volta, avendo ripetutamente espresso simpatia, o qualcosa di simile, per la segretaria in carica del Pd Elly Schlein. Alla quale ogni tanto manda pubblici messaggi di incoraggiamento e anche qualche consiglio, pur sapendo che quella fa sempre di testa sua spazientendo anche Romano Podi. Che ne è pubblicamente seccato.

         Della Meloni, in particolare, Mieli ha appezzato, oltre alla “longevità” del suo primo governo, il credito che è riuscita a conquistarsi sul piano internazionale e il “realismo” col quale ha saputo rinunciare a certi obiettivi che ogni opposizione si propone per prendere voti  e poi, quando le capita di governare, deve disattendere per rispettare il Mercato, al plurale e al singolare, le agenzie estere di valutazione, i trattati e, più in generale, il buon senso.

         Insomma Mieli, elettore ed estimatore -ripeto- di Elly Schlein, ha fatto l’elogio della “incoerenza”, come lui stesso l’ha chiamata prendendola in prestito dalle opposizioni. Se la trasmissione in onda fosse durata un po’ di più, il mio amico Paolo si sarebbe forse spinto sino all’elogio della follia, già fatto in un saggio nel 1511 da Erasmo da Rotterdam. Dal quale Silvio Berlusconi si vantava di essere stato ispirato scendendo, come diceva, in politica e rimanendovi sino alla morte, non risparmiandosi neppure la nascita del governo Meloni. Dove la sua Forza Italia è ancora rappresentata fra qualche borbottio, diciamo così, interno dal vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri conservando  il suo ruolo apicale nel partito.

Quello sbotto di fine dell’anno di Antonio Tajani in Forza Italia

Nei tempi e nei modi che gli sono propri, non lenti ma moderati, appresi in una trentina d’anni di politica in cui è salito persino alla presidenza del Parlamento europeo, dove si arriva peraltro eletto con i voti di preferenza, non per l’ordine di lista confezionato dai segretari dei partiti, Antonio Tajani è sbottato contro la palude nella quale vogliono infilarlo amici veri o presunti di partito. Che vorrebbero ringiovanimento, vigore, strappi e altro ancora in Forza Italia: dai figli di primo e secondo letto della buonanima del fondatore Silvio Berlusconi alla sua penultima fidanzata Francesca Pascale. Che, parlandone al Corriere della Sera, me ha reclamato le dimissioni senza giri di parole.

         Ebbene, come per dire di ritenere colma la misura, e parlandone anche lui al Corriere della Sera a conclusione di una lunga intervista sui suoi impegni internazionali di governo, fra guerre che continuano e paci o solo tregue che ritardano, ha detto: “Non c’è partito che più di noi (cioè, di Forza Italia) non sia per la libertà. E non solo ci abbiano scritto un manifesto dei nostri valori a settembre scorso, ma faremo tre manifestazioni a metà gennaio a Milano, Napoli e Roma sui nostri valori che trasformiamo in azioni concrete”. E lì ad elencare temi, iniziative, cose ottenute anche nella confezione sempre affannosa della legge di bilancio o manovra finanziaria. 

         “Eppure -gli ha chiesto impietosamente Paola Di Caro pur facendogli la cortesia di parlare al plurale almeno all’inizio- vi dicono che crescete poco, dovete allargarvi. Lei potrebbe cedere il suo posto (di segretario del partito) per dare una scossa?”. “Forza Italia -ha risposto Tajani- è cresciuta elezione dopo elezione, gli stimoli sono sempre positivi ma la realtà è questa. Nuovi volti ne abbiamo, siamo aperti a chiunque voglia essere protagonista, Oggi abbiano 250 mila iscritti, una classe dirigente eletta dalla base. Questo è un vero partito”.

Per cortesia, garbo e simili Tajani ha omesso di ricordare che gli iscritti ereditati da Silvio Berlusconi erano 60 mila, come l’8 per cento dei voti nelle elezioni politiche del 2022, largamente sorpassato dalla destra di Meloni, come nelle elezioni precedenti dalla Lega di Matteo Salvini, autorizzato dallo stesso Berlusconi ad una breve libera uscita come vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno del primo governo di Giuseppe Conte.

         Vorrei personalmente esortare Tajani a consolarsi di certe amarezze che gli riservano, a dir poco, le cronache interne, reali o immaginarie, del suo partito che Forza Italia era appena nata, agli inizi del 1994, quando uno dei suoi fondatori come Marcello Dell’Utri scherzò propendo di chiamarla “Salva Italia” per i troppi consigli alla prudenza, alla moderazione e quant’altro che giungevano a Berlusconi dal pur amico -anche suo, di Dell’Utri- di nome Gianni e di cognome Letta. Che è ancora in campo da quelle parti quanto memo come consigliere emerito.  Forse anche dello stesso Tajani, oltre che dei familiari del compianto Berlusconi.

Pubblicato sul Dubbio

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