La guerra accanita, per quanto di carta, di Matteo Renzi a Giorgialand

         Anche se l’ironia può sembrare blasfema in questi tempi, mentre si combatte spietatamente e davvero in troppi posti nel mondo, si può dire che ognuno ha e fa le sue guerre. Quella di Matteo Renzi, da lui stesso raccontata con un certo vanto in poco meno di due pagine e mezza sul Foglio preconfezionato dell’ultimo lunedì di quest’anno, è contro Giorgialand. La terra di Giorgia Meloni, della quale all’ex presidente del Consiglio, già segretario del Pd e ora solo di Casa Riformista- ex Italia Viva, non piace politicamente e persino toponomasticamente nulla. A cominciare dal nome della strada romana -Via della Scrofa- dove si trova la sede nazionale dei Fratelli d’Italia e versioni precedenti.  

         E’ un po’ come se al Pci di Togliatti, di Longo, di Berlinguer, di Natta e di Occhetto avessimo contestato la Via delle Botteghe Oscure dove ne esisteva la sede. Oscure come tante cose e scelte di quella forza politica avvolta nella disciplina del famoso centralismo democratico .

         La Giorgialand che toglie il sonno e il buon umore a Renzi va demolita come Cartagine ai tempi dei romani antichi. Demolita prima che finisca per appartenerle anche il Quirinale, dove siede da dieci ami il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che Renzi è orgoglioso di avere personalmente spinto verso il Colle nel 2015 da presidente del Consiglio, preferendolo a Massimo D’Alema che anche Silvio Berlusconi dall’opposizione era disposto a votare.

         “Se il centrosinistra parla di tasse  e  di sicurezza”, magari badando a diminuire davvero le prime e ad aumentare la seconda, anziché viceversa, “Meloni va a casa. Se il centrosinistra si fa guidare da Francesca Albanese e da Ilaria Salis, Meloni va al Quirinale”, ha scritto Renzi concludendo il suo lungo manifesto, chiamiamolo così.

 Ossessionato da questo rischio, l’ex premier partecipa ben volentieri al cosiddetto campo largo della sinistra dove sono di casa proprio l’Albanese fanatica della Palestina di Hamas, pur fra crescenti malumori nel Pd, e la Salis fanatica delle case occupate e simili.

         Claudio Petruccioli, che ha confessato di votare ancora per il Pd senza saper capire e spiegare bene le ragioni, ha appena proposto in una intervista al Dubbio la ricostituzione della Margherita dei tempi di Francesco Rutelli e Franco Marini per attirare i voti moderati preclusi alla Schlein? Renzi ha risposto chiamando anche Margherita 4.0 la sua Casa Riformista. E spiegando che, male che vada, non col 4 per cento ma anche solo col 2 per cento egli potrebbe contribuire in modo decisivo alla demolizione di Giorgialand.

         In un eccesso di spirito, sarcasmo e quant’altro Renzi ha rimproverato ai  leghisti, che tanto hanno influito sul  bilancio in uscita anche dalla Camera, di non avere preteso il trasporto in Italia delle 2000 tonnellate e più di oro di casa  custodite da troppo tempo nei forzieri americani. Gli è sfuggito che ad avere avuto questa idea, e ad averla lanciata in una intervista, è stato di recente, diffidando di Trump, l’ex premier italiano di centrosinistra  Romano Prodi. A ciascuno il suo merito, per favore, anche in Giorgialand.

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Il 2026 prevedibilmente orribile della sinistra italiana e contorni

Giorni e ore di bilancio – e non solo per l’omologa legge in uscita anche dalla Camera, nello stesso testo appena ricevuto dal Senato- questi che ci separano dalla fine del 2025. Ma anche, o soprattutto, giorni e ore di previsioni, auspici e malauguri, naturalmente, secondo gusti e appartenenze politiche, per l’anno nuovo. Il 2026, per esempio, che le opposizioni, pur divise come al solito anche sui temi della giustizia, in particolare il Pd, sognano nero di pece per la riforma costituzionale della magistratura -come la chiama, compiaciuto, l’insospettabile Antonio Di Pietro- sotto verifica referendaria.

         La premier Giorgia Meloni, diversamente da Matteo Renzi una decina d’anni fa per una riforma costituzionale più ampia e organica, non ne ha fatto e non ne fa una questione personale. Ha già avvertito che non sono in gioco né lei, né il governo, né il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Che Marco Travaglio sogna goliardicamente, diciamo così, di vedere affogato nel “mezzolitro”, tutta una parola, di vino o nel “fiasco”, sempre di vino, che gli ha assegnato come soprannome.

         Ma da questo orecchio le opposizioni non ascoltano. Del resto, non c’è più sordo di chi non vuole ascoltare, dice un vecchio proverbio. Il sempre vigile, dichiarante e battutista capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia predice ogni volta che ne ha l’occasione effetti irrimediabili sul governo qualora la riforma Nordio, chiamiamola così, più brevemente ancora della magistratura chiamata in causa da Di Pietro non dovesse superare il referendum: Del quale però, più cautamente, amici e compagni di Boccia vorrebbero ritardare al massimo la data ammettendo che al no mancano ancora troppi punti per vincere. E scommettendo di poter essere aiutati dal tempo. Ma -temo per loro- con una certa imprudenza perché col tempo crescono anche le occasioni di autorete dei magistrati asserragliati nella difesa delle loro cattive abitudini, consolidatesi dopo gli straripamenti negli anni di “mani pulite”, una trentina d’anni fa. Quando si verificò “un brusco cambiamento degli equilibri” fra politica e giustizia certificato nella famosa lettera inviata su carta intestata, e diffusa pubblicamente, dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla vedova di Bettino Craxi nel decimo anniversario della morte del marito in terra tunisina.

         E’ una lettera, quella o questa di Napolitano, per il valore anche etico e attuale che mantiene, che non deve avere convinto l’ex ministra Rosy Bindi, la frontwomen della campagna referendaria del no, che va rappresentando la riforma sotto verifica referendaria come un attacco agli equilibri costituzionali, non come un loro ristabilimento. Peccato che Napolitano sia morto e non possa difendersi.

         Scrivevo delle brutte abitudini dei magistrati e delle occasioni che non si lasciano scappare per deludere da chi aspetta da loro un po’ di razionalità. Non dico di più. Come quella appena negata dal capo della Procura nazionale  antiterrorismo e da quello della Procura di Genova che hanno fatto seguire all’operazione appena condotta da loro colleghi contro i fiancheggiatori, a dir poco, del terrorismo targato Hamas la precisazione che i veri “criminali” a Gaza e dintorni sono gli israeliani, con la loro pretesa di reagire agli attacchi, di difendersene e di prevenirne di nuovi.

         Il 2026 non sarà comunque solo l’anno politicamente significativo del referendum sui magistrati. Sarà l’anno anche della riforma del premierato, che le opposizioni da un po’ di tempo-com’era del resto accaduto pure per l’altra- immaginano dimenticata o abbandonata dalla Meloni. E che invece arriverà, per l’’elezione difetta del  presidente del Consiglio, come nei piani della premier. Una riforma che ha per la sinistra l’inconveniente non di un depotenziamento del Presidente della Repubblica eletto invece dal Parlamento, ma più semplicemente e banalmente, come preferite, quello di doversi dare un leader  prima del voto, fra i tanti che, veri o presunti, vi ambiscono col risultato che l’alternativa non ne ha, in realtà, nessuno degno di questo nome.

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