La partita continua del gatto e del topo, cioè di Trump e Zelensky

         Scusatemi la franchezza che manca a lor signori, come la buonanima di Fortebraccio chiamava ai tempi d’oro dell’Unità, organo ufficiale del Pci,  scrivendo di quelli che non gli piacevano, saldi nel potere e nella ricchezza. Ma più vedo le foto degli incontri fra Trump e Zelensky, in varie località e modi, dalla Casa Bianca alla Basilica di San Pietro e ora nella residenza privata del presidente americano, dalle porte che sembrano monumenti funerari, più penso al gatto e al topo. Il primo è naturalmente Trump, il secondo Zelensky, che finge sempre meglio la soddisfazione di essere scampato alla caccia di turno stringendo mani, sorridendo ai fotografi e alle telecamere e telefonando poi agli amici di vertice dell’Unione Europea per rinnovare richieste di aiuti necessari a sopravvivere anche al turno successivo di questa partita senza fine.

         Trump invece prima e dopo l’incontro appunto avuto con Zelensky, al quale è riuscito a fare indossare una giacca, sia pure di taglio anch’esso militare, al posto della solita, vecchia tenuta d’ordinanza, ha telefonato  a Putin. Che è il gatto a distanza, quello di riserva o complementare, al quale manca sempre qualcosa per ritenersi appagato dei quattro anni di guerra aperta contro l’Ucraina come “operazione speciale”. E continua ad ordinare o a lasciare ordinare ogni giorno che passa, anche quello di Natale e prossimo di Capodanno, sventagliate di missili e droni contro obiettivi civili della “martoriata Ucraina” di definizione pontificia. Ma Trump ha ricordato, per attenuarne o giustificarne la portata, i missili, i droni e gli attentati ricambiati dagli ucraini, ostinati nella difesa pur non disponendo più di Biden alla Casa Bianca ma facendo affidamento sui vertici europei che non lo mollano.

         Non è, francamente, uno spettacolo esaltante, anche se qualcuno continua ottimisticamente a sentirsi sempre alla vigilia dell’accordo con quel 5 per cento, poco meno o poco più., che manca sempre almeno a una tregua.  

Spine e chiodi di fine anno per Antonio Tajani in Forza Italia

         Prima i figli di primo letto Marina e Pier Silvio auspicando un ringiovanimento del patito fondato dal padre e rimasto appeso ai suoi debiti con la famiglia, poi la figlia di secondo letto Barbara dicendo che nessuno, proprio nessuno, evidentemente neppure i suoi fratelli, è all’altezza  politica del padre, ora anche la penultima fidanzata di Silvio Berlusconi, Francesca Pascale, che si sta godendo le ricchezze da lui avute  già prima della morte, durante i 15 anni di convivenza, sparano mediaticamente contro Antonio Tajani. Settantadue anni compiuti in agosto, dei quali 29 trascorsi alle dipendenze dirette dello scomparso ex presidente del Consiglio. Dirette, ripeto, pur svolgendo il subordinato funzioni istituzionali di rilievo come, in ordine cronologico, europarlamentare, commissario europeo, vice presidente della stessa Commissione, a Bruxelles, vice presidente prima e presidente poi del Parlamento a Strasburgo, vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri in Italia. Indaffaratissimo in questi giorni tra guerre e trattative.

         Quella di Tajani, proveniente dal giornalismo neppure tanto di prima linea, non avendo mai diretto un quotidiano, è una carriera che sembra, a torto o a ragione, impensierire anche per il futuro gli eredi familiari del “dottore”, come lo stesso Silvio Berlusconi veniva chiamato prima di aggiudicarsi i titoli a vita di “Cavaliere” e di “Presidente”.

         In effetti a Tajani potrebbe accadere -o avrebbe potuto, coi tempi che corrono adesso dalle sue parti- di salire formalmente, nelle gerarchie costituzionali, alla presidenza della Camera nella prossima legislatura e da lì salire ancora al Quirinale, succedendo nel 2029 a Sergio Mattarella, se non dovesse farcela Giorgia Meloni, quirinabile fra due anni per età anagrafica, ma a rischio di una vecchia regola delle corse al Colle sfavorevole alle figure politiche troppo forti. Giovanni Leone arrivò sul Colle  al posto di Fanfani o di Moro nel 1971. Sandro Pertini al posto di Nenni o di De Martino nel 1978. Francesco Cossiga al posto di Arnaldo Forlani nel 1985. Oscar Luigi Scalfaro al posto sempre di Forlani o di Andreotti nel 1992. Carlo Azeglio Ciampi al posto di Massimo D’Alema nel 1999. Giorgio Napolitano al posto sempre di D’Alema nel 2006. Sergio Mattarella nel 2015 al posto sempre di D’Alema, per il quale era ponto a votare anche Silvio Berlusconi avendo l’imprudenza di dirlo direttamente e personalmente all’allora presidente del Consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi.

         “Tajani è inadeguato e dovrebbe solo dimettersi”, ha detto al Corriere della Sera Francesca Pascale parlandone come segretario di Forza Italia e aggiungendo che le “piacerebbe che Marina e Pier Silvio entrassero a gamba tesa nel partito”,  non bastando evidentemente ciò che già stanno dicendo e anche facendo.

         Di Giorgia Meloni la Pascale ha parlato come di “una donna vincente”, orgogliosa di averla vista crescere già ai tempi della sua convivenza con Berlusconi, mentre un rosicone Maurizio Gasparri lasciava la destra “tradendo Fini” proprio per insofferenza contro quella giovane rampante in “giubbotto nero”. Carinerie di corte, diciamo così.

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