Quella fuga dall’assemblea nazionale del Pd di Elly Schlein

Va bene che l’assenteismo, comprensivo dell’astensionismo, è ormai fenomeno ordinario della politica, fra urne, aule parlamentari e riunioni degli organismi di partito. A meno che non si tratti di raduni di festa come quello della destra di Giorgia Meloni appena svoltosi all’ombra di Castel Sant’Angelo, e sulla traiettoria di San Pietro. Ma quello che è accaduto all’assemblea nazionale del Pd, proprio mentre si concludeva il raduno dei fratelli d’Italia, mi è sembrato un po’ troppo, francamente, anche perché si era avuta notizia di preoccupazioni della segretaria del partito Elly Schlein sull’affluenza e si erano perciò prese presumibilmente misure d’incentivo, chiamiamole così.

         L’assemblea nazionale del maggiore partito di opposizione è composta di 900 e più fra 600 eletti dal congresso e membri di diritto. Ebbene, ad ascoltare relazione e replica della Schlein, a intervenire nel dibattito e infine a votare sono stati complessivamente non più di 261. Dei quali 250 hanno approvato parole, gesti e, ottimisticamente, linea politica della Schlein vestita in viola quaresimale un po’ fuori stagione, addicendosi più il rosso all’ambiente natalizio. Trentasei si sono astenuti, sentendo le loro motivazioni, più per dissentire che per mettersi o rimanere in attesa.

Sono numeri tutti che da soli, fra presenze e assenze, dimostrano con una certa evidenza uno stato quanto meno di sofferenza, se non vogliano affondare il coltello nel burro e parlare di crisi. Di fronte alle cui dimensioni si capisce anche la resistenza che alla fine oppone la segretaria del partito, pur fra cenni di apertura o addirittura di sfida, alla prospettiva di un congresso straordinario, specie per definire una posizione più concreta e meno verbale, o retorica, sotto l’albero della pace che peraltro non c’è, sulla politica estera. In uno scenario peraltro profondamente cambiato, direi anzi terremotato rispetto ai tempi dell’elezione della segretaria del Nazareno.

Ma anche senza spingerci sino alla politica estera, e naturalmente di difesa, a rimanendo nel recinto della politica interna e degli schieramenti che si fronteggiano chiamandosi maggioranza e opposizione, ottimisticamente al singolare, la situazione o condizione di salute politica del Pd appare critica.

La Schlein, per esempio, in spirito orgogliosamente e “testardamente unitario”, come precisa o assicura ogni volta che parla, coltiva, insegue e quant’altro l’alleanza con Giuseppe Conte e ciò che rimane elettoralmente delle 5 Stelle ereditate da Beppe Grillo, o a lui sottratte a rischio di contenziosi giudiziari. Ma Conte ha appena avvertito, pur avendo strappato al Pd prima il governatorato della Sardegna e poi quello della Campania, che lui non è né si sente alleato “di nessuno”. Indipendente persino da se stesso se si potesse esserlo filosoficamente e materialmente. E per conoscerne il programma con cui confrontarsi con la stessa Schlein e dintorni bisogna aspettare sino alla fine dell’estate prossima, cioè a ridosso delle elezioni politiche del 2027. La calma è la virtù dei forti, si dice, ma anche quella dei furbi.

Pubblicato sul Dubbio

I confini difesi da Salvini sono anche quelli della politica

Matteo Salvini ha tutto il diritto, per carità, anche nei toni enfatici che possono non piacere a qualche schifiltoso, di rivendicare il merito di avere esercitato la doverosa “difesa dei confini nazionali”. Dove non esistono postazioni di pubblici ministeri o giudici. E’ il suo commento alla conclusione ora definitivamente assolutoria della lunga vicenda giudiziaria seguita al cervellotico sequestro di persone contestatogli per avere ostacolato più di sei anni fa lo sbarco in Italia degli immigrati clandestini trasportati dalla nave spagnola Open arms, braccia aperte in inglese. Che ai porti spagnoli, appunto, aveva deciso di preferire quelle siciliane solo perché più vicine, a prescindere dalle regole italiane.

         Salvini era allora vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno del primo dei due governi presieduti da Giuseppe Conte a 5 Stelle, diciamo così. Uno che viene ancora considerato dai suoi tifosi il capo di governo più bravo d’Italia dopo la buonanima di Carlo Benso conte, al minuscolo, di Cavour. Pensate un po’ quanti anni, fra Monarchia e Repubblica, l’Italia ha dovuto aspettare per avere questa fortuna.

In tanti, ingrati che siamo, non ce ne rendiamo ancora conto. Anzi, non ci piace per niente la prospettiva di vederlo tornare a Palazzo Chigi, se e quando Giorgia Meloni ne uscirà sconfitta dall’alternativa di sinistra che è un pò come l’Araba fenice. Che ci sia tutti lo dicono da sinistra, e anche dai cespugli o dalle appendici moderate che Goffredo Bettini vorrebbe sistemare in una tenda nel fantomatico “campo largo”, ma dove sia esattamente nessuno sa. Neppure Conte, che infatti non si lascia scappare occasione per ribadire che lui non è né si sente alleato di nessuno, libero ormai anche dal fantasma di Gianroberto Casaleggio e dalle invettive di Beppe Grillo.

         Adesso Salvini, per tornare a lui, è di nuovo presidente del Consiglio ma solo, diciamo così, ministro delle Infrastrutture, anziché dell’Interno, dove la guida è toccata al suo capo di gabinetto di allora, Matteo Piantedosi. Che il mio amico Piero Sansonetti avrebbe voluto vedere processare, e magari condannare, al posto di Salvini, come ha scritto sull’Unità. Eh no, caro Piero, neppure Piantedosi avrebbe meritato il processo sia perché era solo un subordinato di Salvini sia, anzi soprattutto perché quella vicenda era tutta e soltanto politica, per niente giudiziaria. Anche se a ordinare lo sbarco di quegli immigrati fu la magistratura e non Salvini.

         Nel reclamare e ottenere, grazie ai voti pentastellati concessi in Parlamento a dispetto, il processo a Salvini fu negata alla politica il primato che le spettava e le spetta affrontando problemi come l’immigrazione clandestina. E di questo primato vorrei che Salvini trovasse il tempo e il modo, che certamente non gli mancheranno, di rivendicare il merito di avere ristabilito la forza. Con lo stesso vigore col quale lo ribadiscono e lo sostengono la premier Meloni e il ministro dell’Interno Piantedosi anche nell’applicazione dell’intesa con l’Albania per gestire l’immigrazione clandestina, sempre quella. Un’intesa sui centri -si è proposta energicamente Meloni- che “f u n z i o n e r a n n o !”, per quanti ostacoli abbiano già frapposto i magistrati tenendoli praticamente vuoti. E facendo gridare le opposizioni, avvolti in una fumosa legalità, agli sprechi di risorse e uomini di cui sarebbe responsabile solo il governo.

Così i signori magistrati -sempre loro- si sono arrogati il diritto di sindacare intese internazionali su cui avrebbe diritto di eccepire solo il Parlamento. Che si pretende, come al solito, di aggirare nei tribunali con espedienti, nient’altro.  E ciò in un andazzo, in un clima, chiamatelo come volete, che potrebbe subire finalmente un colpo decisivo nel referendum sulla riforma della giustizia -anzi della magistratura, parola di Antonio Di Pietro- approvata dalle Camere con l’obiettivo anche di separare le carriere dei pubblici ministeri e dei giudici. Bisogna uscire dall’aria che tira da troppo tempo.

Pubblicato su Libero

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