L’ostinazione perversa contro Salvini emersa dalla sua assoluzione definitiva

         Meglio tardi che mai, certo. Ma la vicenda di Matteo Salvini, assolto in via definitiva dall’accusa di avere sequestrato su una nave spagnola dei migranti irregolari ritardandone lo sbarco in Italia, disposto alla fine dalla magistratura, è stata così sfacciatamente più politica che giudiziaria che i sei anni e più trascorsi dai fatti e i due processi che l’hanno segnata, fra primo grado e Cassazione, sono uno scandalo.

         Il carattere prevalentemente politico della vicenda sta nell’autorizzazione al processo concessa dal Parlamento, trattandosi di un reato contestato a Salvini come ministro nell’estate del 2019, per una scelta tutta politica, appunto, dell’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che aveva tolto a Salvini la copertura di fiducia, assicuratagli precedentemente per una vicenda analoga, avendo avuto il leader leghista nel frattempo il torto di avere portato il suo partito a circa il 30 per cento dei voti e di promuovere una crisi per aggiornare la situazione politica.

Conte praticamente si difese usando la magistratura contro Salvini.  E ora, con questo precedente sulle spalle, l’ex premier cerca di tornare a Palazzo Chigi disseminando di trappole il percorso in quella direzione della segretaria del Pd Elly Schlein, che pure lo corteggia e insegue come alleato. Alleato un corno, le manda a dire e dice direttamente Conte, in ogni sede, prendendosi ancora un anno per definire il programma del suo partito e poi confrontarlo con quello del Pd e degli altri immaginati al Nazareno nel famoso “campo largo”. Altra definizione che Conte contesta, dicendo di volerne solo uno “giusto”. Giusto per i suoi gusti e per le sue ambizioni, naturalmente.

         Con una impronta così sfacciatamente politica, ripeto, della vicenda nominalmente giudiziaria di Salvini, di cui magistrati di un certo peso allora, come il segretario dell’associazione Luca Palamara, si dicevano fra di loro che bisognava contrastare il leader leghista pur avendo ragione nella lotta all’immigrazione clandestina; con una impronte, dicevo, così sfacciatamente politica dell’avvio della vicenda nominalmente giudiziaria, la Procura che l’ha gestita avrebbe quanto meno potuto e dovuto risparmiarsi il ricorso contro l’assoluzione in primo grado. E invece è ricorsa, appunto pur facendo a Salvini -e alla Giustizia in senso lato, considerandone i costi- lo sconto di un passaggio su tre: quello della Corte d’Appello.  Smentita peraltro in Cassazione, la Procura di Palermo, dalla stessa accusa.

         La legittimità di quanto accaduto, conforme cioè alle procedure consentite, è sotto ceti aspetti un’aggravante, non un’attenuante. Essa infatti rivela o conferma che è il sistema ad essere malato. E a solo cercare di curarlo si rischia il linciaggio, come quello praticato contro i sostenitori del sì referendario alla riforma della magistratura -come la chiama, condividendola, l’insospettabile Antonio Di Pietro-  approvata dal Parlamento.

La lettura ambiguamente morotea di Giorga Meloni sul Foglio

Quella “Meloni morotea”titolata dal Foglio in prima pagina e ribadita con maggiore spazio all’interno, trattando della politica estera della premier fra guerre e trattative alterne di pace, mi ha incuriosito per una certa conoscenza e frequentazione di Ado Moro avuta per una ventina d’anni. Troncata da una morte che grida ancora vendetta per i misteri fra i quali all’allora presidente della Dc fu barbaramente tolta la vita dai brigatisti rossi che lo avevano sequestrato 55 giorni prima, fra la sangue della scorta. Misteri non ridotti ma aumentati nei ripetuti processi, pur con tanto di condanne, e dalle altrettanto ripetute inchieste parlamentari. 

         La curiosità nasceva anche da quella volta in cui la stessa Meloni, parlando di Europa alla Camera, si è una volta richiamata compiaciuta a Moro tra la sorpresa di molti, anche a destra, che trovarono troppo acrobatico il richiamo. Non era stato invece per niente acrobatico perché il Moro piaciuto alla Meloni era quello convinto che “le diversità” dei paesi del vecchio continente fossero una ricchezza nel loro processo di integrazione. Una specie insomma di sovranismo d’anticipo rispetto a un governo del quale Moro non aveva certamente potuto immaginare l’arrivo in Italia ai tempi della maggioranza di cosiddetta “solidarietà nazionale” che egli aveva contribuito a far nascere attorno non a uno ma a due governi monocolori democristiani affidati alla guida di Giulio Andreotti.

         Ebbene la curiosità suscitatami da quel titolo del Foglio e dal racconto, diciamo così, che lo aveva ispirato si è rapidamente trasformata in delusione. I due autori -non uno- di quella cronaca politica, Carmelo Caruso e Gianluca De Rosa, ai quali concedo simpaticamente l’attenuante dei loro, rispettivamente, 46 e 36 anni, in media quasi la metà dei miei, sono caduti nella trappola del Moro ambivalente o ambiguo di un’abbondante letteratura : quello delle cosiddette “convergenze parallele”, che la Meloni starebbe copiando o scopiazzando, fra Trump e Zelensky, e all’interno dell’Unione Europea fra Merz e Orban. Un pasticcio, più che altro. 

         Ma Moro era ambiguo solo per chi non voleva capirlo, credetemi. Per fargli dire qualcosa che non aveva detto, e anzi aveva impedito , cioè che i comunisti dovessero entrare nel governo con la Dc e non solo appoggiarlo dall’esterno in via transitoria ed eccezionale, Eugenio Scalfari ne aspettò la morte. All’indomani della quale   il fondatore della Repubblica di carta  raccontò di esserlo andato a trovare di recente e di avergli sentito auspicare e predire, addirittura con il proprio impegno, un governo di coalizione col Pci. Moro dalla sua tomba a Torrita Tiberina non poteva smentire. E il suo portavoce, Corrado Guerzoni, potette solo raccontare di averli lasciati soli a parlare in quell’incontro effettivamente svoltosi nello studio romano di via Savoia.

         Vi rivelo per esperienza personale – visto che si parla in questi giorni di giornali-partito dopo quelli di partito- la differenza fra Scalfari e Indro Montanelli. Scalfari fece parlare un morto, come un 48 della smorfia napoletana. Montanelli non mi avrebbe mai pubblicato un’intervista postuma di Moro in quei termini se non avessi potuto documentargliela con una registrazione. Due uomini, due giornali, due stili, due partiti se vogliamo dirlo.

         Né potete immaginare che anche Montanelli avrebbe fatto come Scalfari se gliene fosse capitata l’occasione direttamente. Lo escludo perché Moro non se ne sarebbe fidato, ma soprattutto perché lui non pensava a quella prospettiva politica. Egli arrivava a formulare previsioni sino alla fine del 1978, quando era ormai sicuro di andare al Quirinale e tessere da lì la tela della ripresa dell’alleanza di governo col Psi da quasi due anni nelle mani di Bettino Craxi, anziché di Francesco De Martino.

         Accompagnai personalmente Montanelli da Moro poche settimane prima del sequestro per un colloquio di carattere privato, volendo dare una mano all’amico Gaetano Afeltra che era in quel momento in difficoltà alla direzione del Giorno posseduto dall’Eni. All’uscita dall’ufficio egli mi raccontò di non essere riuscito a strappargli una parola, un sussurro, una vocale, una sillaba sulle prospettive politiche.

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