Parola mantenuta da Elly Schlein, dopo avere promesso a suo tempo ai protestatari provenienti dallo scudo crociato, ad esempio Giuseppe Fioroni nel frattempo andatosene via sbattendo la porta, che al posto della foto dell’orgogliosamente comunista Enrico Berlinguer avrebbe fatto stampare sulla tessera di iscrizione al Pd del 2026 la foto di un democristiano. Dagli occhi inusualmente allegri del compianto segretario del Pci la segretaria del Nazareno è passata a quella del viso abitualmente allegro di Tina Anselmi. La mia indimenticata e indimenticabile amica Tina, la più fedele e entusiasta affiliata della corrente di Aldo Moro. La galoppante Tina giunta alla politica dalle attività di partigiana, di insegnante e di sindacalista diventando, fra l’altro, la prima donna ministro nella storia della Repubblica. E ministro tanto fortunato nel suo settore da potersi intestare la riforma istitutrice del servizio sanitario nazionale.
Pace compiuta allora almeno nel Pd, viste le guerre che tengono banco altrove, non di parole ma di missili, bombe, droni e altre diavolerie di fuoco e di morte? Situazione rasserenata al Nazareno dopo scomposizioni e nascite di correnti di assedio o di condizionamento di una segretaria che, arrivata imprevista al suo posto con l’appoggio più degli esterni o estranei che degli iscritti al partito, si è mossa con troppa disinvoltura per le abitudini di quella che lei preferisce chiamare “comunità”? Per niente.
Dall’assemblea nazionale svoltasi ieri in concomitanza con la conclusione della festa della destra di una Giorgia Meloni baldanzosa e sicura in sella il Pd è uscito più diviso di prima, ben al di là di quei 225 voti a favore della linea politica esposta dalla Schlein e dei 36 astenuti, più gli assenti generalmente non casuali.
La segretaria ha annesso alla sua area -per chiamarla alla maniera democristiana- il presidente del partito e già suo concorrente Stefano Bonaccini, cresciuto di peso, di barba e di sorrisi nell’occasione, ma ha formalizzato in una votazione formale la fine di un certo unanimismo più o meno tattico che le aveva permesso gesti e iniziative brusche e clamorose di cosiddetta discontinuità. Come il sostegno, anzi la partecipazione nella primavera scorsa al referendum abrogativo del cosiddetto jobs act promosso dalla Cgil contro una riforma in materia di disciplina del lavoro voluta fortemente e attuata da Matteo Renzi quando era contemporaneamente segretario del partito e presidente del Consiglio. Un Renzi, peraltro, adesso un po’ masochisticamente e disinvoltamente aggiuntosi, con un suo nuovo e piccolo partito, al progetto di alternativa coltivato da una “testardamente unitaria” Schlein e dal sostanziale renitente Giuseppe Conte. Che ha appena detto, precisato e quant’altro di non sentirsi alleato di niente e di nessuno, indipendente piuttosto da tutti, gratificato tuttavia in sede locale di qualche governatorato a cinque stelle, come in Sardegna e in Campania.