L’amaro Landini servito allo sciopero non troppo generale della Cgil

         Oltre che di partecipazione, col meno del 5 per cento di adesioni nei posti di lavoro, è stato anche mediatico il fallimento dello sciopero generale della Cgil di Maurizio Landini contro il governo affamatore del popolo, guerrafondaio e fascistoide nella rappresentazione anche cartellonistica della protesta.

         Nelle edicole già prive della Repubblica di carta, in sciopero contro l’editore che vuole liberarsene, dove quindi si è scioperato due volte, i giornali sono arrivati per lo più ignorando sulle prime pagine dal Corriere della Sera alla Stampa, anch’essa peraltro in vendita pure dal notaio- la prestazione di Landini. Che ci sarà rimasto male.  Non  gli sarà certamente bastata la generosa Unità dell’ancor più generoso  Piero Sansonetti. Persino il manifesto ancora orgogliosamente comunista non ha fatto dello sciopero, dei suoi cortei e delle sue bandiere rosse la copertina di giornata preferendogli la “fredda guerra”, dopo la guerra fredda dei decenni passati, e abbassando la protesta sindacale al taglio centrale della prima pagina, come lo chiamiamo graficamente.

         Si torna indietro con la moviola della storia, ma con un titolo, diciamo così, corretto o aggiornato. Dalle famose “piazze piene e urne vuote” lamentate nel 1948 da Pietro Nenni, affranto dalla sconfitta del “fronte popolare” incautamente realizzato dal leader socialista col Pci di Palmiro Togliatti, si sta passando alle piazze stanche e urne ancora più vuote.

A questo declino Landini pensa forse di sottrarsi cambiando mestiere o postazione: da segretario generale del maggiore sindacato italiano a concorrente di Elly Schlein, Giuseppe Conte, Silvia Salis e altri alla leadership della pur improbabile alternativa al centrodestra, in un campo di incerta definizione o larghezza e di programma sinora assente. Non sono definiti neppure quelli singoli dei due maggiori partiti di opposizione. che sono il Pd e il Movimento ancora chiamato 5 Stelle, di cui però si è affievolita la luce.

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La Repubblica di Scalfari contro il Giornale di Montanelli

Fa una certa impressione sentire e leggere di Repubblica, quella naturalmente di carta, in vendita non nelle edicole ma dal notaio, ad un vecchio giornalista che la vide nascere con una certa ansia nel 1976. L’ansia che si viveva nel Giornale di Indro Montanelli, nato nel 1974 e diventato rapidamente, fra edicole e palazzi della Roma politica, un partito. Sì, il partito di opposizione alla prospettiva di quella che Giovanni Spadolini aveva chiamato sulle colonne del Corriere della Sera  “Repubblica conciliare” ed Enrico Berlinguer poi incartò nella sua proposta di “compromesso storico”.

         Al Giornale si viveva  un’apprensione che Montanelli cercava di contrastare con una visione ottimistica delle proprie forze e del buon senso degli italiani, che lui era convinto di sapere interpretare molto meglio di Eugenio Scalfari, il fondatore e direttore del nuovo quotidiano Di cui, per carità, egli apprezzava la scrittura e lo stile ma che, senza volerlo offendere, sentiva “più da elite che da popolo”, mi diceva a tavola o raggiungendo a piedi o la redazione romana, o casa sua, in Piazza Navona, o casa della mamma, a Prati.

         Montanelli, ripeto, aveva di Scalfari un profondo rispetto. E quasi ci impediva di attaccarlo nelle cronache o nei commenti, una volta uscita la sua Repubblica. Dalla selezione che ogni giorno egli faceva delle proposte che ci chiedeva per aiutarlo a trovare l’argomento del suo fulminante corsivo Controcorrente di prima pagina, escludeva puntualmente tutte quelle che  si riferivano a Scalfari, o solo potessero sforarlo. Un rispetto forse non molto ricambiato, ma cui Montanelli non rinunciava lo stesso, vantandosene.

         Quanto il Giornale fu il partito di opposizione ad un governo di democristiani e comunisti tanto Repubblica fu il partito di sostegno a questa prospettiva, nonostante all’inizio qualche bontempone nel Psi di Francesco De Martino lo avessero scambiato per filosocialista a causa delle simpatie riservate alla rivoluzione portoghese dei garofani. Poi, con Craxi subentrato a De Martino  e con le sue “forbici alla barba di Marx” non a caso deplorate da Scalfari, tutti si resero conto, anche Giuliano Amato, che quello sarebbe stato il giornale più antisocialista del panorama italiano. Scientificamente antisocialista, direi, come i comunisti storicamente portati a scambiarli per “traditori”. O, nella migliore delle ipotesi per fastidiosi rompiscatole. Disposti anche a fare da sponda alle brigate rosse, durante il sequestro di Aldo Moro, contestando la cosiddetta linea della fermezza adottata  dalla Dc di Zaccagnini e Andreotti d’intesa con Enrico Berlinguer e preferendo la linea umanitaria  per cercare di salvare l’ostaggio condannato a morte nella fantomatica prigione e tribunale “del popolo”.

         Il Giornale era il giornale o partito di riferimento della parte dei gruppi parlamentari democristiani in maggioranza ostili al matrimonio politico col Pci. “Mi togliete il sonno”, mi diceva il capogruppo dc della Camera Flaminio Piccoli. La Repubblica era il partito di riferimento dell’altra parte di quei gruppi, riconducibile ad un certo punto a Ciriaco De Mita promosso statista sul campo da Scalfari in persona. Che ad un certo punto, avendo raccolto una celebre intervista di svolta moralistica di Enrico Berlinguer, dopo il fallimento della parentesi della cosiddetta “solidarietà nazionale”, pensò addirittura di potere ispirare il Pci.  

         Ciò accadde, in particolare, nel 1992.  Quando la strage di Capaci ridusse la lunga e travagliatissima corsa al Quirinale alla scelta “istituzionale” fra il presidente democristiano della Camera Oscar Luigi Scalfaro e il presidente repubblicano Giovanni Spadolini. Che Scalfari sponsorizzò così platealmente e insistentemente che, quando i gruppi parlamentari comunisti si riunirono per decidere, si sentirono dire dal segretario del partito Alessandro Natta che il Pci non poteva lasciarsi “dettare la linea” dal pur stimabilissimo direttore di Repubblica. E infatti fu eletto Scalfaro per fare subentrare al vertice di Montecitorio Giorgio Napolitano.

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