La sconfitta sul divorzio che Forlani seppe risparmiarsi

Di tutti i segretari avuti dalla Dc, da De Gasperi a Taviani, da Gonella a Fanfani, da Moro a Rumor, da Piccoli a Zaccagnini e a Martinazzoli-Arnaldo Forlani, di cui ricorre il centenario dalla nascita, a meno di due anni e mezzo peraltro dalla morte, fu il più sprannominato di tutti. Anzi, è stato, tanto forte è la memoria che ne conservo.

Ricordo il “coniglio mannaro” coniato per lui da Giampaolo Pansa, a furia anche di osservarlo col suo binocolo ai congressi democristiani, la “tigre di carta” di derivazione un po’ incerta, il “Moro dei poveri” confezionatogli da Carlo Donat-Cattin orfano del Moro autentico, col quale aveva avuto un rapporto di solida amicizia. Grazie al quale il leader della sinistra sociale, cioè sindacale, della Dc nella seconda metà degli anni Sessanta della contestazione aveva rinunciato alla decisione che stava per prendere di uscire dal partito.

         Di recente Pier Ferdinando Casini ha raccontato che proprio Donat-Cattin non sopportava, ma sempre amichevolmente, l’abitudine di Forlani di isolarsi con la segreteria telefonica durante le trasmissioni, in alta o bassa frequenza televisiva, delle partite di calcio dell’Inter. Segno, evidentemente, che per quanto “Moro dei poveri”, Forlani era un interlocutore molto cercato dal più inquieto o irrequieto dei leader democristiani. Che d’altronde fu tra i promotori del ritorno di Forlani alla segreteria della Dc nel 1989, candidandolo già una decina d’anni prima ad un congresso per chiudere davvero la fase della cosiddetta “solidarietà nazionale” con i comunisti. Il cui appoggio esterno ai governi monocolori democristiani di Giulio Andreotti, per quanto all’insegna dell’emergenza e della provvisorietà, aveva finito per “impigrire” lo scudo crociato, diceva un Donat-Cattin impaziente, come Forlani appunto, del ritorno dei socialisti, guidati ormai da Bettino Craxi dopo gli anni di Francesco De Martino, alla collaborazione di governo con lo scudo crociato.

         Il coniglio mannaro, la tigre di carta, la segreteria telefonica e quant’alto inventato e appiccicatogli addosso non scalfivano la pazienza, il buon senso e la preveggenza di Forlani. Che nel 1972, per esempio, ai tempi della sua prima segreteria democristiana fece tanto per evitare il referendum contro la legge sul divorzio da preferirne il rinvio di due anni, addirittura ricorrendo alle elezioni anticipate. Fanfani, nella cui scuderia Forlani era cresciuto alla fine scalciando, decise invece di cavalcare quella prova di forza referendaria reclamata dalla Chiesa. E ne uscì notoriamente con le ossa rotte della Dc, rivelatasi nel 1974 battibile ed entrata perciò in una fase di logoramento elettorale e sociale dalla quale non sarebbe più uscita, neppure dando agli alleati addirittura la guida dei governi di coalizione: prima al repubblicano Giovanni Spadolini, nel 1981, proprio in sostituzione di un Forlani benedicente da Palazzo Chigi, e poi al socialista Craxi, nel 1983, quando già un altro socialista, Sandro Pertini, sedeva al Quirinale. Un Craxi del quale Forlani fu vice presidente del Consiglio e contemporaneamente presidente di una Dc guidata con sofferenze e strappi da Ciriaco De Mita.

Pubblicato sul Dubbio

Il Forlani del cuore con Fanfani e la testa con Moro

A 100 anni dalla nascita e a meno di 2 e mezzo dalla morte ricordo di Arnaldo Forlani il giorno in cui nacque la nostra amicizia. Una mattina alla Camera, al suo secondo anno del primo mandato di segretario della Dc, conferitogli dal Consiglio Nazionale nel 1969 come delfino di Amintore Fanfani. Avevo appena scritto di lui sul Momento sera di Roma che aveva certamente Fanfani nel cuore ma nella testa Aldo Moro, l’altro “cavallo di razza “della Dc, come li chiamava entrambi Carlo Donat-Cattin imponendoli alla letteratura dello scudo crociato.

         Quel cuore con Fanfani e la testa con Moro gli era piaciuto. Sornione, Arnaldo mi disse: “Mi hai smembrato”. Da allora non smettemmo di frequentarci, di stimarci, di volerci bene. Al contrario di Forlani, non gradì per niente Fanfani, che mi invitò a colazione di prima mattina nel suo appartamento di Presidente del Senato a Palazzo Giustiniani per dirmi che Forlani sì aveva “qualcosa” di Moro in testa ma doveva togliersi proprio da quella testa l’idea di poter essere un intermediario, perché con Moro lui avrebbe potuto accordarsi direttamente quando lo avesse ritenuto opportuno. E così avvenne un paio d’anni dopo, proprio a Palazzo Giustiniani, in un incontro fra i capi di tutte le correnti della Dc, promosso con una certa disinvoltura istituzionale, in cui venne decisa la conclusione di un congresso nazionale del partito che si sarebbe aperto due giorni dopo all’Eur.

         L’accordo stabiliva il ritorno di Fanfani alla segreteria della Dc, al posto di Forlani destinato ad una Quaresima di qualche anno, e la sostituzione di Giulio Andreotti a Palazzo Chigi, in un governo centrista che Forlani preferiva chiamare “della centralità”, con Mariano Rumor per un ritorno al centro-sinistra.  A Moro fu destinata la presidenza della Camera, che però il socialista Sandro Pertini si rifiutò di liberare con le dimissioni chiestegli personalmente dal segretario del Psi Francesco De Martino in cambio di un laticlavio alla morte del primo senatore a vita di nomina quirinalizia. Pertini, scusandosi poi privatamente con Moro temendo che potesse considerarla una questione personale, cacciò via dal suo ufficio di Montecitorio il compagno di partito e scese alla buvette per augurare “lunga vita ai senatori a vita”, chiacchierando con i giornalisti che avevano accolto la sua offerta del caffè, me compreso.

         E Forlani?, mi chiederete. Ubbidì al suo modo. Per niente sorpreso da Fanfani -al quale aveva peraltro procurato il dispiacere, la delusione, chiamatela come volete, di sostenere alla fine del 1971, per quanto inutilmente, l’elezione di Moro a presidente della Repubblica dopo l’esaurimento, a volere essere generosi, della candidatura dello stesso Fanfani- Arnaldo chiuse il congresso democristiano con una disamina della figura del Diavolo. Che -ricordò a un Fanfani impietrito alla presidenza del  congresso- “è colui che si trasforma”.

         Ma con Fanfani l’ormai ex segretario della Dc, al momento ministro degli Esteri dei governi monocolori democristiani presieduti da Andreotti col sostegno esterno dei comunisti, si sarebbe ritrovato durante il sequestro proprio di Aldo Moro, nel 1978, per cercare di salvargli la vita. Alle brigate rosse che volevano scambiare l’ostaggio con più di tredici “prigionieri”, come chiamavano imputati e condannati di reati di terrorismo, volendo con ciò ottenere il riconoscimento di controparte, Forlani si prodigò perché arrivasse un appello del segretario generale dell’Onu. Ma agli aguzzini di Moro, e sterminatori della sua scorta, delle Nazioni Unite non importava un fico secco, pur imbottendo i loro documenti di richiami a un fantomatico Stato imperialista mondiale da abbattere. Moro fu ucciso la mattina del giorno in cui Fanfani aveva deciso, e fatto sapere, che avrebbe annunciato in una riunione della direzione del partito la disponibilità ad una iniziativa autonoma dell’allora Capo dello Stato Giovanni Leone per la grazia ad uno, anzi una dei tredici “prigionieri” reclamati dai terroristi.

         Vi risparmio tutto il resto di un’amicizia e di una storia politica, quella appunto di Forlani, fra le più lineari che mi sia capitato di seguire.

Pubblicato su Libero

Blog su WordPress.com.

Su ↑