Giuseppe De Rita corregge il rapporto del suo Censis sull’Italia

         Giuseppe De Rita, 93 anni e rotti ben portati, di cui 59 ascoltando le viscere l’Italia un po’ come Capo Seattle, chiamato anche Seath, faceva sulla terra indiana americanizzata, o un rabdomante in cerca d’acqua, ha colto fortunatamente l’occasione offertagli con una intervista dalla Stampa per risollevarmi a sua insaputa da una mezza angoscia provocatami da titoli, sottotitoli e sintesi dell’abituale rapporto del Censis sul nostro Bel Paese. Il 59.mo appunto, che il padre  o nonno del Censis, chiamiamolo così, ha voluto e saputo esporre in chiave più ottimistica, più rassicurante, per esempio, di quelle poche righe di prima pagina sul Corriere della Sera dell’altro ieri che   raccontavano un’Italia “selvaggia”, ossessionata o quasi dal sesso, a dir poco disinteressata alla politica, portata a preferire l’autocrazia alla democrazia e miserevolmente, più che ingegnosamente, impegnata ad “arrabattarsi per arrivare alla fine del mese”. 

         Il quadro, anzi il film dell’Italia ricavabile dalle immagini del rapporto del Censis “non è così disastroso come appare se ci si ferma alle singole fotografie”, ha detto il fondatore del Censis. “Nel presente-ha aggiunto De Rita- l’italiano dimostra una resistenza giorno per giorno alle difficoltà e questo non crea avvilimento ma una nuova tonicità del sistema e del ceto medio”. Cioè il ceto medio non è in declino?, gli ha chiesto un po’ incredula forse Flavia Amabile. E lui: “Se si considerano le fotografie anno per anno lo è, ma se invece si prende in considerazione l’evoluzione”, in particolare nell’arco di 50 anni, “si trovano degli elementi di novità”. “Il ceto medio -ha spiegato o raccontato De Rita- ha subìto la paura del declino, ha resistito e ora sta facendo dei passi avanti. lentamente cresce e cerca di mantenere il suo stile di vita. Viaggia, per esempio, in classe economica e a volte concedendosi un lusso”. Si sono “rafforzate le difese” nella “lotta per la vita che noi italiani abbiamo sempre avuto”.

         Senza arrivare a guardarmi nello specchio, ho toccato i capelli che ancora mi crescono, ho passato poi le mani sulla giacca e sui pantaloni. Ho stretto il modo della cravatta e mi sono sentito sollevato. Tanto grato a De Rita da sentirmi solidale con lui quando si è lamentato dei suoi rapporti con la “classe dirigente”. “Un tempo -ha raccontato- c’era curiosità, interesse per la dinamica a lungo termine della società” studiata dai ricercatori scientifici.  “Craxi -ha svelato De Rita- era un politico che mi chiamava per ascoltare quello che avevo da dire”, peraltro conoscendo anche la sua assonanza con la Dc di Andreotti, Fanfani, De Mita, Forlani piuttosto che col Psi del garofano. ”Oggi né Meloni né Schlein lo farebbero.. La loro è una classe dirigente che ha parametri diversi, si basano su un sondaggio dell’altro ieri da utilizzare per le elezioni di domenica”.

         Nel cercare una foto di De Rita con la quale arredare, diciamo così, questa nota me n’è capitata una relativamente recente col presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Quirinale. E mi sono di nuovo consolato, per entrambi.

Ripreso da http://www.startmag.it

L’afonia della segretaria del Pd sullo scenario internazionale

Dopo le ultime notizie o sensazioni arrivate dagli Stati Uniti, dove un documento attribuito alla conoscenza o persino alla ispirazione del presidente Donald Trump in persona prospetta il rischio della “cancellazione” dell’Europa in una ventina d’anni, non ho ancora sentito o letto di una richiesta a comparire, diciamo così, alla premier Giorgia Meloni davanti a una delle Camere, o a entrambe, per esporre la posizione del governo italiano. Non ancora, ripeto, magari per distrazione da ponte dell’Immacolata in corso, costruito senza progetti e spese del Ministero delle Infrastrutture guidato dal vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini Un ponte semplicemente da calendario, sottratto ai controlli della Corte dei Conti o alla curiosità di qualche Procura della Repubblica sensibile ai rischi delle solite infiltrazioni mafiose nelle grandi opere.

         Non ho sentito o letto richieste di comparire né alla Meloni presa singolarmente né alla maggioranza nel suo complesso, e quindi reclamando anche rapporti e simili dei vice presidenti del Consiglio e altri soci della coalizione di centrodestra. Come ha fatto di recente la segretaria del Pd Elly Schlein condizionando un confronto pur chiesto da lei stessa con la Meloni, durante la festa nazionale della destra a Castel Sant’Angelo, alla partecipazione almeno di Matteo Salvini e Antonio Tajani per accettare di essere affiancata da Giuseppe Conte. Che, dal canto suo, si era affrettato ad annunciare la sua disponibilitàalla premier che lo aveva proposto. Storie di scacchi o furbizie e sgambetti che hanno tenuto banco per un pò sulle prime pagine dei giornali, col solito contorno di retroscena e sospetti velenosi.

         Se questa richiesta a comparire in Parlamento sul presente e sull’avvenire dell’Europa e dei suoi rapporti con gli Stati Uniti dovesse arrivare, o fosse addirittura già arrivata, ripeto, nella mia distrazione da ponte, avrei da eccepire personalmente qualcosa all’opposizione che in queste circostanze suole parlare e attaccare al singolare.

         Una linea di politica estera, comprensiva naturalmente dei rapporti con e nell’Unione e con gli Stati Uniti, il governo bene o male ce l’ha: bene nelle parole e opere della premier, del suo ministro degli Esteri e di quello della Difesa Guido Crosetto, per le sue competenze militari, e male  -se pure si voglia lamentarsene- nei  borbottii, resistenze a altro con cui Salvini personalmente e i parlamentari leghisti collettivamente si allineano al momento decisivo.

         Una linea di politica estera dell’opposizione al singolare, ripeto, non esiste per niente. E per definirla Conte, per esempio, non ha alcuna fretta, essendosi appena preso un annetto di tempo, sino alla fine dell’estate prossima, per definire il programma in generale del suo movimento 5 Stelle e confrontarlo poi con quelli degli altri candidati all’alternativa al centrodestra, cercare di stenderne uno comune e poi affrontare, finalmente, il problema spinosissimo della cosiddetta leadership della coalizione.

         Ma ancor più del tempo che si è preso Conte per confrontarsi con le altre opposizioni dalla sua posizione attuale di pacifismo assoluto e contrarietà altrettanto assoluta ad ogni progetto di rafforzamento delle difese, singole e collettive, nell’Unione europea, è grave la mancanza di chiarezza sulla politica estera nel Pd, cioè nel partito maggiore dell’aspirante alternativa al centrodestra. Una mancanza che non è avvertita solo da me, che non conto nulla nemmeno come elettore, ma anche da fior di fondatori e graduati del partito del Nazareno.

E’ da un anno, o almeno dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca per il suo secondo mandato, che nel Pd quel rompiscatole che penso sia diventato agli occhi e alle orecchie della Schlein l’ex capogruppo al Senato ed ex tesoriere del partito Lugi Zanda chiede inutilmente un congresso o qualcosa di equipollente sulla politica estera nello scenario mondiale intervenuto dopo l’elezione dell’attuale segretaria. Che se la prende anche lei comoda, come il suo concorrente Conte nella corsa a Palazzo Chigi per l’improbabile successione alla Meloni.

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