Saliscendi nei giornali della famiglia Angelucci

         Il saliscendi nei giornali della famiglia Angelucci si è formalizzato questa mattina col commiato di Tommaso Cerno dalla direzione e dai lettori del Tempo, il quotidiano romano fondato da Renato Angiolillo e passato, fra le altre, per le mani di Gianni Letta. Un commiato dai lettori e un saluto al successore Daniele Capezzone, che si trasferisce oggi dalla direzione editoriale di Libero, condotto però da Mario Sechi, alla direzione, appunto, del Tempo

Cerno invece passa alla direzione del Giornale che fu di Indro Montanelli: una successione tuttavia, in particolare ad Alessandro Sallusti, taciuta da Cerno nel suo commiato, sospetto con un certo imbarazzo. Che è anche quello di Sallusti, sottrattosi almeno oggi -chissà se anche domani- al rito del commiato. E non perché destinato, come gli aveva proposto l’editore, a rimanere al Giornale in veste di direttore editoriale, subentrando a Vittorio Feltri che Sechi avrebbe accolto volentieri al posto di Capezzone in partenza da Milano a Roma.

         No. Sallusti ha rifiutato. E non per ritirarsi a 69 anni non ancora compiuti, ma    per proseguire maggiormente il giornalismo televisivo che evidentemente gli piace di più. E gli dà maggiori soddisfazioni. E’ pur sempre piacevole, gratificante e quant’altro vedersi e sentirsi additato per strada, al bar, al ristorante, al cinema, se ci va ancora e non ha smesso di frequentare, come molti altri dai tempi del Covid costati la vita a parecchie sale di proiezione.

         Si, certo, nella esposizione da televisione si rischiano anche cattive sorprese. Come quella recentemente avuta da Vittorio Feltri, aggredito vicino casa da malintenzionati decisi a rubargli non qualche idea o battuta ma soldi. Egli è  uscito dall’aggressione centrando col cazzotto di un ultraottantenne ancora in forza lo sprovveduto giovanotto che lo minacciava più da vicino. Una lezione di difesa offerta gratuitamente e inconsapevolmente anche a Sallusti verso la conclusione del loro rapporto professionale agrodolce.

Il sistema Italia nel pantano dell’alluvione giudiziaria

Il fiume della magistratura ha ormai rotto gli argini. Persino la famiglia è stata allagata con la faccenda del bosco al quale quei due genitori avevano pensato di potere abituare anche i figli. Dal bosco alle banche, alle opere pubbliche grandi e piccole, straordinarie o ordinarie, all’edilizia, alla gestione dell’immigrazione clandestina, alla difesa, dove prima o poi, vedrete qualche Procura della Repubblica troverà il modo di intromettersi anche nel lavoro del ministro Guido Crosetto. Che peraltro è già finito di suo sotto l’attenzione di spie e spioni di cui la magistratura, costretta ad occuparsene, guarda caso, non è riuscita a venire a capo di niente.

         Sembra di stare in un’arena. La magistratura vi si muove come un toro, Che si sente provocato dalla riforma della magistratura, appunto, come andrebbe forse più propriamente chiamata, e la chiama un esperto della materia quale si sente Antonio Di Pietro, piuttosto che come riforma della giustizia comunemente definita nelle cronache. E reagisce, il toro, scalciando e caricando, ma con la via di uscita o di fuga o di vittoria garantita perché il torero è solo un fantasma. Vestito come un torero ma in realtà disarmato. E si vedrà nel referendum di primavera, dal suo esito, se osteggiato dagli spettatori, dalla folla.

         Anche la Repubblica delle Procure, come la chiamiamo criticamente da una trentina d’anni per l’esondazione ormai sistemica delle Procure della Repubblica, temo abbia fatto il suo tempo. Bisogna che c’inventiamo un’altra denominazione ancora per rappresentarla in modo appropriato.

         Com’è potuto accadere tutto questo, in fondo, solo in una trentina d’anni, e per giunta non tutti all’insegna della stessa maggioranza, ma in un succedersi di maggioranze, di sistemi elettorali, di partiti, di protagonisti, di attori? Alcuni persino remissivi pur investiti di larga fiducia popolare e appartenenti ad uno schieramento di garantisti come quel grande e simpatico signore che è Gabriele Albertini. Il quale ha raccontato personalmente, sino a vantarsene, di essersi voluto cautelare come sindaco di Milano con un rapporto addirittura “simbiotico” con la locale Procura della Repubblica. Uscendone indenne, ma esponendo le amministrazioni successive, di colore diverso e anche opposto, come quella attuale del sindaco Beppe Sala, al rischio di apparire agli occhi della magistratura una mezza associazione a delinquere. Una magistratura tuttavia che, pur criticata abbastanza chiaramente da Sala, ha conservato l’appoggio, la fiducia, persino la venerazione dei partiti del sindaco e degli assessori. Che, dal canto loro, se vogliono davvero amministrare, e non solo fingere di farlo, debbono scommettere sul soccorso dell’opposizione. Siano ormai al masochismo.

         Masochista è anche lo schieramento formatosi sul fronte del no al referendum sulla riforma già ricordata della magistratura. Dove si può capire di trovare ciò che resta del movimento  5 stelle già di Beppe Grillo e ora di Giuseppe Conte, che è diventato il partito di maggiore riferimento della magistratura militante. O la sinistra radicale che fa opposizione presentando ricorsi alla magistratura come giocando al lotto. Ma non si capisce la partecipazione di un Pd nel quale non a caso non si riconosce più, dolendosene pubblicamente, il presidente emerito, cioè ex, della Corte Costituzionale Augusto Barbera.  Che per fortuna da emerito, appunto, non rischia più nulla. Neppure un ricorso di Fratoianni, Bonelli e amici alla Procura.

         Ah, come rimpiango un altro emerito di nome Francesco e di cognome Cossiga. Che fu il primo, da ancora presidente della Repubblica, ad avvertire il potenziale eversivo, diceva lui, di una magistratura esondante e decise, poi vantandosene, per nulla pentito, di avere allertato un reparto antisommossa dei Carabinieri nei pressi del Consiglio Superiore della Magistratura, pronto a intervenire su un suo comando da capo delle Forze Armate se si fosse avventurato sulla strada di un processo surrettizio all’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Un processo che rischia ogni giorno adesso Giorgia Meloni rivendicando il diritto e il dovere di governare per sé e i suoi ministri, compreso naturalmente quello dell’Economia. 

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