L’ostinazione perversa contro Salvini emersa dalla sua assoluzione definitiva

         Meglio tardi che mai, certo. Ma la vicenda di Matteo Salvini, assolto in via definitiva dall’accusa di avere sequestrato su una nave spagnola dei migranti irregolari ritardandone lo sbarco in Italia, disposto alla fine dalla magistratura, è stata così sfacciatamente più politica che giudiziaria che i sei anni e più trascorsi dai fatti e i due processi che l’hanno segnata, fra primo grado e Cassazione, sono uno scandalo.

         Il carattere prevalentemente politico della vicenda sta nell’autorizzazione al processo concessa dal Parlamento, trattandosi di un reato contestato a Salvini come ministro nell’estate del 2019, per una scelta tutta politica, appunto, dell’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che aveva tolto a Salvini la copertura di fiducia, assicuratagli precedentemente per una vicenda analoga, avendo avuto il leader leghista nel frattempo il torto di avere portato il suo partito a circa il 30 per cento dei voti e di promuovere una crisi per aggiornare la situazione politica.

Conte praticamente si difese usando la magistratura contro Salvini.  E ora, con questo precedente sulle spalle, l’ex premier cerca di tornare a Palazzo Chigi disseminando di trappole il percorso in quella direzione della segretaria del Pd Elly Schlein, che pure lo corteggia e insegue come alleato. Alleato un corno, le manda a dire e dice direttamente Conte, in ogni sede, prendendosi ancora un anno per definire il programma del suo partito e poi confrontarlo con quello del Pd e degli altri immaginati al Nazareno nel famoso “campo largo”. Altra definizione che Conte contesta, dicendo di volerne solo uno “giusto”. Giusto per i suoi gusti e per le sue ambizioni, naturalmente.

         Con una impronta così sfacciatamente politica, ripeto, della vicenda nominalmente giudiziaria di Salvini, di cui magistrati di un certo peso allora, come il segretario dell’associazione Luca Palamara, si dicevano fra di loro che bisognava contrastare il leader leghista pur avendo ragione nella lotta all’immigrazione clandestina; con una impronte, dicevo, così sfacciatamente politica dell’avvio della vicenda nominalmente giudiziaria, la Procura che l’ha gestita avrebbe quanto meno potuto e dovuto risparmiarsi il ricorso contro l’assoluzione in primo grado. E invece è ricorsa, appunto pur facendo a Salvini -e alla Giustizia in senso lato, considerandone i costi- lo sconto di un passaggio su tre: quello della Corte d’Appello.  Smentita peraltro in Cassazione, la Procura di Palermo, dalla stessa accusa.

         La legittimità di quanto accaduto, conforme cioè alle procedure consentite, è sotto ceti aspetti un’aggravante, non un’attenuante. Essa infatti rivela o conferma che è il sistema ad essere malato. E a solo cercare di curarlo si rischia il linciaggio, come quello praticato contro i sostenitori del sì referendario alla riforma della magistratura -come la chiama, condividendola, l’insospettabile Antonio Di Pietro-  approvata dal Parlamento.

La lettura ambiguamente morotea di Giorga Meloni sul Foglio

Quella “Meloni morotea”titolata dal Foglio in prima pagina e ribadita con maggiore spazio all’interno, trattando della politica estera della premier fra guerre e trattative alterne di pace, mi ha incuriosito per una certa conoscenza e frequentazione di Ado Moro avuta per una ventina d’anni. Troncata da una morte che grida ancora vendetta per i misteri fra i quali all’allora presidente della Dc fu barbaramente tolta la vita dai brigatisti rossi che lo avevano sequestrato 55 giorni prima, fra la sangue della scorta. Misteri non ridotti ma aumentati nei ripetuti processi, pur con tanto di condanne, e dalle altrettanto ripetute inchieste parlamentari. 

         La curiosità nasceva anche da quella volta in cui la stessa Meloni, parlando di Europa alla Camera, si è una volta richiamata compiaciuta a Moro tra la sorpresa di molti, anche a destra, che trovarono troppo acrobatico il richiamo. Non era stato invece per niente acrobatico perché il Moro piaciuto alla Meloni era quello convinto che “le diversità” dei paesi del vecchio continente fossero una ricchezza nel loro processo di integrazione. Una specie insomma di sovranismo d’anticipo rispetto a un governo del quale Moro non aveva certamente potuto immaginare l’arrivo in Italia ai tempi della maggioranza di cosiddetta “solidarietà nazionale” che egli aveva contribuito a far nascere attorno non a uno ma a due governi monocolori democristiani affidati alla guida di Giulio Andreotti.

         Ebbene la curiosità suscitatami da quel titolo del Foglio e dal racconto, diciamo così, che lo aveva ispirato si è rapidamente trasformata in delusione. I due autori -non uno- di quella cronaca politica, Carmelo Caruso e Gianluca De Rosa, ai quali concedo simpaticamente l’attenuante dei loro, rispettivamente, 46 e 36 anni, in media quasi la metà dei miei, sono caduti nella trappola del Moro ambivalente o ambiguo di un’abbondante letteratura : quello delle cosiddette “convergenze parallele”, che la Meloni starebbe copiando o scopiazzando, fra Trump e Zelensky, e all’interno dell’Unione Europea fra Merz e Orban. Un pasticcio, più che altro. 

         Ma Moro era ambiguo solo per chi non voleva capirlo, credetemi. Per fargli dire qualcosa che non aveva detto, e anzi aveva impedito , cioè che i comunisti dovessero entrare nel governo con la Dc e non solo appoggiarlo dall’esterno in via transitoria ed eccezionale, Eugenio Scalfari ne aspettò la morte. All’indomani della quale   il fondatore della Repubblica di carta  raccontò di esserlo andato a trovare di recente e di avergli sentito auspicare e predire, addirittura con il proprio impegno, un governo di coalizione col Pci. Moro dalla sua tomba a Torrita Tiberina non poteva smentire. E il suo portavoce, Corrado Guerzoni, potette solo raccontare di averli lasciati soli a parlare in quell’incontro effettivamente svoltosi nello studio romano di via Savoia.

         Vi rivelo per esperienza personale – visto che si parla in questi giorni di giornali-partito dopo quelli di partito- la differenza fra Scalfari e Indro Montanelli. Scalfari fece parlare un morto, come un 48 della smorfia napoletana. Montanelli non mi avrebbe mai pubblicato un’intervista postuma di Moro in quei termini se non avessi potuto documentargliela con una registrazione. Due uomini, due giornali, due stili, due partiti se vogliamo dirlo.

         Né potete immaginare che anche Montanelli avrebbe fatto come Scalfari se gliene fosse capitata l’occasione direttamente. Lo escludo perché Moro non se ne sarebbe fidato, ma soprattutto perché lui non pensava a quella prospettiva politica. Egli arrivava a formulare previsioni sino alla fine del 1978, quando era ormai sicuro di andare al Quirinale e tessere da lì la tela della ripresa dell’alleanza di governo col Psi da quasi due anni nelle mani di Bettino Craxi, anziché di Francesco De Martino.

         Accompagnai personalmente Montanelli da Moro poche settimane prima del sequestro per un colloquio di carattere privato, volendo dare una mano all’amico Gaetano Afeltra che era in quel momento in difficoltà alla direzione del Giorno posseduto dall’Eni. All’uscita dall’ufficio egli mi raccontò di non essere riuscito a strappargli una parola, un sussurro, una vocale, una sillaba sulle prospettive politiche.

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Quella strana coppia di prigionieri alla Casa Bianca e al Cremlino

         Presi singolarmente nei giorni dispari, essendo nei giorni pari Trumputin, il presidente americano e quello russo sembrano due potenti megalomani imbottiti di armi e di ambizioni, smaniosi l’uno di liberarsi di quei rompiscatole e parassiti che saremmo noi europei e l’altro di quei rompiscatole, pure loro, dei cinesi. Con i quali però Putin è obbligato a fingersi un compagnuccio, diciamo così, correndo alle loro manifestazioni e annivesari, diversamente da Trump che ci strapazza di insulti telefonici e, più in generale, mediatici. Qualche ospite europeo varca ogni tanto la soglia della Casa Bianca senza la sicurezza di uscirne indenne.

         In realtà, i due sono pericolosamente prigionieri. Uno, Tramp, dei suoi errori, l’altro del suo passato.

         Il principale errore di Trump è stato quello di concedere a Putin un vantaggio mediatico e diplomatico con quell’incontro ferragostano in Alaska dal quale il presidente russo si sentì incoraggiato non a ridurre ma a intensificare gli attacchi all’Ucraina. In una guerra che lo stesso Putin aveva cominciato tre anni prima con l’obiettivo non mancato ma fallito di concluderla in una quindicina di giorni, alla maniera di Hitler ai suoi tempi, pur considerando il paese di Zelensky da “denazificare”, addirittura.

         Il passato di cui è prigioniero Putin è quello naturalmente sovietico: aggettivo, questo, che non a caso ricorre sempre più di frequente nelle cronache politiche quando raccontano della Russia di oggi, dei suoi eserciti e delle sue carceri, dove i dissidenti entrano per uscirne solitamente morti.

         Una tregua all’Ucraina insanguinata e infreddolita è stata appena rifiutata pubblicamente dal Cremlino anche come natalizia. Una ferocia anch’essa sovietica. Che spero non apprezzata alla Casa Bianca almeno dalla moglie di Trump: Melania, come la più celebre dello storico film Via col vento.

Ripreso da http://www.statmag.it

Fra le lucciole e le lanterne delle trattative sulla guerra in Ucraina

         Se alla Casa Bianca non scambiano, o non hanno già scambiato, le classiche lucciole per le altrettanto classiche lanterne ricevendo notizie da Berlino -ma soprattutto da Mosca, dove gli emissari americani sono diventati quasi di casa al Cremlino- mancherebbe solo il 10 per cento per arrivare a un accordo di pace sull’Ucraina. O almeno ad una tregua natalizia propedeutica ad un’intesa. Sarebbe dunque risolto il 90 per cento dei problemi esistenti già prima dell’aggressione russa di quasi quattro anni fa e aggravatasi con una guerra che, nelle intenzioni di Putin, avrebbe dovuto concludersi in una quindicina di giorni con la fuga o l’eliminazione fisica di Zelensky a Kiev.

         Evviva, verrebbe da dire se in quel 10 per cento non ci fosse la parte più difficile del negoziato o della problematica per la pretesa, fra l’altro, dei russi di annettere del famoso Donbass anche la parte che non sono riusciti a conquistare con le armi, per quanto spreco ne abbiamo fatto.

         Attorno al quel 10 per cento ancora mancante, sempre nelle valutazioni di Trump, emissari e consiglieri, si è acceso e sviluppato anche in Italia un dibattito -il solito- di carattere politico e mediatico. Col mediatico prevalente sul politico per toni e immagini. Come quello adottato dalla Verità di Maurizio Belpietro, pur di area generalmente considerata di destra e di governo, o quasi, che ha assegnato in un titolo di prima pagina al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per via di quello che dice e ripete nelle udienze frequenti al Quirinale in questo periodo, un ruolo di guerrafondaio. “Però Mattarella prova a far saltare tutto”, dice quel titolo applicato a un articolo di cronaca e commento insieme.

         Il torto di Mattarella, che a Mosca non gode notoriamente di simpatie, attaccato e svillaneggiato ogni volta che parla in Italia o all’estero, sarebbe più di uno. Innanzitutto la convinzione che ad aggredire l’Ucraina sia stata la Russia e non viceversa, come sostengono i critici delle vecchie aspirazioni ucraine alla Nato e all’Unione Europea: critici fra i quali ci fu a suo tempo anche il compianto Papa Francesco per quella Nato accusata di “abbaiare”. Un altro torto di Mattarella è quello di riconoscere e condividere la difesa ucraina della integrità dei territori, almeno di quelli non ancora conquistati sul campo con una guerra odiosa  di invasione. Il terzo torto sarebbe quello di condividere, coprire, spalleggiare la linea di politica estera del governo Meloni. Quella della presidente del Consiglio, del vice presidente e ministro degli Esteri e del ministro della Difesa. Un po’ meno, diciamo così, quella abusivamente praticata a parole dal leader leghista Matteo Salvini, che Meloni prudentemente ha collocato al Ministero delle Infrastrutture, cioè delle strade, dei porti, delle ferrovie, dei ponti e ponticelli.

Dai giornali di partito all’assalto dei giornali ai partiti….

C’erano una volta i quotidiani ufficiali di partito, spesso vere e proprie fucine professionali di giornalismo, da alcuni dei quali sono uscite firme eccellenti dei giornali non di partito, orgogliosi della loro qualifica di indipendenti. Giornali di partito come l’Unità conunista, l’Avanti! socialista, davanti al cui esclamativo Sandro Pertini mi raccontava, pipa in mano,  di mettersi spesso “sull’attenti”  dirigendolo o solo leggendolo, Il Popolo della Dc, diretto anche dall’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella, La Voce Repubblicana, con la quale si divertì un Giovanni Spadolini reduce dalla direzione addirittura del Corriere della Sera, La Giustizia e poi l’Umanità del Psdi, il Secolo d’Italia del Movimento Sociale e poi di Alleanza Nazionale, dove si formò senza mai rinnegarlo o mostrare imbarazzo un vice direttore del Corriere della Sera come il compianto Gaspare Barbiellini Amidei.

         All’epoca dei molti giornali di partito subentrò nel 1974, col quotidiano il Giornale nuovo fondato da Indro Montanelli dopo il licenziamento dal Corriere della Sera e una breve ospitalità di Gianni Agnelli nella Stampa, l’ora dei giornali partito. Giornali cioè che non prendevano la linea da un partito ma la ispiravano, dettavano e quant’altro. A un partito o più partiti rappresentativi di un’”area”, si diceva. Quello di Montanelli, dove lavorai per una decina d’anni indimenticabili, ispirava una parte della Dc e partiti laici estranei o, per qualche tempo, prigionieri per necessità di quell’antipasto del compromesso storico proposto da Enrico Berlinguer che fu la maggioranza di “solidarietà nazionale”.

         Ad un certo punto, e per un certo tempo, quando si delineò e comparve il famoso “sorpasso” del Pci, Montanelli fra la delusione e i lamenti di amici come Ugo La Malfa o collaboratori e parlamentari liberali come Enzo Bettiza e Cesare Zappulli, si disamorò anche dei laici -lui, laicissimo- per raccomandare ai lettori il voto alla Dc.  Pur “col naso turato” che Giulio Andreotti una volta gli disse, me presente, di “gradire poco, ma non tanto poco da non ringraziare” per i vantaggi che ne ricavava lo scudo crociato.

         Come quotidiano partito, e non di partito, al Giornale rimanemmo soli per un anno e mezzo, non di più. Nel 1976 arrivò nelle edicole la Repubblica di Eugenio Scalfari. Noi contro la prospettiva di un governo, e non solo di una maggioranza transitoria, di democristiani e comunisti, loro -quelli appunti di Repubblica– a favore. A volte ricorrendo anche ai misteri, come a quel Moro postumo dal quale Scalfari raccontò e stampò di avere raccolto l’impegno, prima di essere rapito e ucciso dalle brigate rosse, di portare i comunisti appunto al governo, non più lasciandoli nell’anticamera dell’appoggio esterno.

         Trovammo entrambe -le squadre di Montanelli e di Scalfari- difficoltà economiche nelle quali rischiammo anche la chiusura. Montanelli, in particolare, litigando con Eugenio Cefis, che ci aveva aiutato a uscire con un vantaggioso contratto pubblicitario ma non condivideva i nostri progetti di espansione con edizioni locali i cui costi venivano solo inizialmente coperti da volenterosi imprenditori del posto. E Scalfari litigando metaforicamente con i lettori che non acquistavano la sua Repubblica nella quantità programmata negli investimenti.

         In soccorso di noi del Giornale arrivarono prima l’Iri, con finanziamenti pubblicitari grazie a un intervento di Arnaldo Forlani, dal quale fui mandato in missione da Montanelli conoscendo i nostri amichevoli rapporti personali, e poi un Silvio Berlusconi ricco e rampante al quale sembrò toccare il cielo con un dito diventando editore del giornalista e scrittore più famoso e letto d’Italia. Poi, benedetto Cavaliere, decise a cavallo fra il 1993 e il 1994 di mettere su un suo partito per scalare direttamente Palazzo Chigi e avvertì Montanelli come un incomodo insopportabile perché contrario al solo rischio di diventare il direttore del partito berlusconiano.  Per fortuna non vissi anche quel passaggio, dopo averne provati altri, avendo lasciato il Giornale nel 1983 perché io mi fidavo di Bettino Craxi in politica e Montanelli no, sospettoso della poca riverenza che gli mostrava Bettino. 

         In soccorso di Scalfari, salvandone la creatura ancora in culla o quasi, arrivarono prima la tragedia di Moro, che Repubblica cavalcò superando Montanelli nel sostegno alla linea della fermezza e guadagnando un po’ di lettori, infine i soldi di Carlo De Benedetti. Che poi avrebbe raccontato, a rapporti ormai logorati, di averne versati “a vagonate” al fondatore della testata per acquistane le quote necessarie a possederla davvero. E a trasferirle poi ai figli che avrebbero a loro volta, fra le proteste del padre, cedute al nipote prediletto di Gianni Agnelli, ora deciso a passare la mano a un armatore greco. Kalispèra, si dice in greco, appunto, come hanno già rilevato impietosamente al Foglio, un altro giornale partito che veleggia nelle acque italiane. 

Pubblicato sul Dubbio

Ricambio fotografico nel tesseramento del Pd: da Berlinguer all’Anselmi

         Parola mantenuta da Elly Schlein, dopo avere promesso a suo tempo ai protestatari provenienti dallo scudo crociato, ad esempio Giuseppe Fioroni nel frattempo andatosene via sbattendo la porta, che al posto della foto dell’orgogliosamente comunista Enrico Berlinguer avrebbe fatto stampare sulla tessera di iscrizione al Pd del 2026 la foto di un democristiano. Dagli occhi inusualmente allegri del compianto segretario del Pci la segretaria del Nazareno è passata a quella del viso abitualmente allegro di Tina Anselmi. La mia indimenticata e indimenticabile amica Tina, la più fedele e entusiasta affiliata della corrente di Aldo Moro. La galoppante Tina giunta alla politica dalle attività di partigiana, di insegnante e di sindacalista diventando, fra l’altro, la prima donna ministro nella storia della Repubblica. E ministro tanto fortunato nel suo settore da potersi intestare la riforma istitutrice del servizio sanitario nazionale.

         Pace compiuta allora almeno nel Pd, viste le guerre che tengono banco altrove, non di parole ma di missili, bombe, droni e altre diavolerie di fuoco e di morte? Situazione rasserenata al Nazareno dopo scomposizioni e nascite di correnti di assedio o di condizionamento di una segretaria che, arrivata imprevista al suo posto con l’appoggio più degli esterni o estranei che degli iscritti al partito, si è mossa con troppa disinvoltura per le abitudini di quella che lei preferisce chiamare “comunità”? Per niente.

         Dall’assemblea nazionale svoltasi ieri in concomitanza con la conclusione della festa della destra di una Giorgia Meloni baldanzosa e sicura in sella il Pd è uscito più diviso di prima, ben al di là di quei 225 voti a favore della linea politica esposta dalla Schlein e dei 36 astenuti, più gli assenti generalmente non casuali.

 La segretaria ha annesso alla sua area -per chiamarla alla maniera democristiana- il presidente del partito e già suo concorrente Stefano Bonaccini, cresciuto di peso, di barba  e di sorrisi nell’occasione, ma ha formalizzato in una votazione formale la fine di un certo unanimismo più o meno tattico che le aveva permesso gesti e iniziative brusche e clamorose di cosiddetta discontinuità. Come il sostegno, anzi la partecipazione nella primavera scorsa al referendum abrogativo del cosiddetto jobs act promosso dalla Cgil contro una riforma in materia di disciplina del lavoro voluta fortemente e attuata da Matteo Renzi quando era contemporaneamente segretario del partito e presidente del Consiglio. Un Renzi, peraltro, adesso un po’ masochisticamente e disinvoltamente aggiuntosi, con un suo nuovo e piccolo partito, al progetto di alternativa coltivato da una “testardamente unitaria” Schlein e dal sostanziale renitente Giuseppe Conte. Che ha appena detto, precisato e quant’altro di non sentirsi alleato di niente e di nessuno, indipendente piuttosto da tutti, gratificato tuttavia in sede locale di qualche governatorato a cinque stelle, come in Sardegna e in Campania.

L’occasione dannatamente mancata del confronto diretto fra Meloni e Schlein

         Dannatamente privo di ubiquità, come del resto si lamentava anche Sant’Antonio, ho dovuto seguire a distanza il confronto indiretto, a distanza anch’esso, fra la premier Giorgia Meloni e la segretaria del Pd Elly Schlein. Le ho ascoltate entrambe a Radio radicale: prima la Meloni dalla festa nazionale sua e del suo partito, poi la Schlein dall’assemblea nazionale del partito del Nazareno.

         Nessuna delle due mi ha annoiato. Sono rimasto concentrato a seguirle grazie anche alla mancanza delle immagini che spesso distraggono. Certo, la prima mi ha divertito più della seconda. Alla quale d’altronde anche un simpatizzante dichiarato come il mio amico Paolo Mieli, parlandone di sera in onda– in tutti i sensi- su La 7, ha consigliato di prendere dalla seconda un po’ di ironia. O di non riservarsela solo alla Camera, dove avendola davvero di fronte qualche volta ci prova e ci riesce.

         Ho trovato pertinente, interessante, condivisibile più di una domanda dell’una all’altra. E mi sono chiesto perché mai non avessero voluto porsele direttamente in un faccia a faccia anziché fuggirne entrambe, e non solo una come la Meloni ha rimproverato alla Schlein affondando il coltello come nel burro di un suo fallo di reazione.  

         La segretaria del Pd, invitata alla festa della destra, è fuggita quando la Meloni ha condizionato la sua richiesta di un confronto diretto alla partecipazione anche di Giuseppe Conte, che ambisce non meno della Schlein alla leadership dell’alternativa al governo. La premier, dal canto suo, avrebbe potuto risparmiarsi quella condizione, anziché togliersi solo il gusto di mettere in imbarazzo grazie anche a Conte. Che è stato lesto a inserirsi nel gioco annunciando una disponibilità avvertita con sospetto, a dir poco, se non col panico, dalla Schlein.

         Così è mancato lo spettacolo. O abbiano avuto solo quello di dietro le quinte, che durerà quasi un anno, avendo la Schlein e Conte deciso entrambi -l’una pensando di fregare l’altro e viceversa- di giocarsi la partita della leadership dell’alternativa sotto le elezioni dando la precedenza, per finta o davvero, alle elaborazioni dei programmi dei rispettivi partiti, e accessori, e poi al tentativo di comporli in una sintesi. Non si sono resi conto, nè l’una né l’altro, almeno a mio parere, di favorire così  gioco, partita ed altro della premier  in carica ormai da più di tre anni, in una tenuta per niente ordinaria nella storia della Repubblica e per ciò stesso avvertita anche all’estero, in una congiuntura mondiale peraltro per niente stabile, come un fatto, persino eccezionale.

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Il direttore alla finestra mentre la sua Repubblica di carta cambia editore

         La Repubblica- sempre quella di carta di cui si sta occupando anche il governo, chiamato in causa dagli stessi giornalisti in cerca di protezione pur rappresentandolo abitualmente come un tardo derivato del fascismo, o quasi- è in crisi di identità mentre sta cambiando editore, cioè proprietario.

         Il passaggio dalle mani, dai piedi e infine dal cuore del nipote erede del compianto Gianni Agnelli, che di italiano preferisce la Juve alle auto e ora anche i giornali, costosi da mantenere e difficili forse da sopportare nella loro pretesa di rispondere più ai lettori che all’editore di turno, ha creato in redazione – a Repubblica come anche alla Stampa- un clima di sgomento, paura, insicurezza. A Repubblica, però, più ancora che alla Stampa, perché mentre la prima ha comunque un nuovo editore certo, il ricchissimo armatore greco Theo Kyriacu, la seconda sarà solo in transito nella nuova proprietà. Che ha manifestato già il suo disinteresse a conservarla e una certa fretta di liberarsene. Non il massimo, credo, per una redazione e una testata abituate ad una certa stabilità, diciamo così, di appartenenza intesa come proprietà: gli Agnelli doverosamente al plurale.

         Mentre però la Stampa, in fondo la più debole perché la più minacciata non di uno ma di due passaggi editoriali, è difesa nella sua battaglia sia dal comitato di redazione sia dal suo direttore Andrea Malaguti, corso anche nei salotti televisivi con aria un po’ sanitaria a difendere la creatura, diciamo così, alla Repubblica Mario Orfeo, che la dirige da poco più di un anno succedendo a Maurizio Molinari, mi sembra essersi messo alla finestra. Forse -si è già scritto in qualche cronaca o retroscena- per non compromettere la decisione o la furbizia attribuita all’armatore greco in arrivo di lasciarlo almeno per un po’ al suo posto come pegno almeno di una buona volontà continuista sul piano della linea politica, o delle amicizie e simpatie.

         Al posto del direttore Orfeo si è oggi impegnato a sventolare la bandiera di Repubblica in prima pagina l’ex direttore Ezio Mauro, succeduto a suo tempo al fondatore Eugenio Scalfari su sua stessa designazione, avendolo visto e indicato come il prediletto. O qualcosa di simile, come ha raccontato e spiegato ieri un in una lunga intervista al Foglio il quasi familiare ex senatore Luigi Zanda. Che nel parlare della Repubblica ceduta a Kyriacu da Jhon Elkann dopo essere stata ceduta al nipote di Gianni Agnelli dai figli di Carlo De Benedetti è stato solo un più meno ruvido dello stesso De Benedetti. Il quale sempre al Foglio ha parlato dell’editore in uscita da Repubblica come quasi di un fuggitivo dell’Italia verso gli Stati Uniti. Ma – debbono almeno sperare e i magistrati di competenza- avere esaurito i cosiddetti servizi sociali, alternativi al carcere, come un Berlusconi qualsiasi, procuratigli da contestazioni da codice penale per i suoi rapporti col fisco, oltre che con la madre delusa, a dir poco, dell’eredità assegnatagli dai figli.

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L’uscita di sicurezza di Landini dal Camposanto della Cgil

Neppure il manifesto – dico il manifesto, “quotidiano comunista” orgogliosamente e civettuolmente stampato in rossonella testata ormai storica della sinistra italiana pura e radicale, tanto da essere espulsa dal Pci pragmatico o imborghesito, come gli avrebbero poi rimproverato i brigatisti rossi del famoso album di famiglia sfogliato da Rossana Rossanda- ha ritenuto di dare il suo titolo di copertina allo sciopero generale di Maurizio Landini. Che è sceso nel taglio centrale della prima pagina, dove la prossima volta, di venerdì o lunedì che potrà capitare per allungare il solito ponte, finirà magari in uno dei richiamini bassi, anzi bassissimi.

         Da quelle parti lì, dove si nasce, si cresce e si muore generalmente a sinistra, fra bandiere rosse e slogan più o meno truculenti di lotta, senza il governo che vi aveva aggiunto la buonanima di Enrico Berlinguer per proporre il suo famoso “compromesso storico”, prima di ripudiarlo per rivendicare la “diversità” della sua parte politica; da quelle parti lì, dicevo, hanno avvertito l’aria di crisi che ha nuovamente investito la Cgil, stavolta forse peggio delle altre due volte. La prima fu nel 1985 col referendum tutto politico contro i tagli antinflazionistici apportati alla scala mobile dei salari dal governo del “socialtraditore” Bettino Craxi. Un referendum perduto clamorosamente, o vinto in poche località galeotte come la Nusco dell’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, che non spese una parola nella campagna elettorale a favore del governo sognandone la caduta, tanto gli era indigesto.

         La seconda crisi della Cgil è più recente, risalendo al referendum della primavera scorsa contro la disciplina del lavoro -il famoso jobs act- intestatasi con forza e orgoglioa suo tempo da Matteo Renzi nella doppia veste di segretario del Pd e di presidente del Consiglio. Pur sostenuto, o proprio perché sostenuto con una certa disinvoltura, a dir poco, dal Pd attuale della Schlein, nella linea della cosiddetta discontinuità adottata per rispondere alle attese e pretese soprattutto dei pentastellati di Giuseppe Conte, quel referendum è naufragato nell’astensionismo. Tra miserevoli tentativi di piegare i  numeri alle intepretazioni e letture più cervellotiche.

La Schlein, rimastane scottata in un partito sempre meno rassegnato alla sua guida imprevista, imposta in primarie post-congressuali più dagli esterni ed estranei che dagli iscritti, ha cercato di non farsi coinvolgere più di tanto in questo sciopero generale che non ha scaldato i cuori, ripeto, neppure del popolo del manifesto.

         Non so se basterà questo defilamento tuttavia ad evitare alla segretaria del Pd effetti collaterali del flop di Landini. Che ha pur usato nel suo tentativo di mobilitazione antigovernativa gli stessi argomenti usati dalla Schlein. E, ahimè, da Conte -almeno quello dei giorni pari- con la rappresentazione della pur felice congiuntura italiana apprezzata dalle agenzie di rating e dalle borse come di una “economia di guerra”, addirittura.

         Volente o nolente, di fatto o no, la posizione di Landini nel suo secondo mandato di segretario della Cgil, che scadrà nell’estate prossima, è indebolita. E l’uomo potrebbe essere tentato dall’idea di una uscita di sicurezza nel camposanto, di larghezza variabile, della cosiddetta alternativa al centrodestra. Dove le iscrizioni alla corsa alla leadership sono aperte, a dir poco. Diciamo pure spalancate. Un’ambizione non si nega a nessuno, come il sigaro toscano di una volta o una onorificenza. Donne come la stessa Schlein e la più giovane sindaca di Genova Silvia Salvis e uomini come Conte e Landini, appunto. Uomini la cui convergenza di visioni e interessi potrebbe rivelarsi utile a moltiplicare le difficoltà della segretaria del Nazareno, per quanto orgogliosa delle dimensioni elettorali del Pd, e a fare maturare la famosa, solita imprevedibile soluzione terza, femminile o maschile che potrà rivelarsi.  E ciò nella prospettiva francamente irrealistica, anche per effetto dello sciopero generale appena gestito dalla Cgil, di un’alternativa al governo di Giorgia Meloni.

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L’amaro Landini servito allo sciopero non troppo generale della Cgil

         Oltre che di partecipazione, col meno del 5 per cento di adesioni nei posti di lavoro, è stato anche mediatico il fallimento dello sciopero generale della Cgil di Maurizio Landini contro il governo affamatore del popolo, guerrafondaio e fascistoide nella rappresentazione anche cartellonistica della protesta.

         Nelle edicole già prive della Repubblica di carta, in sciopero contro l’editore che vuole liberarsene, dove quindi si è scioperato due volte, i giornali sono arrivati per lo più ignorando sulle prime pagine dal Corriere della Sera alla Stampa, anch’essa peraltro in vendita pure dal notaio- la prestazione di Landini. Che ci sarà rimasto male.  Non  gli sarà certamente bastata la generosa Unità dell’ancor più generoso  Piero Sansonetti. Persino il manifesto ancora orgogliosamente comunista non ha fatto dello sciopero, dei suoi cortei e delle sue bandiere rosse la copertina di giornata preferendogli la “fredda guerra”, dopo la guerra fredda dei decenni passati, e abbassando la protesta sindacale al taglio centrale della prima pagina, come lo chiamiamo graficamente.

         Si torna indietro con la moviola della storia, ma con un titolo, diciamo così, corretto o aggiornato. Dalle famose “piazze piene e urne vuote” lamentate nel 1948 da Pietro Nenni, affranto dalla sconfitta del “fronte popolare” incautamente realizzato dal leader socialista col Pci di Palmiro Togliatti, si sta passando alle piazze stanche e urne ancora più vuote.

A questo declino Landini pensa forse di sottrarsi cambiando mestiere o postazione: da segretario generale del maggiore sindacato italiano a concorrente di Elly Schlein, Giuseppe Conte, Silvia Salis e altri alla leadership della pur improbabile alternativa al centrodestra, in un campo di incerta definizione o larghezza e di programma sinora assente. Non sono definiti neppure quelli singoli dei due maggiori partiti di opposizione. che sono il Pd e il Movimento ancora chiamato 5 Stelle, di cui però si è affievolita la luce.

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