Quando D’Alema alla Bicamerale delle riforme sostenne la separazione della carriere giudiziarie

In una lunga intervista stesa su due pagine del Corriere della Sera ben meritate, per carità, trattandosi di un esponente storico della sinistra italiana, Massimo D’Alema ha ritrovato una memoria altrettanto lunga di politica internazionale. Carente tuttavia, a dir poco, di politica interna, con particolare riferimento agli argomenti, anzi all’argomento di maggiore attualità in questi giorni: il referendum in arrivo sulla riforma costituzionale della giustizia approvata in via definitiva la settimana scorsa con la quarta votazione del Senato.

         In politica estera, ancora orgoglioso della recente partecipazione come invitato personale al raduno a Pechino dei vertici dell’”ottanta per cento dell’umanità”, per cui gli assenti avrebbero dovuto vergognarsi piuttosto che stupirsi e polemizzare sulla sua presenza, D’Alema ha raccontato i bei tempi in cui anche grazie a lui l’Italia sarebbe stata fra i protagonisti. Altro che adesso -ha sarcasticamente osservato- con la premier Giorgia Meloni “infilata” nelle foto dei vertici internazionali.

         In particolare, l’ex presidente del Consiglio, a capo di due governi in meno di due anni, fra l’autunno del 1998 e la primavera del 2000, portò l’Italia alla partecipazione alla guerra della Nato nei Balcani, quando da sinistra lo accusarono di avere aggirato il Parlamento. Poi la portò  ad intervento di tutela e rafforzamento della pace in Libano ricorrentemente esposto ai conflitti. Infine ad una partecipazione, per quanto di turno, al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Bei tempi, certo, anche sorprendenti per un uomo del passato di D’Alema, “formatosi” alla scuola comunista, come lui stesso ha voluto ricordare parlando del suo presente di “pensionato indipendente”. Come Giuseppe Conte dice abitualmente di sé come “progressista”.

         In politica interna, dicevo, la memoria dell’ex premier -l’unico post-comunista riuscito a passare per Palazzo Chigi, spintovi nel 1998 dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga- la memoria di D’Alema si è accorciata, o spenta.  Non una parola, in particolare, egli ha voluto spendere sul tempo in cui, su designazione persino di Silvio Berlusconi dal fronte opposto, gli capitò di presiedere una commissione bicamerale sulla riforma della Costituzione, fra il 1997 e il 1998. Quando, confortato dall’adesione di compagni di partito come Claudio Petruccioli e Cesare Salvi, che ne sono anche di recente vantati, e guardato a vista con sorpresa e disappunto dall’ancora potente Procura della Repubblica di Milano, egli aprì alla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Si, proprio la separazione, con altri aspetti della riforma arrivata sul binario referendario, su cui stanno guerreggiando tutti i partiti, alcuni dividendosi pur dietro una facciata rumorosa di no. Come proprio il Pd, dove D’Alema è tornato dopo esserne uscito contestando l’allora segretario Matteo Renzi.

         Mi sarebbe personalmente piaciuto leggere D’Alema oggi sulla giustizia e dintorni, diciamo così. Ma la curiosità mi è rimasta nel gozzo. E non posso neppure pensare di poterla soddisfare arrampicandomi sugli specchi di una interpretazione estensiva di un passaggio dell’intervista di D’Alema sul suo ritrovato Pd. Dove egli riconosce alla segretaria in carica Elly Schlein, per quanto contraria alla separazione delle carriere, o forse proprio per questo, “passione e spirito unitario”, ma osserva sconsolato che “il Pd farebbe bene a elaborare una risposta ai problemi molto seri che abbiano avanti”. Una risposta evidentemente mancante. E ditemi voi se è poco. E se la Schlein, leggendo anche lei, non abbia avuto motivo di rimanere in fondo sorpresa. Diavolo di un D’Alema sempre imprevedibile.

Pubblicato su Libero

Grazie a Giorgio Forattini per i suoi…racconti ironici e garbati della politica

         Riconosco al compianto Giorgio Forattini, appena scomparso a 94 anni, il merito di averci- scusandomi del presuntuoso plurale- tanto a lungo fatto sorridere, non ridere della politica. Che lui raccontava e insieme spiegava e commentava nelle sue vignette impietosamente ma con tanto garbo quanto acume, ironia, mai sarcasmo ostile. Che invece qualche volta il pur amico ed estimatore Eugenio Scalfari, sulla sua Repubblica, avvertiva e gradiva così poco da censurarlo.

         Non c’era in lui sconcezza neppure quando avvolgeva nella sua abbondante nudità l’amico Giovanni Spadolini. Che, per quanto spesso permaloso nel sentirsi criticare o attaccare, a Forattini chiedeva addirittura gli originali delle vignette che lo riguardavano per conservarle e gustarsele perché riconosceva in quella nudità quasi fanciullesca “l’odore di bucato” raccontato da Indro Montanelli nel sostenerlo elettoralmente a Milano come candidato al Senato. Prima che gli preferisse, e facesse preferire a molti suoi lettori la Dc, pur turandosi il naso, per evitarne il sorpasso da parte del Pci.

         Un altro che chiedeva, o faceva chiedere a Forattini gli originali di qualche vignetta in cui era disegnato particolarmente curvo nelle sue spalle, con una gobba allusiva ai segreti che custodiva, era Giulio Andreotti. Che ogni tanto si guadagnava dal vignettista anche una coda rossa di Belzebù sporgente dal suo abito rigorosamente nero.

         Non gradì invece, sino a denunciarlo e a farlo allontanare da Repubblica, Massimo D’Alema di vedersi proposto al pubblico come un presidente del Consiglio impegnato a sbianchettare una lista di ex spie politiche italiane dei tempi dell’Unione Sovietica. Se ne scrisse e se ne parlò per qualche mese per i documenti che uscivano ogni tanto dagli archivi segreti di Mosca pagandone i custodi con qualche centinaio o migliaia di dollari.

         Non aveva gradito nel 1974 neppure Amintore Fanfani, disegnato da Forattini come il tappo di una bottiglia di champagne saltato via con la conferma del divorzio nel referendum abrogativo fortemente voluto e sostenuto dall’allora segretario della Dc. Che il predecessore ed ex delfino Arnaldo Forlani, sempre come segretario del partito scudocrociato, aveva prudentemente fatto rinviare due anni prima, sino a preferirgli le elezioni anticipate.

         Non avrebbe gradito più di venti anni dopo neppure il segretario del Pci Enrico Berlinguer avvolto da Forattini in una vestaglia molto borghese, e spaventato con i capelli irti appunto di paura, sentendo arrivare dalla finestra i fischi e le urla di un corteo di protesta dei metalmeccanici in sciopero contro un governo di Andreotti interamente democristiano e sostenuto dai comunisti con l’astensione. Che poi sarebbe paradossalmente diventato voto di fiducia vero e proprio a chiusura di una crisi aperta dallo stesso Berlinguer per far sentire di più il peso del suo partito nella cosiddetta maggioranza di “solidarietà nazionale”. Che era la versione riduttiva del “compromesso storico” proposto dal Pci per partecipare al governo, non per appoggiarlo da fuori.

         Grazie, carissimo Giorgio, di averci così tanto e così a lungo divertiti con la misura del tuo stile inconfondibile e  l’acutezza, ripeto, superiore a tante nostre  cronache, a tanti nostri retroscena, a tanti nostri editoriali. Grazie anche di avere a suo tempo rimproverato alla sinistra di essere stata l’unica ad attaccarlo e a creargli problemi.

Il sarcasmo…abituale di D’Alema contro Meloni, ed anche Schlein

         Avvolto nei suoi ricordi di presidente del Consiglio di ben due governi fra l’ottobre 1998, sostituendo Romano Prodi battuto in Parlamento, e l’aprile 2000, quando dovette passare la mano a un Giuliano Amato un po’ diverso, diciamo così, da quello che era già stato mandato a Palazzo Chigi su designazione però di Bettino Craxi, un ancora orgoglioso Massimo D’Alema si è vantato delle sue gesta di governo parlandone al Corriere della Sera in una intervista rovesciata ieri  su due pagine.

         L’ex premier ha rievocato, fra l’altro, i giorni in cui partecipò all’intervento della Nato nei Balcani e quelli in cui portò, sia pure per rotazione, l’Italia nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Un’Italia, insomma, che contava grazie a lui, sembra di capire dal racconto di D’Alema, che si è contrapposto sarcasticamente alla premier attuale Giorgia Meloni, accusata di una presenza, sì, sul piano internazionale, ma solo “infilandosi nelle foto” dei vertici: non dico da clandestina, senza permesso, ma quasi.

         Il sarcasmo dell’ex premier, arcinoto d’altronde ai cronisti, spesso incorsi anche loro nelle sue battute più o meno feroci raccogliendole, questa volta è stato a dir poco sfortunato. La lunga intervista, raccolta Aldo Cazzullo, si apre proprio evocando una foto in cui D’Alema è infilato, particolarmente a Pechino, fra gli invitati -credo a titolo personale- ad un raduno di vertice di ben “l’80 per cento dell’umanità”, ha detto “Baffino” gonfiandosi sin quasi a scoppiare come una rana. Un raduno di fronte al quale dovrebbero vergognarsi, secondo D’Alema ,gli assenti o perché non invitati, essendo evidentemente considerati irrilevanti a Pechino, o perché, pur invitati, non hanno capito l’importanza della Cina e se ne sono tenuti lontani. Compresa evidentemente la Meloni, che si sarebbe così persa l’occasione d’infilarsi in una foto davvero eccellente.

         Dalla vetta del suo sarcasmo D’Alema ha accettato, su domanda dell’intervistatore, di scendere anche sulle vicende del suo ritrovato Pd, da cui era uscito in odio all’allora segretario Matteo Renzi, ed è poi rientrato, alla caduta dell’infiltrato, pure lui, ed eventi successivi.

 La Schlein “ci sta mettendo passione e spirito unitario”, ha concesso D’Alema con insolita generosità alla segretaria del Pd, senza tuttavia riuscire ancora a fare “elaborare al partito una risposta ai problemi molto seri che abbiamo avanti”. Dal massimo della generosità, ripeto, al minimo valore, o voto. Peggio ancora di quanto vada dicendo e bofonghiando Prodi del Pd, della sua segretaria e degli aspiranti al campo più o meno largo della presunta, improbabile alternativa al centrodestra della Meloni.

Ripreso da http://www.startmag.it

La scommessa referendaria del no sulla fessaggine degli elettori

La filosofia del diritto, almeno ai mei tempi universitari, era una materia da primo anno di giurisprudenza, il cui esame gli studenti affrontavano    fra i primi trovando la materia forse più empatica che facile. Eppure di filosofia vedo ben poco, e quel poco alquanto sottosopra, nella campagna referendaria ormai in corso sulla riforma della giustizia -o della magistratura, come preferisce chiamarla con la sua esperienza Antonio Di Pietro- appena approvata dal Parlamento.

         Il no gridato e reclamato dall’associazione nazionale dei magistrati e dalle sue appendici politiche è spiegato addirittura enfatizzando la pericolosità dei pubblici ministeri con i quali i giudici vorrebbero continuare ad avere una carriera unica. La separazione renderebbe i magistrati d’accusa ancora più forti di adesso. E il governo -con un altro sospetto o ragionamento cervellotico- ne vorrebbe il rafforzamento, dietro un apparente ridimensionamento rispetto al famoso “giudice terzo e imparziale” introdotto 26 anni fa nell’articolo 111 della Costituzione, per poi impadronirsene e metterlo al proprio servizio con un’altra riforma, evidentemente. E così l’intero sistema giudiziario finirebbe alle dipendenze della politica dopo averla sovrastata per una trentina d’anni. Da quando cioè, per pubblica e insospettabile ammissione o denuncia dell’allora presidente della Repubblica, e del Consiglio Superiore della Magistratura, Giorgio Napolitano scrivendone alla vedova di Bettino Craxi, i rapporti fra politica e giustizia, o magistratura, concepiti dai costituenti e rimasti scritti sulla Carta, furono “bruscamente” cambiati.  E ciò all’ombra delle inchieste e dei processi sul finanziamento tanto illegale quanto diffuso dei partiti.

         Mi chiedo di fronte al cervellotico ragionamento dei magistrati associati, e dei loro corifei politici, sino a che punto costoro potranno e vorranno abusare dei loro interlocutori anche a livello referendario, cioè elettorale, potendosi e dovendosi risolvere un referendum, specie quello cosiddetto confermativo, e non abrogativo, contando i sì e i no, senza condizionamenti come una certa partecipazione o affluenza alle urne. Neanche i sofisti dell’antica Grecia, maestri di retorica e dialettica, erano arrivati a tanto.

         Questa di considerare gli elettori così sprovveduti, così fessi, diciamolo pure, è la cosa che più colpisce dell’approccio della magistratura associata e politicizzante, oltre che politicizzata, al referendum sulla riforma costituzionale della giustizia. La cui campagna impegnerà anche i giornali sino alla primavera prossima, in una delle domeniche possibili fra metà marzo e metà giugno. Più a marzo che a giugno, ha per fortuna anticipato il ministro Carlo Nordio senza incorrere fortunatamente, almeno sinora, a qualche nuovo attacco o esposto giudiziario, addirittura, di un avvocato fantasioso premiato da qualche procuratore della Repubblica generoso, a dir poco.

         La politica, come la rivoluzione, non è un pranzo di gala. D’accordo, pur senza spingerci alle immagini fognarie o mattatoriali usate una volta, nella cosiddetta prima Repubblica, dal socialista Rino Formica, che a quasi 100 anni -98, di preciso- ancora interviene nelle polemiche scrivendone in particolare su Domani. Ma anche in una simile visione cruenta, si dovrebbe avvertire un limite di buon senso e di buon gusto. E’ troppo chiederlo anche ai magistrati a corrente unica o separata, che rimanga o diventi?

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmg.it il 9 novembre

Il processo di Travaglio a Di Pietro per il suo sì alla riforma Nordio

         Asserragliato nel suo archivio come in trincea, senza neppure togliersi il casco trattandosi di una guerra di carta, Marco Travaglio ha sparato un po’ di proiettili o di chiodi contro Antonio Di Pietro, che una volta sommergeva di elogi e di ammirazione ospitandolo come un eroe alle feste del suo Fatto Quotidiano. Dove raccontavano in due, passandosi la palla, segreti e meraviglie di “mani pulite”. Così si chiamavano, e si chiamano ancora, le inchieste giudiziarie dei primi anni Novanta sull’abituale, generalizzato finanziamento illegale dei partiti e sulla corruzione che poteva averlo spesso, non sempre accompagnato, come da assoluzioni ottenute poi nei processi da parecchi imputati.

         A Di Pietro un Travaglio appuntito e, lo ammetto, documentatissimo dalla testa ai piedi, ha rinfacciato dichiarazioni e quant’altro, fra il 2000 e il 2013, contro la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Che oggi invece l’ex magistrato un po’ simbolo delle già ricordate “mani pulite” sta difendendo anche nella campagna referendaria ormai giù cominciata contro la riforma costituzionale della giustizia approvata dal Parlamento. O riforma della magistrratura, come preferisce definirla Di Pietro,  Una difesa animata, come tutte le cose di “Tonino”, tra parole, concetti e smorfie, dagli attacchi dell’associazione nazionale dei magistrati, di cui l’ex sostituto procuratore della Repubblica si vanta di non avere mai fatto parte, conoscendone la politicizzazione derivante dalle correnti simili a partiti.

         Pur con tutta la sua documentazione, o proprio a causa di essa, e con la vigilanza professionale che esercita, Travaglio alla fine della sua rassegna dei no di Di Pietro alla riforma che invece oggi sostiene, si è chiesto chi, come e perché abbia convinto del contrario l’ex magistrato. Al quale ha quindi negato la capacità, possibilità e quant’altro di cambiare opinione da solo. Magari convinto solo dagli errori, eccessi eccetera compiuti dagli ex colleghi almeno da dodici anni a questa parte, risalendo al 2013, ripeto, le sue ultime dichiarazioni contro la separazione delle carriere. Cui  si  è aggiunto dell’altro nella riforma intestatasi dal ministro della Giustizia Carlo Nordio –“Mezzolitro”, lo chiama il direttore del Fatto Quotidiano– e definita orgogliosamente “storica” dalla premier Giorgia Meloni.

         “Chissà cosa è successo”, si è chiesto Travaglio prima di firmarsi. E’ successo semplicemente, o odiosamente per il sorpreso, incredulo giornalista, che Di Pietro ci ha ripensato, essendo un uomo dotato di cervello e non un paracarri dotato solo di cemento, magari armato.  

Più che sui magistrati, si voterà su chi deve governare l’Italia

A prima vista, considerandone i titoli, il referendum in arrivo sulla giustizia si ricollega a quello del 1987 sulla responsabilità civile delle toghe. Per evitare il qualela Dc di Ciriaco De Mica provocò la crisi del governo di Bettino Craxi e la fece chiudere, con l‘aiuto del Pci di Alessandro Natta, con le elezioni anticipate.

Seguì il rinvio della prova referendaria, ma di pochi mesi, con uno strappo alla regola di almeno un anno imposto dal pur perdente Craxi. Che si prese la rivincita, con i radicali di Marco Pannella che lo avevano promosso assieme ai socialisti, vincendo il referendum voluto per far cessare il privilegio dei magistrati di non rispondere dei danni che procuravano.  Ma fu purtroppo una rivincita effimera, perché la irresponsabilità civile dei magistrati fu di fatto reintrodotta con una legge scrittasi dai magistrati al Ministero della Giustizia col permesso della buonanima del guardasigilli pur socialista Giuliano Vassalli.

         A prima vista, dicevo, si torna al 1987. Ma, se non ci si lascia distrarre dai titoli e si scende alla sostanza delle cose, il referendum in arrivo sulla riforma intestata a Carlo Nordio che la premier Giorgia Meloni ha giustamente definito “storica”, è paragonabile a quello del 1985 su tutt’altro argomento apparente: i tagli antinflazionistici alla scala mobile dei salari, apportati nel 1984 dal governo Craxi. Più che su quei tagli, peraltro modesti quantitativamente ma contestati dal Pci ancora di Enrico Berlinguer sino ad imporre al pur recalcitrante segretario generale della Cgil Luciano Lama la promozione di un referendum abrogativo, il referendum era su chi potesse e dovesse governare in Italia. Se il governo, appunto, in un sistema parlamentare, con la fiducia delle Camere, o per i temi sociali i sindacati e il Pci. Vinse l’anno dopo, anzi stravinse Craxi, con Berlinguer ormai morto.  Fra le poche località in cui Craxi non vinse cu fu Nusco, il paese irpino di De Mita, che nella campagna referendaria aveva speso poche parole, anzi nessuna.  

 Seguì una crisi irrecuperabile del Pci, finito poi fra le macerie del muro di Berlino pur dopo gli effimeri guadagni politici ricavati della rivoluzione giudiziaria delle cosiddette mani pulite.

         Meloni con questo referendum in arrivo, 40 anni dopo una stagione che la vedevano allora solo bambina, cresciuta però in fretta e abbastanza, intende ristabilire col referendum in arrivo chi governa in Italia in tutti i sensi: se il governo, appunto, o i magistrati e corifei che l’accusano di volere “pieni poteri”. Quelli che il primo sottosegretario della premier, Alfredo Mantovano, con l’esperienza che gli deriva anche dalla professione giudiziaria a lungo esercitata, ha spiegato bene in cinque minuti, l’altra sera con Bruno Vespa dopo il Tg1, detiene ed esercita invece la magistratura con la carriera unica di giudici e pubblici ministeri. E con il Consiglio Superiore della Magistratura praticamente gestito dalle correnti del sindacato-partito delle toghe, anche nei suoi aspetti disciplinari.

         E’ questa realtà, nella quale la magistratura è cresciuta dopo aver messo nell’angolo la politica una trentina d‘anni fa col pretesto di combattere la corruzione derivante direttamente o indirettamente dal finanziamento illegale dei partiti; è questa realtà, dicevo, che la Meloni ha deciso di mettere in discussione con la riforma appena approvata in Parlamento e col referendum che seguirà.  E lo ha fatto con più coraggio ancora di Craxi sul piano sociale e sindacale, perché questo referendum è confermativo, senza quorum e altre assicurazioni, e non abrogativo, come quello di 40 anni fa sui tagli alla scala mobile dei salari. Avete capito la premier, anzi il presidente del Consiglio come la Meloni vuole essere chiamata, al maschile? Cammina nella politica interna con lo stesso passo della politica estera. E il Pd cammina come il Pci del 1984-85, anche se la segretaria Elly Schlein mostra di non accorgersene. E fa spallucce a chi invece se ne accorge e lamenta al Nazareno e dintorni.

Pubblicato su Libero

Nicola Gratteri gela le aspettative politico-referendarie del Pd

“Mi batterò contro la riforma, ma non contro Meloni…Non mi cimenterò in battaglie politiche, che lascerò ad altri, anche perché se al referendum vincesse il no, non ci sarebbe nessuna ripercussione sul governo”. Lo ha detto al Foglio Nicola Gratteri, mancato ministro della Giustizia con Matteo Renzi, la cui proposta di nomina fu bocciata dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano trattandosi di un magistrato ancora in servizio. Ora egli è il capo della Procura della Repubblica di Napoli, ma soprattutto, in questo percorso referendario, un testimonial, se non il testimonial della campagna del no al referendum sulla riforma costituzionale sulla giustizia. Che pur contiene quel sorteggio anticorrentizio per la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura, da dividere in due come le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. Cui invece egli è contrario per risparmiare ai cittadini dei pubblici ministeri, com’è anche lui, ancora più forti di oggi, sostiene Gratteri con inconsapevole autocritica.

         Più delle contraddizioni in cui finisce di incorrere come lui, al pari di quanti in passato sono stati sostenitori della separazione delle carriere giudiziarie e ora non più, colpisce della posizione di Gratteri l’effetto di gelata sul Pd di Elly Schlein. Che è stato appena accusato dal non sospettabile Claudio Petruccioli – suo elettore dichiarato pur sempre più a corto, ha ammesso, di ragioni per motivarsi- di cavalcare il referendum sulla giustizia come una spallata al governo di centrodestra. Che, ripeto, secondo Gratteri sopravviverebbe anche ad una sconfitta referendaria. Il presidente del Senato Ignazio La Russa ripeterebbe quello che si è lasciato scappare sulla separazione delle carriere parlandone nella buvette di Palazzo Madama e chiedendosi se il gioco valesse la candela”. O “il candelabro”, ha cercato poi di scherzarci sopra il ministro della Giustizia Carlo Nordio.

         La partita referendaria nello scenario descritto da Gratteri rischia di concludersi per il Pd peggio ancora di quella altrettanto rumorosamente ingaggiata 40 anni fa dal progenitore Pci. Che usò, anzi impose alla Cgil un referendum abrogativo dei tagli pur antinflazionistici apportati alla scala mobile dei salari dal governo di Bettino Craxi volendone denunciare e sconfiggere la stessa prepotenza oggi rimproverata da sinistra al governo Meloni in tema di giustizia. Allora il Pci perse clamorosamente, entrando in una crisi dalla quale non si sarebbe più ripreso, per avere perduto numericamente. Adesso il Pd rischia -parola, ripeto, dell’insospettabile Gratteri- di mancare la spallata al governo pur vincendo con i no alla riforma.

         Più sfigata di così, dico con la licenza dell’ironia, non potrebbe essere il Pd della Schlein. E pure gli altri che gli stanno andando appresso in questa partita, o ai quali è stata la Schlein ad andare appresso per non perdere, per esempio, il contatto con Giuseppe Conte. Il cui partito ancora delle 5 Stelle è il più allineato, o il più subordinato politicamente, all’associazione nazionale dei magistrati.

Destinato al Dubbio

Ripreso da wwwsartmag.it il 2 novembre

Pubblicato sul Dubbio il 5 novembre

Il ritorno consolante di Tonino Di Pietro a prima di mani pulite….

         Ad Antonio Di Pietro, 75 anni compiuti il 2 ottobre scorso, già segretario comunale, già commissario di Polizia, per non parlare di precedenti lavori modesti e precari, già magistrato, già fondatore di un partito, già ministro, ora avvocato e coltivatore diretto nella sua Montenero di Bisaccia, in Molise, sono andate sicuramente storte foto, titoli e vignette su Silvio Berlusconi padre naturale della separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Ma anche d’altro della riforma costituzionale della giustizia ora in attesa solo della conferma referendaria. Berlusconi sarà forse rimasto nella memoria di Di Pietro l’indagato e poi plurimputato  che lui da sostituto procuratore della Repubblica a Milano si propose al capo dell’ufficio Francesco Saverio Borrelli di “sfasciare” in un interrogatorio derivante da un avviso a comparire notificato a mezzo stampaall’allora presidente del Consiglio. Che peraltro solo qualche mese prima aveva offerto a lui e al collega Pier Camillo Davigo di entrate come ministri nel suo primo governo.

         “Tonino”, come amici e titoli di giornali continuano a chiamarlo, sarà rimasto male, ripeto, ma non tanto -almeno sinora- per cambiare idea sulla riforma della giustizia appena approvata dal Parlamento, che lui preferisce chiamare riforma dei magistrati. Di Pietro ha annunciato e ripetuto, anche o persino al Fatto Quotidiano, che voterà a favore nel referendum confermativo. Ritenendo la separazione delle carriere giudiziarie conforme al processo di tipo accusatorio adottato un po’ memo di 40 anni fa, e una balla quintessenziale la paura avvertita dai suoi ex colleghi di vedere compromessa l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati garantite dall’articolo 104 della Costituzione, non toccato dalla riforma. Io aggiungerei, in verità, anche il 112, brevissimo, e neppure esso toccato dalla riforma, sulla obbligatorietà dell’azione penale da parte del pubblico ministero. Anche a carriera separata da quella dei giudici introdotta dalla riforma.

         A costo di sorprendervi, la posizione di Di Pietro su carriere, ex colleghi e quant’altro toccato dalla riforma in attesa di conferma referendaria non mi ha meravigliato. Egli mi sembra tornato, dopo tanti anni in cui  circostanze personali e professionali di vita, l’esposizione mediatica e altro ancora lo avevano in qualche modo travolto, alle origini. A quella volta in cui, per esempio, ospiti entrambi a pranzo, con Fedele Confalonieri, dell’architetto Claudio Dini, che ne sarebbe poi diventato imputato nella vicenda giudiziaria delle cosiddette mani pulite, ebbi istintiva simpatia per quel Di Pietro ruspante di poche e dirette parole, costretto a difendersi con un tovagliolo indossato come un impermeabile dagli schizzi di sugo che si procurava mangiando con foga gli spaghetti.

         Riprovai simpatia per lui, ma a distanza, quando i colleghi della giudiziaria al Giorno, che dirigevo, mi anticiparono la notizia poi diffusa anche dalle agenzie del “sostituto” Di Pietro chiuso nel suo ufficio in Procura, a Milano, con un cartello appeso alla porta in cui si vantava di non partecipare ad uno sciopero indetto dall’associazione nazionale dei magistrati contro l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che mi chiamò al giornale per chiedermi se conoscessi quel “coraggioso e temerario magistrato”. E io me ne vantai raccontandogli di quel pranzo da Dini.

         Debbo dire che, anche a mani pulite aperte, Antonio Di Pietro seppe interrompere il mio stupore per la piega presa dalle indagini e dalla loro rappresentazione, quando in Piazza della Scala ci incrociammo per caso e lui, allontanati gli uomini della scorta, tenne a dirmi che le anticipazioni appena comparse sulle agenzie di un coinvolgimento di Bettino Craxi nella bufera giudiziaria non erano derivate dalle “carte” inviate dalla Procura alla Camera. E girate alla giunta delle autorizzazioni a procedere da una cui riunione ogni tanto usciva il verde Mauro Paissan per distribuire annunci e allusioni a carico del leader socialista.

Pubblicato su Libero

Blog su WordPress.com.

Su ↑