Prodi reclama da Trump più di mille tonnellate d’oro italiano

Se non ci fosse, con i suoi 86 anni ben portati, con le sue sorprese, i suoi spiazzamenti, le sue contraddizioni, i suoi buonumori e malumori, che possono portarlo a gesti anche sgradevoli come quelle mani finite tra i capelli di una cronista troppo curiosa o irreverente, Romano Prodi dovremmo inventarcelo per non rendere monotone le nostre cronache politiche. E persino le analisi, quando ci avventuriamo a farne per capire, per esempio, come possa essere capitato proprio a Prodi di vincere due volte le elezioni contro Silvio Berlusconi, come ricordano nei salotti televisivi che lo ospitano, ma di non essere mai durato all’incirca più di un anno mezzo, sui cinque di una legislatura, quando gli è toccato di governare da Palazzo Chigi, una volta trascinandosi appresso nella caduta le Camere.  Peggio di una seduta spiritica, di cui pure egli fu partecipe ai tempi del sequestro di Aldo Moro scampando all’arresto, cui chiunque sarebbe incorso al suo posto raccontando di avere appreso dallo spirito di La Pira il nome di una località chiave – Gradoli- di quella drammatica vicenda cominciata con il sequestro dell’allora presidente della Dc, fra il sangue della sua scorta, e conclusa dopo 55 giorni col suo assassinio.

         L’ultima, o penultima, dell’ex premier fondatore prima dell’Ulivo e poi dell’Unione, è una specie di sfida lanciata a Gorgia Meloni a riscattarsi dalla figura da lui stesso assegnatagli di obbediente al presidente americano Donald Trump con la decisione di chiedere, quanto meno, la restituzione all’Italia di quelle mille tonnellate e più d’oro custodite da troppo tempo nel forziere statunitense di Fort Knox.

         Quella di riprendersi l’oro italiano custodito in America non è neppure un’idea originale, a dire il vero, essendo stata sostenuta dalle opposizioni di turno, anche dalla Meloni prima di arrivare alla guida del governo, come  ha tenuto a ricordare il Corriere della Sera in una cronaca della sortita di Prodi. Ma è un inedito, nel caso dell’ex premier di centrosinistra, con la motivazione un po’ sovranista, o nazionalista, di una prova di autonomia, di affrancamento da un alleato diventato troppo oneroso o inaffidabile. Anche a costo di non avere nei forzieri della Banca d’Italia lo spazio per sistemare i lingotti soprapponendoli o accostandoli alle mille tonnellate e cento già presenti. Per farne poi cosa?, verrebbe da chiedere a Prodi nella sua veste di economista, e non solo di polemista di turno. O di ex contrariato anche dal silenzio in cui cadono i suoi consigli e lamenti, pur giustificati, nel partito di cui la segretaria attuale voleva occupare sedi e sezioni per vendicare proprio lui, trafitto in una corsa al Quirinale dai soliti, immancabili “franchi tiratori” nominalmente amici. Consigli o lamenti, o moniti, per la mancanza, per esempio, di un minimo di programma che renda visibile e realistico un progetto di alternativa al centrodestra.

         Prodi “esagera”, si è lasciato scappare di recente il più paziente o sornione Pier Luigi Bersani, che peraltro da segretario del Pd  fu il regista e gestore della sua improvvisa e sfortunata candidatura alla Presidenza della Repubblica nel 2013, alla scadenza del primo mandato di Giorgio Napolitano, e dopo il fallimento della prima candidatura del Pd alla successione: quella del presidente dello stesso Pd Franco Marini, condivisa anche da buona parte, se non tutto il centrodestra. Che ne ricordava e apprezzava la passata militanza democristiana, fra le correnti di Carlo Donat-Cattin e  di Giulio Andreotti, dopo la morte del leader della sinistra sociale dello scudo crociato.

         Non vorrei che a fare la guardia all’oro ricomposto della Banca d’Italia finisse, tra scherzo e realtà, uno come il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, impegnato con i suoi scioperi generali di venerdì a preparare una “festosa” rivoluzione sociale, direbbe forse Achille Occhetto con l’esperienza fallita della sua “gioiosa macchina da guerra” allestita nel 1994 contro quell’imprevisto guastafeste di Silvio Berlusconi.

Pubblicato su Libero

Il telefono rovente del governatore di Banca d’Italia Panetta, anche con Giorgetti

         Mi risulta che il governatore Fabio Panetta, che peraltro Giorgia Meloni tre anni fa avrebbe voluto sottrarre alla  prestigiosa carriera nella Banca d’Italia per farne il ministro dell’Economia del suo primo governo, abba fatto diventare rovente in questi giorni il suo telefono. Ma più in uscita che in entrata, più per cercare di chiarire, precisare e quant’altro, non so sino a che punto riuscendovi, che per ribadire le osservazioni critiche dei suoi uffici al bilancio dello Stato. E, più in generale, alla politica economica del governo sino a trovarsi allineato, e persino offrire argomenti alle opposizioni tornate -se mai avevano smesso- a reclamare misure di lacrime e sangue per i “ricchi”. Con tutte le virgolette che meritano i detentori di stipendi persino di duemila euro al mese.

         Le telefonate hanno raggiunto anche qualche direttore di giornale: a uno, in particolare, del quale non posso fare il nome per ragioni di riservatezza personale e professionale pur non di moda in questi tempi, cui il governatore ha promesso approfondimenti, se non ripensamenti o addirittura scuse, mostrandosi alla fine della conversazione meno sicuro, diciamo così, dei suoi rilievi.  

         Il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, il cui ciuffo frontale di capelli bianchi mi sembra cresciuto col governo Meloni sino a ricordarmi il compianto Aldo Moro, ha fatto seguire alla telefonata ricevuta da Panetta dichiarazioni alquanto polemiche come uomo di governo “massacrato” da “chi può farlo”, ha detto alludendo per primo -credo- proprio al governatore della Banca d’Italia per l’importanza o persino sacralità della sua carica.

 La buonanima di Ugo La Malfa considerava gli uomini- tutti uomini- che si succedevano in via Nazionale al vertice della banca centrale inviolabili e inattaccabili. E fece un cazziatone dei suoi – memorabili a noi giornalisti che ne ricevevamo spesso, sino a sentirci dare dei “pennivendoli”- al figlio Giorgio quando ne lesse parole poco riverenti, secondo lui, per la Banca d’Italia. E’ stato lo stesso Giorgio a rivelarlo di recente in una intervista evocatrice del padre e della Repubblica -quella vera, non di carta- della quale era riuscito ad essere fra i protagonisti pur disponendo di un partito quasi di qualche decimale di voti. Che con la buonanima di Giovanni Spadolini precedette il Psi di Bettino Craxi nella scalata laica a Palazzo Chigi.

Ripreso da http://www.startmag.it

Quel “mai” della Meloni che è persino un assist alla segretaria del Pd

         E’ stata ed è manna per la segretaria del Pd Elly Schlein il “mai” opposto dalla premier Giorgia Meloni alla proposta della tassa patrimoniale proposta dal Nazareno inseguendo la Cgil di Maurizio Landini. Una tassa non condivisa, nel cosiddetto campo largo della pur improbabile alternativa al centrodestra, dall’ex premier Giuseppe Conte in una sorprendente, a dir poco, sintonia con Matteo Renzi e altri attendati -da tenda- del cosiddetto centrosinistra, con o senza il trattino delle polemiche del secolo scorso.

         L’aiuto ricevuta dalla Meloni sta nel ruolo di antagonista principale assegnata alla segretaria del Pd dalla premier nel momento in cui questa, poco importa se a caso o apposta, ha accantonato o rallentato l’inseguimento di Conte. Che è la cosa sempre più contestatale dai riformisti e affini del Pd, sino a metterne in discussione pubblicamente una leadership anche di governo.

         Un campo largo ristretto o indebolito dalla rottura della coppia Schlein-Conte serve alla premier, dietro la facciata di uno scontro più duro e diretto fra lei e la segretaria del Pd, per rendere più evanescente il progetto dell’alternativa, considerando la consistenza elettorale e sondaggistica dei partiti che vi ambiscono. Questa è scuola politica, dalla quale proviene la pur giovane Meloni e che ne spiega la capacità di tenuta a più della metà legislatura. Il cultore Sabino Cassese ha recentemente scomodato persino il fantasma pur opposto di Palmiro Togliatti per apprezzare il pragmatismo e l’astuzia della premier in carica.      

Torna la strategia della tensione per ora solo sociale, gestita dalla Cgil di Landini

Il venerdì dello sciopero generale del 12 dicembre prossimo non ha solo l’inconveniente, chiamiamolo così, lamentato dalla premier Giorgia Meloni, fra le proteste del segretario generale della Cgil Marcello Landini, di precedere il sabato e di allungare così il ponte di fine settimana. Un inconveniente diventato abituale, al quale Landini si illude di potere credibilmente rispondere facendo l’offeso a nome di chi sciopera perdendo la paga di giornata. Che è certamente un sacrificio, per carità,  ma evidentemente sempre più sofferto e difficile da ottenere se occorre incentivarlo in quel modo, o facendo cadere lo sciopero di lunedì, sempre con l’effetto di allungare il ponte di turno. E ciò senza che nessuno ne contesti mai i conti e i costi per non sentirsi accusato di fascismo ed eversione per la tutela costituzionale del diritto di sciopero. Condizionato tuttavia al rispetto di una legge ordinaria prevista dalla stessa Costituzione ma che il segretario generale della Cgil ha recentemente rivendicato il diritto di non rispettare. O ha contestato chi ne pretendeva l’applicazione nell’esercizio delle funzioni di garanzia affidatagli.

         Il venerdì, ripeto, dello sciopero del 12 dicembre prossimo ha anche l’inconveniente di cadere nel 56.mo anniversario di un altro venerdi. E’ quello in cui nacque o esplose, come preferite, la cosiddetta strategia della tensione con una bomba nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, qui a Milano, in cui persero la vita 17 persone e rimasero ferite 88.

Fu una strategia della tensione perseguita col terrorismo, prima nero e poi rosso, finalizzato a destabilizzare il Paese e i suoi governi di turno: da quello presieduto nel 1969 dal democristiano Mariano Rumor a quelli che lo seguirono. Compresi i due governi monocolori democristiani di Giulio Andreotti appoggiati esternamente dal partito comunista di Enrico Berlinguer con una maggioranza denominata di “solidarietà nazionale”. Il cui regista, regolo o come altro vogliamo o possiamo ancora definirlo, fu il presidente della stessa Dc Aldo Moro, sequestrato quasi sotto casa nel 1978 fra il sangue della scorta e ucciso pure lui dopo 55 giorni di prigionia in un covo gestito, fra gli altri, da una donna spentasi in libertà proprio in questi giorni. Vengono i brividi solo a scriverne.

         Ora viviamo, con gli scioperi di venerdì generosamente ricordati solo per questo dalla premier, una stagione di tensione sociale. Sociale da sindacato, per fortuna non unitario perché Landini è riuscito con la sua Cgil ad assumerne guida e gestione sostanzialmente esclusive. Ma mi chiedo con la malizia un po’ connaturata alla professione giornalistica, e con l’esperienza purtroppo accumulata assistendo e raccontando eventi come quelli del 12 dicembre 1969, preceduto peraltro anch’esso da uno sciopero generale, e mesi ed anni successivi, se e sino a quando rimarrà una tensione sociale.

Di quest’ultima Landini si è recentemente e imprudentemente vantato perseguendo un rivolgimento, o qualcosa di simile. E con ciò mettendosi di fatto, consapevole o a sua insaputa poco importa, in gara nella corsa alla leadership del campo a grandezza variabile dell’alternativa al centrodestra avvertito e vissuto a sinistra come un permanente attentato alla democrazia. Un corsa alla quale partecipano o si iscrivono di giorno in giorno, o si lasciano iscrivere da cronache, retroscena  e simili, la segretaria del Pd  Elly Schlein, l’ex presidente del Consiglio a 5 Stelle Giuseppe Conte, la sindaca di Genova Silvia Salis, il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, il sindaco di Milano Beppe Sala, l’assessore capitolino Alessandro Onorato, della scuderia quasi personale di Goffredo Bettini, l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini altri ancora ai quali faccio il torto di non nominarli per difetto di memoria, scusandomene con i lettori e i diretti interessati.

Pubblicato su Libero

Venerdì 12 dicembre 2025, come un venerdì di cinquantasei anni fa

         Fu di venerdì anche il 12 dicembre 1969, quando la Repubblica “perse l’innocenza”, come si scrisse alludendo alle manine e manone dei servizi segreti negli attentati terroristici, inizialmente targati di destra, per piegare con la famosa “strategia della tensione” la democrazia italiana sull’onda della contestazione dell’anno prima. Cinquantasei anni fa persero la vita 17 persone e rimasero feriti in 88 con la bomba esplosa nel pomeriggio nella sede milanese della Banca nazionale dell’agricoltura, in Piazza Fontana, a due passi dal Duomo. Dove si svolsero poi i funerali delle vittime col presidente del Consiglio Mariano Rumor terreo in volto. Alla cui vita poi si sarebbe anche attentato.  

         Da allora nulla tornò come prima nella storia della Repubblica. Tutto continuò a peggiorare, tra attentati e sommovimenti politici. Fu necessario, per uscirne, o per cominciare ad uscirne, un passaggio anche istituzionalmente straordinario, col ricorso ad una maggioranza di cosiddetta “solidarietà nazionale” che sospese la distinzione e la concorrenza, normali in una democrazia, fra maggioranza e opposizione. Un passaggio tuttavia che non bastò, ma forse provocò, o accelerò il sequestro del presidente e regolo della Democrazia Cristiana Aldo Moro, lo sterminio della scorta e dopo ben 55 giorni di prigionia, penosa e al tempo stesso di ancora peggiore sfida allo Stato, l’eliminazione anche dell’ostaggio. Che avvenne in una rincorsa anch’essa drammatica fra i terroristi divisi sulla esecuzione della loro infame sentenza di morte e i tentativi dell’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, che avrebbe poi pagato il suo proposito con le dimissioni impostegli dal suo stesso partito e dal Pci, di scongiurare il tragico epilogo della vicenda graziando una dei tredici detenuti con i quali i brigatisti rossi avevano preteso di scambiare il loro prigioniero.

         Mi direte che è esagerato, più ancora dell’ironia opposta dalla premier Giorgia Meloni agli scioperi indetti a ridosso dei week end per allungarli, il mio ricordo degli anni della strategia della tensione per rapportarli alla stagione sindacale che sta cavalcando il segretario generale della Cgil Maurizio Landini. Che ha appena proclamato per venerdì 12 dicembre prossimo lo sciopero generale contro i conti e, più in generale, la politica del governo di centrodestra da lui odiatissimo. Osteggiato, fra annunci e propositi di sommovimenti sociali, con una durezza, una perseveranza, dopo la parentesi dei sorrisi scambiatisi con la premier ad un congresso della Cgil, che ne fanno, a caso o apposta, il capo del cosiddetto campo largo dell’alternativa. Dove la segretaria del Pd Elly Schlein e l’ex presidente del Consiglio, ora presidente solo di ciò che resta del movimento 5 stelle, Giuseppe Conte si contendono nello scenario mediatico la leadership. Poveri illusi.

         Credo che nel nostro Paese ne abbiamo viste e vissute abbastanza per non temere  di esagerare. E per non abbassare mai la guardia.   

Ripreso da http://www.startmag.it  

Come le opposizioni rimestano di tutto contro il governo

         Consapevoli o non, a caso o apposta, la Banca d’Italia e l’Istat – tra giudizi sui conti all’esame del Parlamento e rilevazioni in forza delle quali notoriamente può accadere che in due possiamo risultare avere mangiato un pollo ciascuno mentre in realtà uno solo può averne mangiato due e l’altro solo averne cercato i resti fra gli avanzi- si sono lasciati arruolare dalle opposizioni nella guerra o guerriglia contro il bilancio dello Stato predisposto dal governo. Per conto del quale il paziente, per quanto leghista, ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha cercato di difendersi. E non solo, come avranno magari sospettato gli avversari suoi e di Giorgia Meloni, per guadagnarsi la nomina a presidente del Consiglio quando l’attuale premier, confermata fra due anni nel rinnovo delle Camere, potrà essere eletta dopo altri due al Quirinale.

         Dell’Agenzia delle Entrate le opposizioni hanno invece tentato in questi giorni l’arruolamento tra i favoreggiatori, quanto meno, di pratiche sostanzialmente evasive della Meloni, riuscita, consapevole o no delle pratiche curate dai suoi assistenti, diciamo così, a farsi accatastare come villino la villa che ha a suo tempo acquistato e arricchito di una piscina. L’Agenzia delle Entrate, spontaneamente o sollecitata non dico direttamente dalla premier ma da qualche amico, a dir poco, è intervenuta nelle polemiche per ribadire la legittimità dell’accatastamento del villino Meloni in categoria A7, che precede l’A8 della villa di lusso.

         Coi tempi che corrono, e che temo destinati a sopravvivere anche all’eventuale e auspicabile conferma referendaria della riforma generosamente intestata alla Giustizia, con la maiuscola, non si può escludere che l’Agenzia delle Entrate incorra prima o poi, magari su esposto di qualche oppositore cosiddetto onorevole, o avvocato a corto di clienti e di lavoro, nell’attenzione e nelle indagini della Procura della Repubblica.        

Anche il fantasma di Dalemoni sul referendum per la riforma della giustizia

Col traffico di firme ed altro fra le Camere e   il palazzaccio romano della Cassazione è ormai cominciato il percorso referendario della riforma costituzionale della giustizia, esauritosi quello parlamentare. Ferve il dibattito politico, sindacale, culturale, accademico fra e dentro le comunità che vi sono interessate, sicuramente più degli elettori che saranno chiamati alle urne in primavera per confermare o bocciare le modifiche apportate dal Parlamento all’ordinamento giudiziario, e dintorni.

         Risulta assordante, come si suol dire in queste occasioni, il silenzio sino impostosi sulla materia, pur parlando molto di altro, di recete su ben due pagine del Corriere della Sera, una personalità della politica di una certa competenza della  materia accumulata nella sua attività di parlamentare e di autorevole esponente, quanto meno, della sinistra. E’ Massimo D’Alema, che prima di arrivare al vertice del governo come unico post-comunista nella storia della Repubblica italiana, fu presidente bipartisan di una commissione bicamerale per le riforme costituzionali. Bipartisan, perché sostenuto anche dall’opposizione allora capeggiata da Silvio Berlusconi, che lo preferì ad altri concorrenti della maggioranza. Nacque anche da quella scelta il personaggio “Dalemoni” inventato da Giampaolo Pansa nelle sue cronache indimenticabili. Robe d’altri tempi, davvero.

         In quella commissione lo stesso D’Alema e altri compagni di partito che in questi giorni se ne vantano ancora, dissentendo dal no referendario già anticipato dal Pd di Elly Schlein, aderirono alla prospettiva di una separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Che è il perno della riforma intestatasi dal ministro in carica della Giustizia Carlo Nordio, anche se molti considerano altrettanto importanti, se non ancora di più, la separazione parallela del Consiglio Superiore della Magistratura, l’adozione del sorteggio per la composizione e la cosiddetta alta corte disciplinare. Con e nella quale i magistrati finiranno di giudicarsi, su quel profilo, da soli. Che non è francamente in bel fare per uomini che, dopo avere vinto un concorso, per quanto difficile, per carità, dispongono dei cittadini come nessun altro.

         Sarebbe bello, o quanto meno curioso, senza ricorsi alla privacy e simili trattandosi di una personalità politica di rango come la sua, se D’Alema facesse sapere se è rimasto dell’idea di quando fu presidente della già ricordata commissione bicamerale delle riforme, o ha cambiato idea anche lui, come altri della sua parte. E perché? Se per i contenuti della riforma approvata dalle Camere o per non ritrovarsi pure lui in compagnia delle foto di Berlusconi portate in processione dai suoi eredi e amici politici per le strade come il padre più autentico della separazione delle carriere giudiziarie: più ancora del compianto Giuliano Vassalli che la concepì, diciamo così, riformando a suo tempo il processo. Che poi fu messo in Costituzione, con la riforma dell’articolo 111, come “giusto” e svolto “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Parola, ripeto, di Costituzione.

        Non è certamente un tapino come il sottoscritto che deve ricordare tutto questo a D’Alema, visto anche -peraltro- che lo ha riconosciuto, pur fra la sorpresa dell’associazione nazionale dei magistrati della quale non ha mai fatto parte, l’ex sostituto procuratore simbolo di “Mani pulite” Antonio Di Pietro. Che lo ha volentieri spiegato, col suo linguaggio ruspante, anche ai lettori del Dubbio.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it l’8 novembre

L’incontenibile entusiasmo di Elly Schlein per il nuovo sindaco di New York

         Male che vada, se il presidente americano Donald Trump riuscisse davvero a neutralizzarlo come disturbatore, niente di più perché la Casa Bianca gli è già preclusa costituzionalmente essendo nato in Uganda , l’appena eletto sindaco di sinistra di New York Zohran Mamdani ha già un’uscita di sicurezza. E’ in Italia. Dove la giovane, pure lei, segretaria italo-americana- svizzera Elly Schlein ne ha subito celebrato “la splendida vittoria”, pronta a cedergli ciò che forse ancora resiste a concedere a Giuseppe Conte: la leadership del famoso “campo largo” dell’alternativa al centrodestra di Giorgia Meloni. Fra le cui colpe c’è quella peraltro  di essere simpatica, quanto meno, all’antipatico  presidente degli Stati Uniti.

         In compenso, diciamo così, di tanta generosità, di tanto entusiasmo, di tanto orgasmo virtuale per la vittoria splendida, ripeto, del suo fratello minore, anche lui virtuale, della sinistra d’oltre Oceano, la Schlein si è guadagnata dal sarcastico Libero, in Italia, la promozione a nuova statua della libertà a New York, con tanto di insegna della falce e martello sul petto, anzi sul cuore. Un’insegna ben impressa e visibile  come la foto di Enrico Berlinguer sulle tessere di iscrizione al Partito Democratico italiano, omonimo di quello americano ridotto da Trump in braghe di tela.

Quell’ambiguo “giullare” rimediato in morte da Forattini su Repubblica

         La rottura fra Giorgio Forattini ed Eugenio Scalfari a Repubblica avvenne nel 1999, a 23 anni dalla nascita del giornale che fra poco ne compirà 50. Ventitre anni trascorsi da “giullare di carta”, come Massimo Giannini sullo stesso quotidiano ha definito il vignettista per celebrare la morte del componente sicuramente più fantasioso, e anche produttivo di lettori, della squadra del fondatore. Un giullare che personalmente non mi è piaciuto, al di là delle intenzioni del celebrante, spero, perché più facile da collegare ad una corte che ad un pubblico, considerando la cerchia ristretta con la quale l’artista aveva condiviso il lavoro partecipando alle riunioni di redazione e interloquendo sulla confezione del prodotto.

         Solo di un giullare inteso come io ho sospettato il celebrante Giannini poteva scrivere d’altronde ciò che ha scritto, appunto, del suo lavoro dopo la rottura con la corte e il passaggio ad altri giornali, a cominciare dalla Stampa dove aveva voluto ospitarlo il compianto Gianni Agnelli, ripetendo il gesto compiuto con Indro Montanelli quando era uscito, anzi era stato licenziato dal Corriere della Sera.

         “Non so dire di quel periodo” successivo all’esperienza di Repubblica “perché avevo smesso di seguirlo”, ha scritto con una certa spocchia Giannini, aggiungendo la convinzione di “non essere stato il solo”. Forattini era insomma caduto nel “cono d’ombra” dove lo stesso Scalfari disse una volta di considerare finiti tutti quelli che ad un ceto punto avevano smesso di adorarlo, o di rispettarlo nella intensità dovuta. “Non per la sua virata a destra…passando il suo Rubicone berlusconiano”, ha spiegato Giannini, ma Forattini non meritava di essere più seguito perché “mi pareva avesse proprio perso il tocco”. Aveva, più semplicemente, cambiato corte. E nella nuova non meritava più nulla. Era precipitato dal Paradiso di Scalfari all’Inferno di Silvio Berlusconi e affini.

         Questa storia della corte in cui si può entrare ma non si può uscire senza perdere tutto, o quasi, mi è tornata in mente leggendo la storia, che francamente non conoscevo, dell’inizio della crisi nei rapporti fra Scalfari e Forattini, o viceversa, raccontata dallo stesso Giannini e risalente al 1991. Quando Forattini scrisse a Scalfari una lettera di protesta per avergli praticamente cestinato una vignetta “in cui Giovanni Paolo II, presentando l’enciclica per il centenario della Rerum Novarum, diceva a braccia aperte: “Fratelli, siate De Benedetti”. A leggere il nome del suo editore e ancora amico, Carlo De Benedetti, appunto, Scalfari aveva deciso la censura. E rispose, seccato, alla protesta di Forattini, scrivendogli che la vignetta rifiutata “mi è sembrata una cosa priva di senso, dove non c’erano né satira né umorismo” nei riguardi del Papa e di De Benedetti. Che -scrisse ancora Scalfari con umorismo involontario, a dir poco- “sempre potrai prendere per i fondelli”, separatamente o insieme, ma non evidentemente su Repubblica, come otto anni dopo Forattini si rese conto andandosene.

         Dei tre -Scalfari, Forattini, Giovanni Paolo II e De Benedetti- è rimasto ormai in vita solo quest’ultimo. Del quale voglio augurarmi che non abbia apprezzato l’inedito.  

La disinvolta celebrazione di Giorgio Forattini sulla Repubblica di carta

         Li aspettavo al varco e sono arrivati puntuali come i treni svizzeri sui quali la buonanima di Giulio Andreotti scherzava quando scriveva del “Napoleone di turno” che si proponeva di imitarli in Italia.

I colleghi di Repubblica -quella di carta, distinta e distante da quella rappresentata e vigilata al Quirinale dal presidente Sergio Mattarella con i suoi corazzieri- hanno celebrato con disinvoltura olimpica il vignettista Giorgio Forattini scomparso a 94 anni. Lo hanno celebrato in due pagine richiamate in una “spalletta” in prima, tipograficamente parlando, come se lui avesse fatto parte della loro squadra sino all’ultimo. E non costretto invece nel 1999 ad allontanarsene dopo un po’ di vignette censurate dal fondatore, direttore e quant’altro Eugenio Scalfari. Che non ne poteva più di sopportare le reazioni di amici soprattutto eccellenti che si lamentavano di essere messi alla berlina dall’ormai re indiscusso della satira, alcuni cercando persino di guadagnarci sopra con querele. La più famosa delle quali resta quella dell’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema, sprezzante come al solito della impopolarità che poteva derivargli. E ne derivò, anch’essa puntuale come un treno svizzero, piacendo al pubblico lo scapigliato Forattini molto di più di lui, per quanto primo e unico post-comunista passato per Palazzo Chigi nella storia della Repubblica, quella vera.      

Blog su WordPress.com.

Su ↑