L’irruzione di Fico nei presepi di via San Gregorio Armeno a Napoli

Giuseppe Conte si è affrettato a festeggiare la vittoria del “suo” Roberto Fico, il Sandokan della Campania con gozzo a motore che, già affacciatosi, irromperà da nuovo governatore regionale -vedrete- nei presepi di via San Gregorio Armeno a Napoli.  Ma in Campania, credete a me che la conosco molto familiarmente pur essendo un pugliese come Conte, tutto ciò che appare non è. Commedie e tragedie si intrecciano, come luci e ombre, carezze e schiaffi, inchini e sgambetti, affari e fregature, eccitazione e depressione, miserie e nobiltà. Pure l’aritmetica a Napoli è spesso opinione e non di più. Non datemi del razzista, per favore, perché i campani con tutte le loro contraddizioni mi rimangono simpatici come tutti i personaggi del teatro di Eduardo De Filippo.

         Se il partito comunista, con le minuscole ormai d’obbligo per com’è finito, ci fosse ancora e Roberto Fico ne fosse un iscritto, militante, dirigente al telefono con Palmiro Togliatti anziché Conte, si sentirebbe chiedere come Giancarlo Pajetta a Milano dopo avere conquistato la Prefettura ai suoi tempi che cosa penserà mai di fare del suo governatorato. Dovendo lui governare, appunto, col Pd della Schlein ma anche di Vincenzo De Luca, il cui figlio peraltro regge la segreteria regionale del Nazareno. E con la Dc mai morta nel cervello e nel cuore dell’attuale sindaco di Benevento Clemente Mastella e famiglia. Una famiglia grande quanto un partito, sopravvissuta anche alla caccia spietata mossagli dalla magistratura proprio nel momento in cui il capo era al massimo simbolico e pratico del potere come ministro della Giustizia del secondo e ultimo governo di Romano Prodi. Ultimo anche a causa di quella guerra poi perduta dalla magistratura, ma troppo tardi.

         Per la eterogeneità della coalizione che si è formata attorno a lui, per la larghezza di un campo al cui solo nome aggettivato peraltro Conte reagisce male, quasi come lo sceriffo portando la mano sulla custodia della pistola, mostrando di provare più diffidenza che fiducia, il governatorato campano di Fico andrà assaggiato per valutarlo. Come il budino. Ancor più del governatorato di Antonio Decaro in Puglia, l’altra regione che la sinistra è riuscita a conservare, su basi però più solide, nel finale di questo turno di votazioni regionali scambiato un po’ troppo generosamente, diciamo così, dalle cronache politiche per qualcosa di simile addirittura alle elezioni americane di medio termine. Nell’altra regione del turno, il Veneto rimasto saldamente di centrodestra, la sinistra ha potuto solo restare alla finestra.

         Per i loro pur problematici riflessi nazionali, peraltro già ridotti dall’assenteismo ulteriormente cresciuto, i risultati del voto campano possono solo gonfiare le ambizioni virtuali -non di più- di Conte come candidato all’improbabile ritorno a Palazzo Chigi se e quando la guida del governo nazionale potrà tornare ad essere realmente contendibile. Siamo francamente più alle prese con una seduta spiritica, neppure di memoria drammaticamente prodiana ai tempi del sequestro di Aldo Moro, che ad una rassegna dell’orizzonte col binocolo che il mio compianto amico Giampa -Giampaolo Pansa per i suoi tantissimi lettori di ogni colore politico- usava per seguire congressi e altre assemblee di partiti e correnti capendone volti e aree che tiravano. E farci poi appassionare e divertire, restando sempre con i piedi per terra. Non per aria come si rischia adesso.

         Due anni o addirittura un po’ meno per eventuali anticipi tecnici o tattici rispetto alla scadenza ordinaria di questa legislatura di centrodestra, sono ben lunghi da trascorrere.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 29 novembre

Trumputin inciampa in una Europa meno incerta del previsto

         In attesa di distrarci con i risultati delle elezioni regionali in Veneto, Puglia e Campania, già contrassegnate comunque da un aumento dell’astensionismo, continuiamo ad occuparci di Trumputin e del suo piano di pace in Ucraina, Che è stato definito giustamente dai critici, non cinematografici,  una “proposta indecente” per i troppi vantaggi che ne ricaverebbe la Russia tre anni e mezzo dopo un’aggressione che col nome di “operazione speciale” avrebbe dovuto concludersi in una quindicina di giorni con la capitolazione e l’assassinio o la fuga all’estero di Zelensky.

 Il presidente ucraino sarebbe tuttora per il Cremlino un nazista travestito . E, già trattato una volta alla Casa Bianca come un indesiderato, a dir poco, è stato nuovamente accusato ieri dal presidente americano un ingrato per la resistenza che continua ad opporre ad una soluzione troppo penalizzante.  Eppure Trump, sempre lui, sdoppiandosi da Putin almeno per un attimo, ha declassato a non definitivi i 28 punti del documento tradotto in inglese dal russo, pur avendo preteso una risposta da Kiev entro il 27 novembre, cioè giovedì prossimo.

         Trumputin continua a incombere, per carità, ma ha trovato un’incertezza minore del previsto o del desiderato in Europa. Dove i sostenitori dell’Ucraina hanno predisposto 24 punti su cui trattare una soluzione che non comprometta il fronte occidentale che ancora esiste nella realtà politica e militare. E che Trump può indebolire e persino dileggiare in certe sortite e iniziative, come quelle economiche in materia di dazi, ma non eliminare. O non ancora, perché un ordigno di questo genere e di questa portata potrebbe esplodergli in mano, cioè a casa, negli stessi Stati Uniti. Dove il presidente sta già avvertendo segni di una popolarità in calo. Una cosa questa che Trumputin non può aggirare. Lo può Putin, nel sistema dispotico in cui si muove come il pesce nell’acqua, ma non Trump.  

         Il diavolo, si sa, fa le pentole senza i coperchi, per fortuna.

 

    

Col fiato sospeso per i progetti di tale Trumputin…

         Più dei tredici milioni di elettori chiamati alle urne fra oggi e domani in Veneto, Campania e Puglia, o di quanti effettivamente andranno a votare resistendo alla tentazione di ingrossare il partito dell’astensione che è ormai di maggioranza, è in cima alla mia curiosità, anzi alla mia paura quel mostro che grava su quello che siamo ancora abituati a chiamare Occidente. E’ Trumputin: metà Trump, 79 anni, presidente degli Stati Uniti, e metà Putin, 73 anni, zar della Russia senza corona ma con un bastone forse ancora più nodoso, per l’arsenale nucleare che detiene, di tutti i suoi predecessori, bianchi o rossi che siano stati.

         Questo Trumputin fantomatico, ma non troppo, sta giocando non solo con l’Ucraina a ferro e fuoco da tre anni e mezzo ma con tutto l’Occidente, ripeto, come il gatto col topo. I suoi penultimatum – visto che sono stati sinora per fortuna a scadenza variabile, come i piani che elabora e intesta addirittura alla pace pur praticando la guerra, da aggressore o da fornitore intermittente d’armi e di soldi all’aggredito- si succedono come rilanci ad un tavolo sinistro e insanguinato di poker. Le cancellerie non solo d’Occidente, a questo punto, ma di tutto il mondo lo inseguono o lo scrutano a dir poco con diffidenza.  A cominciare dalla Cina, dalla quale gli ottimisti di un tanto al chilo suppongono di staccare la Russia.

         Quale delle due metà di questo mostruoso Trumputin prevalga sull’altra, o finirà per prevalere, e con quali effetti più diretti in Europa, dentro e anche oltre i confini dell’Unione, vista la posizione della Gran Bretagna? Ecco la domanda che disperatamente vorremmo forse porci sperando che del mostro si possano ancora distinguere o persino separare le due metà. Sperando o illudendoci? Analizzando o sognando, anche se distratti domani dai risultati elettorali delle tre regioni italiane alle urne.  

Le avanzate sinistramente parallele di Putin e Trump in Ucraina

         “Avanza il piano di pace” hanno titolato in Italia i giornali più o meno ostili o stanchi della guerra in corso in Ucraina da più di tre anni e mezzo, per parlare solo della “operazione speciale” del 2022 e non andare ancora più indietro, almeno di 8 anni, quando i russi presero -o ripresero, dicono loro- la Crimea con la sostanziale complicità di un Occidente borbottante, ma niente di più. La buonanima di Silvio Berlusconi andò addirittura sul posto per compiacersi di Putin collegandosi addirittura alle memorie risorgimentali delle truppe piemontesi nella omonima guerra dell’Ottocento.

         La pace predisposta dal presidente americano Donald Trump in qualche modo collegato con Putin  “non si può rifiutare”, ha titolato il manifesto sullo sfondo di un presidente ucraino corrucciato e dichiaratamente diviso fra la perdita della dignità o dell’alleato. Che sarebbe Trump, ma potrebbe essere domani anche Putin, addirittura, pur dopo tutto quello che ha fatto e probabilmente si propone di fare ancora di più, e non solo in Ucraina.

         In un parallelismo tanto paradossale quanto indecente o osceno, con memorie più o meno cinematografiche, il piano di Trump prodotto anche dal suo incontro d’agosto con Putin in Alaska procede davanti e dietro le quinte come le truppe, i missili, le bombe e  tutto il resto di produzione o acquisto russo nel territorio già mutilato dell’Ucraina.

         La vignetta più emblematica della situazione è quella di Natangelo sul Fatto Quotidano, naturalmente soddisfattissimo degli sviluppi pur tardivi, secondo Marco Travaglio, della questione ucraina. Che lui sperava forse potesse concludersi secondo i piani di Putin: in quindici giorni e con la conquista russa della capitale ucraina. O la sua “denazificazione”.

         La vignetta di Natangelo fa ridurre i 28 punti formali del piano Trump – o Trump e Putin- in due imposizioni a Zelensky, seduto davanti ad un documento e con la penna in mano : “Zitto e firma”.

Le cronache sempre più gialle della politica italiana

Il caso Garofani, dal cognome del consigliere del presidente della Repubblica ascoltato e forse anche registrato mentre “chiacchierava” di politica in spirito di opposizione, diciamo così, con amici sportivi al ristorante, rimane nelle cronache politiche nonostante sia stato chiuso da Sergio Mattarella in persona e da Giorgia Meloni in un incontro chiarificatore. Che, non essendosi rivelato sufficiente per qualche ora, è stato seguito da un comunicato ufficiale del partito della premier di una chiusura ancora più esplicita, con la conferma della fiducia al Capo dello Stat, pur se non votato dalla destra -se non ricordo male- né la prima volta né dopo, al rinnovo del mandato.

         Perché il caso sopravvive nelle cronache e nelle polemiche che si alimentano a vicenda? Esse saranno magari superate, augurabilmente, lunedì dai risultati delle elezioni regionali in Puglia, Campania e Veneto e dalle discussioni che ne deriveranno a livello nazionale perché chiudono un turno di votazioni locali in cui tutti i partiti si sono spesi come in una prova significativa di metà legislatura. Una metà un po’ abbondante perché sono ormai passati più di tre dei cinque anni della legislatura a maggioranza di centrodestra. O di destra-centro, come preferiscono dire orgogliosi a destra e preoccupati a sinistra.

         Perché, ripeto, tanta ostinazione ad allungare il brodo di quella cena galeotta di Francesco Saverio Garofani? Per la speranza e quant’altro dei giornali di migliorare le vendite in edicole peraltro in calo anch’esse?  Per i soliti esercizi muscolari di partiti e relative correnti?        O, più semplicemente e sconsolatamente, per la responsabilità che abbiamo un po’ tutti noi del mestiere, diciamo così, chi più e chi meno, chi ingenuamente e chi malevolmente, di dipingere sempre più di giallo, in senso non cinese ma letterario, la politica e le sue cronache. Che pure nascono professionalmente bianche. In Cronaca, con la maiuscola, dove la generalità dei giornalisti si è fatta le ossa ce n’erano e dovrebbero essercene ancora di due colori: nera per raccontare i fattacci e bianca, appunto, per raccontare i fatti e fattacci politici e amministrativi locali. Un bianco diventato a livello anche nazionale sempre più giallo, né cinese -come ho già scritto- né pontificio. Cui posso avere contribuito anch’io, per carità, almeno una decina di migliaia di volte in una sessantina d’anni di professione.   

         In politica tutto ha, deve avere, anche se in realtà non lo ha o non l’ha più, un sommerso: una cronaca senza retroscena, senza sospetti, senza problematicità, senza un peccato di indovinamento di memoria andreottiana, è considerata una minestra sciapa, senza sale.

         Così il Garofani dello “scossone”, o qualcosa di simile, di cui avrebbe bisogno l’opposizione, al singolare, per diventare davvero alternativa e scongiurare prima la vittoria elettorale della Meloni fra due anni e poi, dopo altri due, la sua ascesa in carne e ossa, non in spirito, al Colle più alto di Roma, si è materializzato in una mail di un certo banale, banalissimo Mario Rossi alle redazioni dei giornali per riconoscere, sottolineare e quant’altro la debolezza della segretaria del Pd Elly Schlein nell’allestimento del cosiddetto campo largo. Di cui del resto il potenziale alleato Giuseppe Conte, con l’aureola delle cinque stelle del suo movimento, non vuol sentire neppure parlare.       O si è forse voluto fare emergere, capire la sofferenza che costerebbe al presidente della Repubblica la dovuta convivenza istituzionale con una Meloni carina ma troppo di destra e persino borgatara. O si è cercato di mettere una zeppa clamorosa fra presidente e premier facendo perdere la testa al capogruppo parlamentare della destra alla Camera Galeazzo Bignami, che ha fatto  sostanzialmente da sponda a un “piano”, complotto e simili avvertiti o denunciati dalla Verità di Maurizio Belpietro. O addirittura -udite, udite- si è voluto fare esplodere all’interno del centrodestra una concorrenza spietata fra gli aspiranti al Quirinale del 2029: la Meloni, il suo ministro della Difesa e collega di partito Guido Crosetto, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, specie se la sua riforma della magistratura dovesse superare il referendum confermativo di primavera. Nordio, d’altronde, è già stato una volta il candidato cosiddetto “di bandiera” della destra al Quirinale.

         La squadra di centrodestra della prossima corsa al Quirinale, sempre stando alla cronaca gialla della politica, è ancora più nutrita. Mi fermo qui solo per ragioni di spazio, non per fare torto a qualcuno.

Pubblicato sul Dubbio

Le vertigini procurate dalla lettura delle cronache politiche

Per quanto abbia trascorso una vita raccontando la politica, prima ancora di analizzarla o commentarla con direttori anche di una certa esigenza, diciamo così, come Indro Montanelli,  che era di una curiosità insaziabile, sto provando autentiche vertigini nella lettura del fumettone levatosi sulle “chiacchiere” ammesse da un consigliere del presidente della Repubblica -Francesco Saverio Garofani- a tavola con amici, registrate e pervenute dopo qualche giorno alle redazioni con posta elettronica, su tutto ciò che ne è seguito.

         Fra tutte le fantasiose ricostruzioni e letture dell’accaduto manca ormai solo l’estrema, chiamiamola così. Che potrebbe essere quella di un’operazione che avrebbe sorpreso per finta il presidente Mattarella, in verità interessato a far sapere all’esterno la sofferenza con la quale convive istituzionalmente con una presidente del Consiglio quanto meno scomoda. E messasi per giunta in testa di succedergli fra quattro anni al Quirinale rompendo un doppio cristallo, umano e politico: la prima donna al vertice dello Stato e la prima leader dichiaratamente, orgogliosamente di destra.

         In attesa di questo retroscena estremo, ripeto, una delle prime firme del Corriere della Sera, Monica Guerzoni, dal cognome a me caro del compianto portavoce dell’ancor più compianto Aldo Moro, ha voluto fornire ai lettori, pur nell’onesto sospetto di un’immersione nella “fantapolitica”, l’ipotesi – testuale- che “dietro lo scontro su Garofani possa esserci il “duello” tra Meloni e Crosetto”. Cioè tra la presidente del Consiglio e il ministro della Difesa, a dispetto della foto storica di un’ancor più giovane e già promettente Meloni sollevata fra le braccia di un Crosetto colossale come il Kin Kong cinematografico.   

         “Entrambi -ha scritto, spiegato e quant’altro Monica, che chiamo per nome con spirito paterno per età e colleganza professionale- hanno chanche di approdare al Quirinale. La prima ci arriverebbe sull’onda dei voti di un centrodestra vittorioso alle politiche del 2027, mentre il secondo potrebbe salire al Colle grazie ai suffragi di un buon fronte bipartisan”. Sul quale Crosetto -cerco di spiegare meglio anch’io seguendo Monica nella volata- potrebbe contare per essersi  trovato in questi giorni di guerre vere e permanenti più in sintonia col Capo dello Stato, che è anche -non dimentichiamolo- capo delle Forze Armate, oltre che presidente del Consiglio Superiore della Magistratura in edizione ancora unica. Per simpatia, diciamo così, attrazione magnetica e spirito di continuità, pur divisa sul fronte internazionale, vanificando così ulteriormente la prospettiva di un’alternativa al governo di centrodestra, la sinistra fra quattro anni dalla posizione confermata di opposizione potrebbe quanto meno ingoiare il rospo di Crosetto al Quirinale e continuare a osteggiare la Meloni a Palazzo Chigi.

         Che cosa c’entri esattamente una ipotesi del genere con tutto l’ambaradam della cena galeotta del consigliere di Mattarella in un ristorante terrazzato di Roma con vista su Piazza Navona, della registrazione delle sue parole mandate in onda per internet sulla situazione politica, e di un piano, complotto o quant’altro per contenerla o cambiarla, si stenta un po’ a capire. Anche da parte di chi, ripeto, è alquanto abituato alla cronaca politica e ai suoi dintorni e contorni. Ma fa curiosità lo stesso. Luccica più o meno a intermittenza e prenota il suo posto, a poco più di un mese dalle feste di fine anno, sugli alberi natalizi.

         Visto che ho già ricordato Moro scrivendo del suo portavoce, mi sovviene anche lo sfogo ch’egli fece pure contro di me e il comune amico Guido Quaranta, sfuggiti al controllo della scorta sul lungomare di Terracina nell’estate del 1968, per la troppa fantasia con la quale i giornali ritenevano di interpretare e anticipare  le sue reazioni dopo essere stato rimosso dalla Presidenza del Consiglio dai suoi colleghi di partito smaniosi di sostituirlo per offrire ai socialisti di Francesco De Matino un’edizione “più coraggiosa e incisiva” del centro-sinistra, ancora col trattino.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 22 novembre

Chi vuole tenere ostinatamente aperto il caso chiuso al Quirinale

         Pur chiuso a doppia mandata, prima da Sergio Mattarella e Giorgia Meloni direttamente, in un incontro di una ventina di minuti al Quirinale chiesto dalla stessa Meloni, e poi da un comunicato del partito della premier che aveva acceso le polemiche chiedendo un chiarimento, evidentemente intervenuto, continua a produrre polemiche e manovre il caso del consigliere del presidente della Repubblica, Francesco Saverio Garofani, sorpreso in un ristorante romano con terrazza affacciata su Piazza Navona  a discutere con sedici amici di politica e di scenari augurabilmente, per lui, contrari al governo di centrodestra.

 Il consigliere di Mattarella, proveniente come il Presidente  dalla sinistra democristiana   ed esperto dei problemi di Difesa, con la maiuscola, che Mattarella conosce bene già di suo anche per esserne stato il ministro, continua ad essere usato come una clava contro il Capo dello Stato, colpevole di non avere rimosso il suo collaboratore. Anzi, di avergli confermato stima e amicizia, secondo quanto lo stesso Garofani ha raccontato in una intervista al Corriere della Sera confermando di essersi abbandonato, a dir poco, a una “chiaccherata” con amici.

         A tenere aperto ancora il caso, sviluppando polemiche e aprendone di nuove, è naturalmente il giornale che l’aveva aperto – La Verità di Maurizio Belpietro-diffondendo fra virgolette le parole di Garofani ed estendendole imprudentemente ad altri collaboratori di Mattarella neppure presenti alla cena galeotta. Ma gridano e protestano anche giornali dichiaratamente indipendenti e tuttavia schierati, un po’ come partiti, contro il governo e la sua maggioranza. Come il Domani dell’editore Carlo De Benedetti, che ha riferito vistosamente in prima pagina dell’incontro chiarificatore fra Mattarella e Meloni e del successivo e conclusivo comunicato del partito della premier titolando sullo “scontro totale”.

         Quando l’informazione, pur in nome della libertà di opinione, per carità, si sovrappone e schiaccia la politica, rendendosene parte, sino a scavalcare i partiti e gruppi di opposizione, o di maggioranza sul versante opposto, tradisce se stessa, i lettori e gli elettori.

         Il caso, ripeto, è chiuso. Il resto è chiacchiera, per restare al linguaggio e all’incidente del consigliere graziato da Mattarella lasciandolo al suo posto.    

Le affinità obbligate di Sergio Mattarella e Giorgia Meloni

Le affinità fra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, uno presidente della Repubblica e l’altra presidente del Consiglio, non saranno elettive, come quelle del celebre, omonimo romanzo di Goethe, ma sono sicuramente istituzionali. Funzionali alla tenuta del sistema, e non solo alla stabilità politica che contrassegna anche all’estero, forse ancor più che all’interno, il governo italiano in carica da più di tre anni. Sono affinità che resistono -debbono resistere, direi- agli infortuni ai quali è esposta sempre la politica, specie in passaggi difficili e delicati come sono di norma quelli elettorali, anche di livello regionale come domenica prossima in Puglia, Campania e Veneto, a conclusione di un turno cominciato a fine settembre nelle Marche.      

         Il Capo dello Stato e quello del Governo, rigorosamente al maschile preferito dalla Meloni, si sono trovati accomunati dall’imbarazzo procurato loro, rispettivamente, da un consigliere e da un capogruppo parlamentare. Il consigliere è quello della Difesa al Quirinale, l’ex parlamentare Francesco Saverio Garofani, e il capogruppo è quello dei fratelli d’Italia alla Camera Galeazzo Bignami.

         Garofani è stato sorpreso in una “chiacchierata fra amici”, come lui stesso l’ha definita non potendola evidentemente smentire, in un ristorante romano sulle prospettive quirinalizie della Meloni, quando scadrà il secondo mandato di Mattarella, e su uno “scossone” che potrebbe o dovrebbe comprometterle. E ciò a vantaggio dell’alternativa al centrodestra che la segretaria del Pd Elly Schlein fatica, a dir poco, a costruire in un campo forse troppo largo ed eterogeneo. Dove si scontrano e si intrecciano ambizioni personali e distanze, a dir poco, programmatiche, di natura interna e ancor più internazionale.

         Bignami non è stato sorpreso ma di proposito ha cavalcato l’infortunio di Garofani reclamando smentite come se davvero, secondo la versione e la titolazione del giornale La Verità, autore dello scoop, al Quirinale ci fossero consiglieri, al plurale, e forse anche altri ancora impegnati a preparare “un piano” contro il governo e la sua maggioranza di centrodestra. E’ seguita una dura e comprensibile reazione a dir poco infastidita, diciamo pure irritata, degli uffici di Mattarella.

         Come in un’arena col toro, si è scatenata sui giornali, a cominciare da quelli maggiori, una rappresentazione bellica dell’accaduto e, più in generale, della situazione, non bastando evidentemente le guerre che continuano, in Ucraina e in Medio Oriente per parlare di quelle più vicine, o meno lontane. La cosiddetta “alta tensione” ha attraversato i titoli delle prime pagine e gli immancabili retroscena. Calma, colleghi. Mi verrebbe la voglia di ripetere col compianto Ennio Flaiano che, per fortuna solo guardando alle seconde file, “la situazione è grave, ma non è seria”.

Pubblicato sul Dubbio

Fra l’ira di Mattarella e l’imbarazzo della Meloni

         Anche se un “piano” per scongiurarla, denunciato vistosamente dal quotidiano La Verità di Maurizio Belpietro, è stato liquidato dal Quirinale come una provocazione rilanciata con una richiesta di smentita levatasi dal giovane capogruppo della destra meloniana alla Camera Galeazzo Bignami, lassù, sul colle più alto di Roma, qualcuno teme che fra quattro anni, alla scadenza del secondo mandato presidenziale di Sergio Mattarella, potrà davvero essere eletta Giorgia Meloni. Se gli avversari del centrodestra, magari decidendosi a seguire i consigli sinora inascoltati di Romano Prodi, alquanto critico verso la segretaria del Pd Elly Schlein, non riusciranno ad allestire un programma e una coalizione alternativa, vera e concreta. Da realizzare grazie anche a qualche “scossone” procurato al governo da qualche infortunio.

Questo “qualcuno”, rimasto al suo posto  almeno sino al momento in cui scrivo, è il consigliere dello stesso Mattarella per la Difesa, con la maiuscola istituzionale, Franceso Saverio Garofani: non un generale, per fortuna, ma più semplicemente un ex parlamentare del Pd e giornallsta considerato evidentemente un esperto della materia dal Capo dello Stato. Questo consigliere, salvo dimissioni o rimozione, per quanto abbia rivelato al Corriere della Sera di avere ricevuto la conferma della fiducia di Mattarella,  è stato sorpreso a parlare del futuro sgradito della Meloni e di quello auspicato delle attuali opposizioni sparse nel cosiddetto campo largo, al tavolo di un “locale pubblico” alquanto affollato. “Una chiacchierata fra amici”, ha raccontato sempre al Corriere.  

A riferire di quella chiacchierata, ripeto, è stato -non ho ancora ben capito se per avere sentito personalmente o averne ricevuto notizia, forse documentabile- Ignazio Mangano ieri a pagina 3  della Verità mandando in brodo di giuggiole in prima  il direttore, non nuovo a polemiche col Quirinale. E questa volta impettitosi a cavallo della… tempesta che. stando ad alcune voci di corridoio, diciamo così, potrebbe avere come vittima, alternativa o complementare magari al consigliere di Mattarella, il capogruppo a Montecitorio del partito della premier Meloni. Che, fra un comizio elettorale e l’altro nelle regioni dove si voterà domenica, si sarebbe lasciata scappare qualche parola non proprio soddisfatta del fuoco acceso alle polveri da Bignami. Voci, ripeto, suffragate dalla premura con la quale egli ha tenuto a precisare di avere pensato e agito da solo.   D’altronde, non sarebbe la prima volta per la premier trovarsi in queste condizioni. Ci sono precedenti forse meno clamorosi ma ugualmente importanti, nei tre anni e più da lei trascorsi a Palazzo Chigi, di esponenti di partito e dello stesso governo un po’ incauti in materia di galateo istituzionale.

Eppure la premier è appena reduce da un incontro non privato, e neppure secondario, con il capo dello Stato al Quirinale. Dove ha partecipato ad una riunione del Consiglio Supremo di Difesa. Magari con il consigliere competente di Mattarella seduto non dico al tavolo, ma a ridosso di qualche parete perché segretario di quel Consiglio.  

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Le attenuanti dovute alla Schlein nel rapporto con Conte

Giusto per pagare un po’ di dazio all’obiettività, che nella polemica politica generalmente sta come il diavolo all’acqua santa, penso che Eddy Schlein -sì, proprio lei, la segretaria del Pd che forse rischia più di tutti nelle elezioni regionali di domenica prossima in Puglia e Campania, pur non essendo candidata direttamente né nell’una né nell’altra- abbia diritto non dico alle attenuanti, perché per fortuna non è ancora finita in tribunale, ma a qualche umana comprensione.

         Le rimproverano, sempre nel Pd, e non solo fra quanti ne contrastarono l’elezione a segretaria, ma anche fra quanti la sostennero nella tradizionale area  riformista pensando di poterla poi condizionare a dovere, un rapporto sbilanciato con Giuseppe Conte, il partito delle 5 Stelle e i suoi candidati nelle elezioni amministrative.

         Lei tutto sommato ha incassato con cortesia. Forse anche troppa, preferendo spesso occuparsi più dei colori del suo abbigliamento consigliati o prescritti da una esperta professionale di moda, che la fa forse elitaria più del dovuto o dell’opportuno in un partito che pure proviene dal Pci e dalla sinistra democristiana, più cespugli vari.  Si è risparmiata, almeno sinora, il botto di uno sfogo cui forse non avrebbe saputo resistere neppure un professionista della politica. Si è risparmiata, cioè, di rinfacciare ai suoi critici di averla eletta al Nazareno, o di averla lasciata eleggere con le votazioni finali aperte anche ai non iscritti, ma iscritti ed elettori di altri partiti, a cominciare dagli allora ancora grillini, proprio per aprire a Conte. Che dopo la sconfitta della sinistra nelle elezioni politiche generali di tre anni fa, aveva condizionato la ripresa dei rapporti col Pd ad un cambiamento “radicale” -ripeto, radicale- della sua leadership. Fu quello il brodo, diciamo così, nel quale maturarono la candidatura prima e l’elezione poi della Schlein con i suoi tre passaporti e le loro custodie nella borsa che indossa con le sue giacche, camicette e pantaloni. Mai a vederla una volta in gonna.

         Si dice, sempre nel suo partito facendo un po’ da sponda alla maggioranza di centrodestra, che la Schlein abbia inseguito Conte tanto da scavalcarlo. E da confondersi anche con la Cgil di Maurizio Landini, sino a sposarne il referendum abrogativo, e morto di astensionismo, del cosiddetto jobs act prodotto ai tempi di Matteo Renzi segretario del Pd e insieme presidente del Consiglio.

         Se questo è vero, com’è vero, è vero anche che, poco importa se a caso o apposta, nella concorrenza con la Schlein scalando Palazzo Chigi il Conte delle 5 Stelle, il Conte in versione Eraclito, il filosofo dell’antichità più famoso per l’oscuro nel quale ragionava, ha ripiegato non al centro ma a destra addirittura. Lo ha fatto assumendone preoccupazioni, proposte e ostilità nei campi non certo secondari della sicurezza e del fisco, lasciando per esempio il cerino della tassa patrimoniale per fare piangere i ricchi fra le dita lunghe e sottili della Schlein. Bacchettata per questo anche dall’ospite elettorale del Pd più famoso e stagionato che è il senatore quasi a vita Pier Ferdinando Casini.

Pubblicato sul Dubbio

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