Quegli occhi sempre puntati sul Quirinale di Sergio Mattarella

         Abbiamo rischiato un altro caso Garofani, ma più grave e clamoroso dell’altro chiuso con un chiarimento diretto fra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. E con la blindatura del consigliere del Capo dello Stato, Francesco Saverio Garofani appunto, sorpreso in un ristorante romano terrazzato con vista su Piazza Navona, a “chiacchierare” di politica -parola sua- con un po’ di amici tifosi della Roma calcistica.  E di come sventare, scongiurare e quant’altro la successione della Meloni a Mattarella fra quattro anni, quando scadrà il secondo mandato del presidente.

         Questa volta non Garofani ma lo stesso Mattarella è stato tirato in causa, in particolare dall’ex ministro Gianfranco Rotondi, irriducibile democristiano rifugiato parlamentarmente nei fratelli d’Italia della Meloni. Che ha raccontato ad Augusto Minzolini, un confessore laico notissimo nell’ambiente politico, di un incontro con ex deputati e senatori ai quali Mattarella avrebbe confidato la indisponibilità a controfirmare un’altra legge elettorale a ridosso di elezioni, ordinarie o anticipate che possano essere. In effetti -va riconosciuto- è una pratica che contrasta anche con direttive europee, o simili.

         Il Quirinale stavolta ha smentito seccamente con una lettera al Giornale senza farselo chiedere da nessuno, né in privato né in pubblico, magari fra quanti stanno lavorando neppure tanto dietro le quinte per varare l’ennesima riforma elettorale alla vigilia delle ennesime votazioni per il rinnovo delle Camere.

Per difetto di comunicazioni fra amici e colleghi di area, diciamo così, il direttore della Verità Maurizio Belpietro ha ignorato la smentita al Giornale e costruito sul racconto di Rotondi un’altra puntata di prima pagina sui “piani” d’intralcio del Quirinale contro percorsi, progetti, interessi di governo, veri o presunti sia gli uni che gli altri. Uno scoop improprio, diciamo così, moltiplicato dall’assenza in edicola di molti altri giornali per uno sciopero di protesta contro il mancato rinnovo, da una decina d’anni, del contratto di lavoro, ma un po’ anche contro il governo per la coincidenza col blocco del traffico locale ed altro motivato dai sindacati cosiddetti di base con argomenti contro la politica economica, sociale, internazionale della Meloni.

Il venerdì nero, anzi nerissimo, del giornalismo italiano

         Già infelicemente, a dir poco, programmato nello stesso giorno dello sciopero generale dei trasporti e altro contro il governo, scegliendo peraltro il solito venerdì di allungamento del week end, lo sciopero dei giornalisti per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro scaduto dieci anni fa avrebbe dovuto essere sospeso immediatamente alla notizia dell’assalto alla sede della Stampa a Torino, Che è stato compiuto da un centinaio di dimostranti staccatisi da un corteo di sostegno allo sciopero generale.  Dimostranti provvisti di letame e bastoni che hanno aggiunto alle motivazioni dell’ignobile iniziativa contro una redazione peraltro vuota proprio per lo sciopero dei giornalisti in corso la rivendicazione della liberta della Palestina dal Giordano al mare, con annessi e connessi. Compresa la difesa di un iman fondamentalista.

         Il sindacato dei giornalisti oltre alla protesta levatasi anche dalle istituzioni e dalla politica, avrebbe dovuto revocare lo sciopero per consentire anche solo simbolicamente, con poche copie di un numero straordinario dei giornali, a cominciare dalla stessa Stampa, la dignità e la forza della professione. Lo sciopero d’altronde aveva già diviso la categoria in numerose redazioni dove si è regolarmente lavorato non condividendo anche il momento scelto per l’astensione dal lavoro. Un momento di commistione per niente opportuna con una campagna in corso contro il governo che sfocerà in uno sciopero generale proclamato dalla Cgil per il 12 dicembre, sempre di venerdì. 

         Ma oltre che di venerdì, il 12 dicembre prossimo sarà il 54.mo anniversario preciso della famosa strategia della tensione esplosa con la bomba che provocò nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura 17 morti e 88 feriti. 

         Il calendario è semplicemente da brividi, nel quale è tanto incredibile quanto grave che il sindacato dei giornalisti sia finito coinvolto scioperando nel contesto, ripeto, di un’offensiva politica contro il governo. E ciò mentre la controparte dei giornalisti per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro è costituita non dal governo ma dagli editori. Non tutti, per giunta, perché tra di loro ce ne sono alcuni, come quello della Sicilia di Catania, difesi dai giornalisti rifiutando di scioperare. Con molti altri di testate di diffusione nazionale.  

         Quello appena trascorso può ben essere considerato e definito il venerdì nero del giornalismo italiano. Nerissimo.

Ripreso da http://www.startmag.it

Fra gli scacchi della Meloni e della Schlein e le mine di Conte

Seguivo ieri la cronaca quasi in diretta di Mario Sechi della partita a scacchi fra la premier Giorgia Meloni e la segretaria del Pd Elly Schlein e cercavo nei miei ricordi, di cui sono un po’ prigioniero, lo confesso, qualcosa che le assomigliasse. Una ricerca intensificata con la richiesta amichevole e incoraggiante del direttore di “storicizzare” lo scacco matto subìto dalla Schlein, che pensava di guadagnarsi con la partecipazione alla prossima festa nazionale della destra meloniana e il confronto diretto chiesto con la premier i gradi, diciamo così, di antagonista principale o addirittura solitaria, e si è invece procurata la conferma di un’aspirante alquanto improbabile a Palazzo Chigi.

         Ho cercato e ricercato nella memoria fra le tante crisi di governo e di partiti che mi è toccato di seguire, raccontare e commentare in una sessantina d’anni di professione, e non vi ho trovato, per brevità della partita e chiarezza del risultato, qualcosa di analogo.  La Meloni ha sorpassato persino il mio amico Pier Ferdinando Casini, celebrato ancora nella letteratura politica, fra interviste, chiacchierate e libri, come Piefurby, il campione cioè della furbizia, che lo ha portato a diventare il decano del Parlamento a 70 anni neppure compiuti. Li festeggerà fra pochi giorni, il 3 dicembre. Per cui profitto dell’occasione per fargli gli auguri e ricordarlo ancora quando mi raccontava con una mimica eccezionale le riunioni di corrente della Dc in cui riusciva con una battuta, o una domanda indiscreta, a far perdere letteralmente la testa all’allora segretario del partito Flaminio Piccoli, che già era un po’ fumantino di suo per carattere.

         Eppure di volate, inseguimenti, sgambetti, agguati e simili ne ho visti. Nella Dc di Casini, ripeto, ma soprattutto di Fanfani, Moro, Andreotti, De Mita, Donat-Cattin. Nel Pci, pur protetto dal famoso “centralismo democratico”, e dalla relativa disciplina, di Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Enrico Berlinguer, Alessandro Natta e Achille Occhetto, ultimo segretario. Non parliamo poi del Psi di Pietro Nenni, Giacomo Mancini,  Francesco De Martino e persino Bettino Craxi, in cui le correnti furono a tratti ancora più numerose ed effervescenti, a dir poco, di quelle della Dc di tre volte più votata. Persino nel Psdi di Giuseppe Saragat, nel Pri di Ugo La Malfa e nel Pli di Giovanni Malagodi le correnti facevano avvertire i loro spifferi e far saltare la pazienza ai rispettivi leader.

         Non parliamo neppure di tutti questi partiti alle prese non con qualcuna delle ricorrenti crisi interne o di governo, ma con le corse al Quirinale che finivano con l’elezione, spesso imprevista, di un Presidente della Repubblica, con tutte le maiuscole dovute, ma ricominciavano già il giorno dopo, o quasi, giusto per non far passare nella monotonia i sette anni del mandato. Arrivati al record di quattordici con Sergio Mattarella.

         Ma bando ai ricordi e alle chiacchiere. E vediamo con i piedi ben piantati nell’attualità l’effetto ottenuto dalla Meloni prima invitando la Schlein alla festa dei fratelli d’Italia, poi accettandone la sfida a un confronto in diretta, come se fosse- ripeto- la sua unica o principale antagonista,poi chiedendo di estendere per logica e cortesia il confronto anche a Giuseppe Conte, che a Palazzo Chigi già c’è stato due volte e vuole quanto meno tentare di tornarci, e infine provocando una specie di crisi di nervi politici -tutti politici, per carità- della segretaria del Pd. Che ha avvertito il rischio per niente “ridicolo”, come ha detto, di uscire malconcia da un confronto a tre e si è tirata indietro fra i sorrisi compiacuti e muti, naturalmente, del presidente del movimento 5 Stelle già su di giri per avere portato Roberto Fico alla presidenza della regione Campania in condizioni un po’ migliori, francamente, di Alessandra Todde in Sardegna l’anno scorso.

         Il campo largo già sgradito dal diffidente Conte, che lo vorrebbe solo “giusto” per le sue ambizioni politiche, è soprattutto un campo minato. Minatissimo.

Pubblicato su Libero

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