Una partita clamorosa di trappole e reti fra Meloni, Schlein e Conte

         Pur alle prese con uno scenario internazionale da brividi, in cui si intrecciano paci improbabili e gravi allarmi, come il possibile ritorno in Europa alla leva militare, si vedrà poi se e come soltanto volontaria, Giorgia Meloni non si distrae di certo dalla politica interna. Dove ha segnato in poche ore, in una tempesta che sembrava in un bicchiere d’acqua, una rete da manuale infilandosi nella partita del campo largo che festeggiava con la solita enfasi le pur scontate vittorie della sinistra nelle elezioni regionali di Puglia e Campania.

         Quando la segretaria del Pd Elly Schlein, invitata a partecipare alla festa nazionale del partito di Giorgia Meloni a Roma, ha posto come condizione un confronto diretto con la premier, pensando di segnare con ciò un punto nella partita con Giuseppe Conte per la leadership della pur improbabile alternativa al governo, la Meloni le ha tirato un tiro in porta, ripeto, di quelli imparabili.

         In particolare, la premier ha controproposto alla Schlein, come condizione, di allargare il confronto a Conte, essendo anche lui un candidato alla sua successione a Palazzo Chigi, e non volendogli fare il torto, di calcolo o di cortesia, di agevolare l’immagine e la corsa della segretaria del Pd.  Che, anziché fare buon viso a cattivo gioco, come qualcuno al Nazareno avrebbe dovuto forse suggerirle, ha ceduto alla paura di uscire male da un confronto a tre, a vantaggio contemporaneamente della Meloni e di Conte come veri antagonisti. Ha ceduto sottraendosi alla partita come a una trappola e definendo “ridicola” la proposta della Meloni nel frattempo accettata da Conte. Al quale non era parsa vera l’occasione offertagli.

         Le tribune del campo cosiddetto largo si sono improvvisamente svuotate, un po’ come le urne elettorali, e la Schlein si è ritrovata a guardarsi più da Conte che dalla Meloni.

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Quel frutto dannatamente tossico dell’albero elettorale di Mario Segni

A Mario Segni, 86 anni compiuti a maggio, Mariotto come lo chiamava il padre Antonio, presidente della Repubblica fra il 1962 e il 1964, e come lo chiamano tuttora familiari e amici, fra i quali il sottoscritto, saranno fischiate le orecchie in questi giorni in cui si sprecano analisi e proposte per l’astensionismo elettorale tradottosi nel partito di maggioranza assoluta dell’Italia. Una scalata non molto onorevole, francamente, per la rivoluzione che Segni volle, o si intestò nei primi anni Novanta insieme con Marco Pannella, facendo passare il sistema politico italiano dal metodo proporzionale a quello maggioritario. E  cominciando con la lotta ai voti di preferenza,  prima ridotti a uno solo e poi aboliti del tutto per non dare agli elettori l’occasione di sbagliare o addirittura di corrompersi.

         Lo avevo detto a Mariotto, mentre riusciva a convincere persino Indro Montanelli -che prima di conoscerlo e frequentarlo non voleva neppure sentir parlare di legge elettorale per paura di confondere la testa ai lettori-  che le cose non avrebbero funzionato sulla sua strada. Lui, ostinatissimo, da sardo a tutto tondo, era irriducibilmente ottimista. Ma gli elettori, a parte la prima botta del referendum abrogativo delle preferenze plurime, al quale parteciparono largamente facendolo vincere ai promotori tra la sorpresa di politici vecchi e nuovi, vecchi come Bettino Craxi e nuovi come Umberto Bossi, accomunati dall’appello a non votare; gli elettori, dicevo, sono andati via via, inesorabilmente contromano, diciamo così, rispetto al senso unico di Mariotto.

         Mescolata peraltro alla rivoluzione giudiziaria delle cosiddette mani pulite, basata sul sostanziale, presupposto che fossero sporche tutte quelle dei partiti e delle loro correnti generalmente finanziati in modo irregolare, diciamo pure illegale, la rivoluzione di Segni -e di Pannella, ripeto, ormai scomparso da tempo- ha portato il pubblico alla disaffezione, come si dice in gergo quasi scientifico. Piuttosto che riconoscersi non solo nei partiti, ma anche o soprattutto negli schieramenti in qualche modo obbligati dalla logica del sistema maggioritario, gli elettori non vanno neppure al mare o in montagna, come veniva loro consigliato dal Craxi o Bossi di turno, ma semplicemente sono rimasti a casa, preferita ai seggi elettorali.

         A spingere gli italiani ormai refrattari alle urne in maggioranza assoluta -ripeto- non sarà certamente la paura della sanzione proposta dal furbo di turno aprendo su di essa persino un dibattito, o qualcosa che gli assomiglia. A far tornare la voglia e l’interesse al voto, senza criminalizzarlo come interesse al malaffare, potrò essere solo, a mio modesto avviso, il ripristino del sistema proporzionale, che comincia del resto ad essere pubblicamente rimpianto anche da parti politiche che lo avevano ripudiato. Un sistema che già uno statista come Alcide Gasperi aveva proposto negli anni Cinquanta di correggere o compensare con un premio di maggioranza liquidato come una truffa dai comunisti. Che forse se ne saranno pentiti giù prima di cambiare nome, simbolo e altro ancora al partito travolto dalle macerie del muro di Berlino. Altre sono state forse le truffe seguite a quella immaginaria.

Pubblicato sul Dubbio

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